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Estetiche empiristiche

di Simona Chiodo

Arte come esperienza (1934) è un titolo che dà un’indicazione

importante: se vogliamo capire il significato della nozione di «arte» dobbiamo capire il significato della nozione di «esperienza», perchè, Dewey dice attraverso il titolo, l’«arte» è «come» l’«esperienza», cioè è un’«esperienza».

Dobbiamo concentrarci, allora, su Esperienza e natura (la prima edizione è del 1925 e la seconda edizione è del 1929) e soprattutto sul suo primo capitolo “Il metodo della filosofia”, nel quale Dewey articola la nozione di esperienza che fonda Arte come esperienza e a partire dalla quale è possibile capire perché l’arte è un’esperienza e, soprattutto, che cosa significa, qui, fare uso della nozione di espe-rienza e dei suoi corollari. Dewey unisce il significato della nozione di esperienza alla scelta di procedere attraverso un metodo di lavoro empirico: se usiamo «il vero metodo empirico», allora partiamo dal-l’«esperienza primaria» 1, perché «il metodo empirico richiede dalla filosofia […] che i metodi e gli oggetti rifiniti vengano rinviati alle loro origini nell’esperienza primaria […] [e] che i metodi e le conclusioni secondarie vengano ricondotti alle cose dell’esperienza primaria» 2. L’«esperienza primaria» è l’esperienza «rozza» 3 nella «sua generica banalità» 4, è, cioè, l’esperienza di Darwin che osserva «piccioni, bo-vini e piante da allevamento e da giardino» 5. E il metodo di lavoro empirico è, allora, lo strumento che considera l’«inclusiva integrità dell’“esperienza”», perché «assume questa integra unità come punto di partenza del pensiero filosofico» 6. Al contrario, «gli altri metodi cominciano sempre con i risultati di una riflessione che ha già separato nettamente il contenuto esperito, da un lato, e le operazioni e stati dell’esperire, dall’altro» 7. I risultati di Dewey sono due: il metodo di lavoro empirico dice che cosa è l’esperienza, perché considera anche il suo grado «primari[o]», radicale, e, soprattutto, dice che l’esperienza, se è anche il suo grado «primari[o]», radicale, non è «il contenuto esperito» «separato» dalle «operazioni» e dagli «stati dell’esperire». La filosofia empiristica di Dewey significa, al contrario, che, se un metodo di lavoro empirico agisce, allora lo spazio dell’oggetto («il contenuto esperito») non è diviso dallo spazio del soggetto (dalle «operazioni» e dagli «stati dell’esperire»). Quando Dewey ragiona sul significato della

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«parola “esperienza”» unisce il primo spazio al secondo spazio, perché la «parola “esperienza”» significa sia «il lavoro del campo, la semina, il raccolto e la mietitura, i cambiamenti del giorno e della notte, la pri-mavera e l’autunno, l’umidità e l’arsura, il caldo e il freddo» sia «colui che pianta e raccoglie, che lavora e gioisce, spera, teme, fa progetti, ricorre alla magia o alla chimica per aiuto, che subisce disastri o passa giorni fortunati» 8. La nozione di esperienza sulla quale Dewey ragiona non sottintende, «nella sua primaria integrità», «alcuna divisione tra atto e materiale, soggetto e oggetto» 9. E, se la nozione di esperienza, che significa l’unione dell’«oggetto» con il «soggetto», è il risultato della procedura empirica, allora nella procedura «non-empiric[a] […] l’oggetto e il soggetto, lo spirito e la materia […] sono», viceversa, «separati e indipendenti» 10. Dewey argomenta che l’unione tra og-getto e sogog-getto caratterizza il metodo della filosofia empiristica e che la divisione tra oggetto e soggetto caratterizza il metodo della filosofia non empiristica.

