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Esperienza estetica e anestesie dell’esperienza

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 165-177)

di Pietro Montani

1. Tra le grandi estetiche filosofiche della modernità, quella di John Dewey si caratterizza per un’opzione teorica di fondo che, insieme ad alcune implicazioni che ne derivano, la rende particolarmente idonea, almeno dal punto di vista che adotterò in questo contributo, a fun-gere da termine di confronto per alcuni rilevanti eventi estetici del nostro tempo. Preciso subito che questi eventi non riguardano tanto la prassi artistica contemporanea – la cui sostanziale irriducibilità al quadro categoriale deweyano è sotto gli occhi di chiunque – quanto le trasformazioni che sono intervenute nella nostra comprensione comune di che cosa significhi fare e condividere esperienze e il processo, forse ancor più significativo, per cui l’esperienza è diventata per certi aspetti una merce che si può acquistare.

Ho usato l’espressione “opzione teorica” a ragion veduta. Il prag-matismo di Dewey è infatti una filosofia militante, che non si sottrae alla responsabilità di definire ciò che appare più meritevole di essere elevato a dignità di oggetto di riflessione. Ciò vale innanzitutto per il suo concetto di “esperienza”, che riposa su un’assiologia, del tutto esplicita, relativa alle specifiche condizioni di sussistenza e di autocom-prensione della vita biologica dell’uomo, a cominciare dalle modalità, non generalizzabili, del suo adattamento tipicamente contrassegnato da espansione e trasformazione. È sotto questo profilo per così dire “darwiniano”, del resto, che Dewey può arrivare a determinare i con-notati di un’esperienza genuina, contrapponendoli a quelli di un espe-rire inautentico.

Bisognerà dunque convenire sul fatto che quella di Dewey è innan-zitutto un’estetica fisiologica che pone al centro della riflessione il rap-porto determinante tra organismo e ambiente. Per essere più precisi: si tratta di un’estetica che prende le mosse dall’interazione tra la peculiare sensibilità del corpo umano – pulsionalità, percezione, immaginazio-ne, emozioni, senso del possibile, bisogno di condivisione – e ciò che questa sensibilità riceve, elabora e trasforma. Il carattere interattivo in senso pieno di questa relazione richiede di essere accuratamente sot-tolineato, e ci tornerò più volte: ciò che la sensibilità umana riconosce nell’ambiente non è tanto una semplice materia da mettere in forma (cognitivamente e operativamente) o un territorio neutrale in cui

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dersi; è, piuttosto, una indeterminata e ricca molteplicità di stimoli da cui estrapolare di volta in volta alcuni “tratti capitali” (avrebbe detto Nietzsche): le “affordancies” o proprietà sopravvenienti – diremmo for-se oggi – che fanno dell’ambiente reale un’ambiente che appare “di-sponibile” proprio in quanto non è immediatamente sotto-mano ma oppone resistenza, che coopera con le esigenze della vita solo in forza di continue riorganizzazioni del rapporto interattivo. Ma che preserva, e questo punto come si vedrà più avanti è decisivo, ampie zone di ir-riducibilità all’azione organizzante dell’uomo. Se così non fossse, del resto, l’esperienza perderebbe ogni autentica creatività.

Ho descritto l’opzione teorica di fondo dell’estetica di Dewey ricor-rendo a una terminologia e, più in generale, a una Stimmung filosofica che rinvia intenzionalmente a Nietzsche, cioè a un autore che in Arte

come esperienza (d’ora in avanti AE) non viene mai preso in

consi-derazione. Ma l’attinenza, che non è diretta, si potrebbe facilmente dimostrare lavorando sul testo. Come, per altri versi, sarebbe facile emendare la singolare incomprensione che Dewey dimostra per Kant, la cui estetica filosofica presenta invece larghissime e decisive conver-genze con l’oggetto essenziale del suo pensiero. Che è, ad evidenza, l’idea di una condizione (in senso rigoroso) estetica dell’esperienza in genere.

Anche l’estetica di Kant, come quella di Dewey, è una «filosofia non speciale» – per usare la felice formulazione di Emilio Garroni ridiscus-sa, in questo libro, da Leonardo Amoroso – solo che, a differenza di quella di Dewey (e di Nietzsche), non è riferita a un orizzonte assiolo-gico. E, soprattutto, non è interessata alla questione della vita nel senso sopra indicato. Ciò conforta l’osservazione da cui ho preso le mosse e mi consente di enunciare una prima precisazione. Quando ho detto che l’apertura filosofica dell’estetica di Dewey è particolarmente idonea a fungere da termine di confronto rispetto ad alcuni eventi estetici che caratterizzano il nostro tempo, pensavo innanzitutto al suo interesse per la «creatura vivente» (che dà il titolo al primo capitolo del libro), e a come quest’ultima sia diventata, da qualche decennio in qua, oggetto di profonde trasformazioni che hanno comportato il profilarsi di nuovi paradigmi concettuali e disciplinari (dalla bioetica alla biopolitica, per fare solo due esempi). Ora, il punto per me decisivo è il seguente: seb-bene in modo largamente inavvertito, è accaduto che nell’epoca della bioetica e della biopolitica anche la sensibilità della creatura vivente si sia modificata, in modo tanto rilevante quanto irriducibile ai modelli teorici con cui in genere abbiamo fin qui registrato e interpretato queste modificazioni. È in atto, in altri termini, una trasformazione nel “senti-re” del vivente che aspetta ancora di essere adeguatamente esplorata.