Ma il resoconto di Dewey su che cosa caratterizza la filosofia empi-ristica e che cosa caratterizza la filosofia non empiempi-ristica ha un’alterna-tiva importante, che ha una direzione contraria, perché è possibile dire che l’uso di un metodo di lavoro empirico sottintende la divisione, e non l’unione, tra oggetto e soggetto. L’unione è un risultato, è il risul-tato ultimo di una procedura empirica. E la condizione di possibilità dell’unione dell’oggetto con il soggetto è la divisione del primo dal secondo: se credo che il sole che osservo sia diviso, cioè eterogeneo

ex parte aut in toto, dal mio sguardo, allora ho la possibilità di dare

una rappresentazione del sole fondata sulla credenza che il sole ecceda, comunque, la mia rappresentazione. Ed è questa, non quella di Dewey, la posizione che caratterizza la filosofia empiristica, considerata anche attraverso il quid specifico che le sue articolazioni storiche, sia sincroni-che sia diacronisincroni-che, conservano. Il filosofo sincroni-che usa il metodo di lavoro empirico crede che l’oggetto che osserva ecceda la rappresentazione che dà dell’oggetto, perché l’oggetto è dato, anche se è formato dallo sguardo dell’osservatore, perché lo sguardo dell’osservatore, anche se ha il potere di vedere un oggetto ad hoc, non ha il potere di costruire un oggetto ad hoc: da Hume agli empiristi logici di Vienna e di Berlino il quid specifico che il filosofo che usa la procedura empirica conserva è la credenza che, anche se non ho la possibilità di dimostrare che il sole che osservo è diviso, cioè eterogeneo, autonomo ex parte aut in

toto, dal mio sguardo, perché lavoro attraverso il mio sguardo, «se

esamino il sistema tolemaico e quello copernicano, con le mie indagini mi sforzerò solo di arrivare a conoscere la condizione reale dei pianeti; cioè, in altre parole, cercherò di dare ad essi, nella mia rappresenta-zione, le medesime relazioni in cui si trovano l’uno con l’altro nei cieli» 11. E credo addirittura che «la verità o la falsità non mutano con il mutare delle percezioni degli uomini. Se anche tutta la specie umana

dovesse definitivamente concludere che il sole si muove e la terra sta ferma, il sole non si sposterebbe certo di un pollice dal suo posto per tutti questi ragionamenti, e queste conclusioni rimarrebbero eterna-mente false ed errate» 12. Da Hume, qui citato, agli empiristi logici di Vienna e di Berlino il filosofo che usa il metodo di lavoro empirico crede che «il sole non si sposterebbe di un pollice» «se anche tutta la specie umana dovesse definitivamente concludere che il sole si muove» – il filosofo che usa il metodo di lavoro empirico crede che l’oggetto osservato, anche se è visto attraverso la sua rappresentazione, non sia costruito dalla sua rappresentazione, perché, e ancora, eccede la sua rappresentazione, dalla quale non è dato, ma alla quale è dato.

Dewey afferma che la filosofia empiristica è fondata sull’unione già data tra oggetto e soggetto, e non sulla loro divisione, cioè sulla loro unione non ancora data, perché è un pragmatista. La filosofia empi-ristica di Dewey è la filosofia empiempi-ristica di un pragmatista. Quando Davidson domanda se la filosofia empiristica ha altri dogmi a parte i due dogmi sottolineati da Quine, che fa riferimento soprattutto all’em-pirismo logico, risponde che la filosofia empiristica ha un terzo dogma, cioè il «dualismo tra schema e contenuto, tra un sistema organizzante e un qualcosa che attende d’esser organizzato», che è «forse l’ultimo, perché se lo abbandoniamo non saprei dire se rimanga qualcosa di specifico da poter chiamare empirismo» 13. Secondo Davidson il terzo dogma dell’empirismo, che è anche il quid specifico dell’empirismo, è la divisione tra lo spazio dell’oggetto («contenuto») e lo spazio del sog-getto («schema»), che è la posizione che secondo Dewey caratterizza, al contrario, la filosofia non empiristica. Il resoconto di Davidson dice la verità: la tradizione filosofica dell’empirismo conserva, anche quando varia nel corso della sua storia, la credenza che l’oggetto non sia già unito al soggetto, cioè alla sua rappresentazione – perché l’oggetto, al contrario, ha il potere di sorprendere il soggetto, cioè di fare variare la sua rappresentazione, dalla quale è creduto eccedere. Ma Dewey è soprattutto un pragmatista. E un pragmatista crede che il potere essenziale da sottolineare non sia la capacità che l’oggetto ha di fare variare la sua rappresentazione, ma, viceversa, la capacità che la sua rappresentazione ha di fare variare l’oggetto – un pragmatista crede che sia soprattutto il soggetto ad avere un potere straordinario, che è il potere di fare l’oggetto attraverso la sua rappresentazione, al variare della quale l’oggetto varia.

Ma un quid specifico, ed essenziale, che caratterizza la filosofia em-piristica marca anche il pragmatismo di Dewey, che sigilla un risultato notevolissimo, da conservare ancora, a quasi un secolo di distanza. Il

quid specifico risponde alla domanda che chiede perché serve scegliere

il metodo di lavoro empirico versus gli altri metodi di lavoro. E Dewey dice: «il metodo empirico indica quando e come e dove sono state conseguite le cose cui si riferisce una descrizione designata. Mette di

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fronte agli altri una mappa della strada che è stata percorsa; se vo-gliono essi possono ripercorrere in modo analogo quella strada per guardare il passaggio per conto loro. Così le scoperte di uno possono essere corrette ed estese dalle scoperte degli altri, con quella certezza umanamente possibile di conferma, estensione e correttezza. […] Il ricercatore scientifico persuade gli altri non con la plausibilità delle sue definizioni e la forza necessitante della sua dialettica, ma mettendo di fronte ad essi il corso dettagliato dei tentativi, delle operazioni e degli arrivi, in conseguenza dei quali sono state trovate certe cose» 14. Dewey dà, qui, una lezione magistrale: lavorare a una nozione di espe-rienza a partire da un metodo di lavoro empirico significa considerare l’esperienza tout court, sia dell’«arte» che è un’«esperienza» sia del «ricercatore scientifico», il risultato di una relazione tra áisthesis ed

epistéme, il risultato, ancora, di una relazione tra spazio dell’oggetto

(dell’oggetto aisthetós, cioè “sensibile”, che è sentito dal soggetto) e spazio del soggetto (del soggetto epistámenos, cioè “conoscitore”, che conosce l’oggetto). Dewey sottolinea un dato essenziale, e radicale: fare esperienza significa, comunque, sia nell’arte sia nella scienza, ma anche nella nostra esistenza quotidiana, metterci in relazione con

l’ái-sthesis – fare esperienza significa, comunque, fare esperienza “estetica”,

perché il metodo di lavoro empirico, che è il metodo di lavoro scelto, fonda l’epistéme lato sensu, che comincia dalla conoscenza che dirige la nostra esistenza quotidiana e arriva sia all’arte sia alla scienza, sulla sensibilità, sullo spazio dell’oggetto sensibile considerato in relazione allo spazio del soggetto conoscitore.

Ma, ancora, relazione non significa solo unione data già – relazione significa anche unione da dare ancora, unione che conserva, comun-que, la diversità dei due spazi in relazione, unione che non arriva alla fusione e, insieme con la fusione, al potere che il soggetto ha di fare l’oggetto attraverso la sua rappresentazione.

Dewey è diviso, qui, dalla tradizione dell’empirismo europeo, cioè dall’empirismo che non è contaminato dal pragmatismo. La diatriba tra Dewey e Reichenbach, unita alle osservazioni di Russell, è istruttiva. Sia Reichenbach sia Russell partecipano allo studio The philosophy of John

Dewey curato da Schilpp, pubblicato nel 1951, cioè prima della morte

di Dewey. Reichenbach scrive Dewey’s theory of science e Russell scrive

Dewey’s new logic 15. Ed entrambi ragionano sul cardine della nozione di esperienza, et ergo della nozione di esperienza estetica, di Dewey, che è il suo empirismo pragmatistico. Reichenbach esemplifica attra-verso un caso quasi classico: «Il pescatore che fa andare il suo remo in acqua e vede il remo storto […] dice che questa è solo apparenza e che in verità il suo remo non è storto» 16. Secondo Reichenbach l’osservazione del pescatore è corretta: il remo in acqua è visto storto, ma non è storto. Il remo, sia fuori dall’acqua sia in acqua, è, sic et

nel caso del remo messo in acqua è causato dal fatto che non ha la ca-pacità di correggere l’oggetto visto in riferimento alle condizioni fisiche straordinarie nelle quali l’oggetto è presentato» 17. E sceglie un lessico filosofico sintomatico: il remo dritto è «oggettivo» e il remo storto è «soggettivo» 18. Secondo Dewey, al contrario, il remo dritto è «reale» e il remo storto è, ancora, «reale» 19. E cioè: il remo storto non è «rea-le» secondo Reichenbach ed è «rea«rea-le» secondo Dewey. Reichenbach crede che la scelta lessicale, e filosofica, di Dewey sia generata dalla paura che la scelta alternativa, che è quella dell’empirista logico, porti a una nozione analoga a quella di «“cose in sé” elaborata da Kant» 20, che, secondo il pragmatista, ha in sé il pericolo di dividere, ancora, lo spazio dell’oggetto dallo spazio del soggetto, perché sottintende la divi-sione tra la cosa «oggettiva», cioè non sottoposta alla, e non data dalla, rappresentazione del soggetto, e la cosa «soggettiva», cioè sottoposta alla, e data dalla, rappresentazione del soggetto. Secondo Dewey, al contrario, c’è uno spazio, non due, perché lo spazio che c’è è lo spazio dell’unione, già data, tra «ciò che gli uomini fanno e soffrono, ciò che ricercano, amano, credono e sopportano» (lo spazio dell’oggetto) e «il

modo in cui gli uomini agiscono e subiscono l’azione esterna, i modi in cui essi operano e soffrono, desiderano e godono, vedono, credono,

immaginano, cioè i processi dell’esperire» 21 (lo spazio del soggetto). Dewey ha paura che la divisione tra il remo «oggettivo» (dritto) e il remo «soggettivo» (storto) significhi anche quella divisione tra l’oggetto e il soggetto che introduce, anche, una metafisica sui generis, che sepa-ra gli individui dalle cose, perché toglie agli individui la possibilità di arrivare alla verità delle cose, chiusa in uno spazio di «oggettiv[ità]» diviso dagli individui, diviso, cioè, da uno spazio di «soggettività» che chiude gli individui dentro le sue pareti e non lascia possibilità di usci-ta. Ma Reichenbach risponde che le «cose oggettive» degli empiristi logici «non sono una specie di “noumeno”», perché secondo gli empi-risti logici «le cose non osservabili» non sono «non conoscibili» 22, ma sono, sic et simpliciter, non conosciute hic et nunc, cioè non conosciute ancora, ma «conoscibili», perché è sbagliato non considerare possibile la variazione futura dei limiti della condizione presente, e dei suoi risultati. Secondo Reichenbach «il lessico del pragmatista, che chiama reali le cose soggettive», non è corretto ed è, comunque, meno corretto del lessico dell’empirista logico, che dice che «le cose soggettive non sono reali» 23.

Il cardine della diatriba sta qui: Reichenbach divide il remo «og-gettivo» dal remo «sog«og-gettivo» perché non crede che la divisione tolga al soggetto la possibilità di unione con l’oggetto, e con la sua verità, attraverso la rappresentazione. Se sono su una barca e vedo il remo in acqua storto credo che la rappresentazione che dice che il remo è storto sia falsa perché credo di avere a disposizione altri strumenti attraverso i quali rappresentare la verità del remo, che è dritto fuori

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dall’acqua ed è dritto in acqua, e attraverso i quali arrivare, in ultimo, all’unione con l’oggetto, e con la sua verità. Viceversa, Dewey non divide il remo «oggettivo» dal remo «soggettivo» perché crede che la divisione tolga al soggetto la possibilità di unione con l’oggetto, e con la sua verità, attraverso la rappresentazione. Se sono su una barca e vedo il remo in acqua storto credo che la rappresentazione che dice che il remo è storto sia vera perché credo di non avere a disposizione altri strumenti attraverso i quali rappresentare la verità del remo, che è dritto fuori dall’acqua ed è storto in acqua, e attraverso i quali arri-vare, in ultimo, all’unione con l’oggetto, e con la sua verità. Il cardine del pragmatismo di Dewey sta qui: non ho la possibilità di affermare che, se ho due rappresentazioni diverse di un oggetto (il remo è dritto e il remo è storto), la prima è vera comunque, cioè è vera anche al variare delle condizioni pragmatiche di visione, e di uso, dell’oggetto. Ho due uscite possibili da qui: la prima è dire che non ho condizioni di affermazione della verità dell’oggetto «reale», perché, se il remo è dritto fuori dall’acqua ed è storto in acqua, allora il remo «reale», che è un oggetto diverso al variare delle sue condizioni pragmatiche di visione, e di uso, non c’è e, se c’è, se non posso sapere a quale condizione pragmatica di visione, e di uso, corrisponde, allora non ho la possibilità di dire che cosa è. La seconda è dire che ho condizioni di affermazione della verità dell’oggetto «reale», perché, se il remo è dritto fuori dall’acqua ed è storto in acqua, allora il remo «reale», che è un oggetto diverso al variare delle sue condizioni pragmatiche di vi-sione, e di uso, c’è, perché è il remo dritto se il remo è fuori dall’acqua ed è il remo storto se il remo è in acqua e, se posso sapere a quale condizione pragmatica di visione, e di uso, corrisponde, allora ho la possibilità di dire che cosa è. Dewey sceglie la seconda uscita, perché salva la possibilità di verità, cioè di unione tra lo spazio «oggettivo» e lo spazio «soggettivo», attraverso il superamento della divisione tra che cosa l’oggetto è (il remo è dritto), che è quello che non varia al variare delle sue condizioni di visione e di uso, e che cosa l’oggetto non è (il remo è storto), che è quello che varia al variare delle sue condizioni di visione e di uso – Dewey salva la possibilità di unione tra lo spazio «oggettivo» e lo spazio «soggettivo» attraverso l’unione data già, e non da dare ancora, tra che cosa l’oggetto è e che cosa l’oggetto sembra essere al variare delle sue condizioni di visione e di uso. Il remo di Dewey è che cosa il remo sembra essere al variare delle sue condizioni di visione e di uso.

Il pragmatismo di Dewey sceglie, qui, una soluzione alternativa alla tradizione dell’empirismo classico, che divide le qualità secondarie dalle qualità primarie. Reichenbach avverte: «lo scienziato mostra che i colori in generale sono i prodotti degli organi umani di percezione [e che] l’occhio di un uomo normale ha una possibilità di percezione as-sai limitata, che siamo ciechi di fronte ai colori, anche ciechi tout court,

in riferimento alle onde elettriche al di fuori da una sezione ridotta di lunghezze d’onda. Anche il dibattito filosofico ha fatto riferimento a questo dato: se i nostri occhi potessero percepire i raggi ultravioletti e i raggi infrarossi il mondo avrebbe più colori e sembrerebbe diverso da quello che sembra adesso. Se i nostri occhi potessero percepire i raggi cosmici, il cielo di notte sarebbe luminoso e avrebbe una zona di luminosità massima in prossimità della galassia, eccetera. Credo che il fisico sia abbastanza ragionevole quando nega un lessico nel quale queste variazioni sarebbero chiamate variazioni del mondo oggettivo o reale» 24. Il colore, che l’empirismo britannico del Seicento e del Sette-cento, ma anche l’empirismo logico di Reichenbach, identifica con una qualità secondaria, è secondo il pragmatismo di Dewey quasi una qua-lità primaria, cioè segue il funzionamento di una quaqua-lità primaria. Se A vede X di colore azzurro e B vede X di colore blu, allora X azzurro è «reale» e X blu è, ancora, «reale», perché la «real[tà]» è l’oggetto del quale gli individui, che sono sia A sia B, fanno esperienza. X non ha un colore diviso, cioè autonomo, dal colore che A e B vedono – an-cora, l’oggetto non ha uno spazio di esistenza diviso, cioè autonomo, dallo spazio di esistenza che i soggetti vedono. Il remo non ha uno statuto ontologico diviso, cioè autonomo, dallo statuto ontologico che i pescatori vedono. Il colore, che secondo l’empirismo classico è la qua-lità secondaria par excellence, è secondo il pragmatismo di Dewey la «real[tà]» dell’oggetto, non la qualità secondaria, cioè «soggettiv[a]», che segna la riga di separazione tra che cosa un oggetto è (il remo è dritto) e che cosa un oggetto sembra essere (il remo è storto, ma anche X è azzurro e X è blu). La tradizione dell’empirismo che Dewey non segue afferma: ci sono qualità «oggettiv[e]» (primarie), che possiamo determinare, perché non variano al variare della «soggettiv[ità]», cioè non variano se passiamo dal soggetto A al soggetto B, e ci sono quali-tà «soggettiv[e]» (secondarie), che non possiamo determinare, perché variano al variare della «soggettiv[ità]», cioè variano se passiamo dal soggetto A al soggetto B. Dewey sembra credere che la posizione em-piristica classica significhi la perdita di una condizione importante, e di un suo corollario altrettanto importante: le qualità «soggettiv[e]»