Ci tornerò, naturalmente. Non prima, però, di aver brevemente discusso due conseguenze dell’opzione deweyana per l’interazione tra organismo e ambiente che mi sembrano interessanti per misurare la

portata delle trasformazioni intervenute nell’esperienza estetica – e

dun-que nell’esperienza in genere – nel nostro tempo.

La prima conseguenza riguarda la questione della tecnica. È del tut-to significativo, mi pare, che nelle battute iniziali del suo libro Dewey dichiari che «per comprendere l’estetico nelle sue forme fondamentali e riconosciute, si deve cominciare dal considerarlo allo stato grezzo» (AE, 32). E che esemplifichi questa presenza diffusa dell’estetico nella vita quotidiana con una serie di immagini che sottolineano il rapporto dell’uomo con la tecnica: «l’auto dei pompieri che passa; le macchine che scavano enormi buchi nel terreno; l’uomo mosca che si arrampica sul fianco del campanile; le persone appollaiate su alte travi sospese mentre lanciano e afferrano bulloni incandescenti» (ibid). Ciò che ci attrae e ci procura piacere in questi spettacoli non è solo il naturale prolungamento della vita dell’uomo in artefatti tecnici – ciò, dopotutto, caratterizza l’uomo fin dalla sua comparsa – ma anche e soprattutto il fatto che in questo genere di prolungamenti il «senso della vita im-mediata» risulti intensificato (AE, 34).

L’estetico allo stato grezzo, dunque, è una qualità che traspare dal-l’operare tecnico dell’uomo e dai suoi artefatti quando questi si mostri-no dotati della capacità di far sentire l’espansione della vita in forme di organizzazione dotate di coerenza e di unità. Una capacità che, secondo la tesi centrale e caratterizzante del libro di Dewey, si manifesta nelle opere d’arte in modo sviluppato, accentuato (AE, 38) e fine a se stesso, cioè provvisto di una tale congruenza da portare in sé il proprio signi-ficato. Da questo punto di vista, l’arte è, eminentemente, una modalità di esperienza “ben formata” che si mostra, senza altri scopi, nel suo organico procedere verso una «consummation», una sanzione di com-pimento che non coincide con la conclusione del processo esperienzia-le perché, piuttosto, è incorporata nell’opera stessa, è l’opera stessa in quanto modello di un “buon” esperire. Ma non bisogna dimenticare – anche se Dewey è spesso incline a farlo – che un “buon” esperire è, innazitutto, un modo di accertare che l’espansione della vita umana si avvale “naturalmente” di artefatti tecnici.

Questo punto fa problema nell’estetica di Dewey e nella sua stessa concezione dell’esperienza. Da un lato, infatti, egli sembra pensare la tecnica come un elemento costitutivo della vita umana. L’interazione dell’organismo umano con l’ambiente, in altri termini, gli appare indis-sociabile da mediazioni di carattere tecnico. Di più: è proprio in virtù della tecnica che l’adattamento specifico dell’uomo assume la forma caratteristica dell’espansione creativa. Dall’altro lato, tuttavia, e proprio quando il suo discorso transita dall’estetico allo stato grezzo all’estetico raffinato in arte, la sua concezione della tecnica sembra attestarsi sul piano, assai più convenzionale, di un’interpretazione puramente stru-mentale. Come se l’estetico tendesse a ritirarsi dall’operare tecnico per concentrarsi esclusivamente in quello artistico. Ciò rende conto tra

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tro – ma non intendo soffermarmi su questo aspetto – della confusione tra esteticità e artisticità che spesso danneggia il testo deweyano, e della discutibilissima intercambiabilità tra i due termini che altrettanto spesso ne oscura le formulazioni. Dewey non potrebbe mai scrivere, per fare un solo esempio, che «L’arte è una qualità che permea l’espe-rienza» (AE, 311), se questa oscillazione non restasse sostanzialmente irrisolta. Ciò che permea l’esperienza, infatti – ed è proprio Dewey ad avercelo fatto vedere – non è l’arte ma la qualità estetica. Tornerò anche su questo punto. Per ora mi limito a sottolineare che l’estetica di Dewey è intimamente, anche se problematicamente, connessa con la questione del rapporto tra vita e tecnica.

Ciò mi consente di passare alla seconda conseguenza dell’opzio-ne teorica di fondo dell’estetica filosofia deweyana. La presenterò in questo modo. Il fatto che l’adattamento della creatura vivente umana sia caratterizzato da espansione e trasformazione non garantisce che la sensibilità dell’uomo sia sempre all’altezza della prestazione creativa che è connaturata al suo esperire. È vero, piuttosto, che può capitare all’uomo di volersi sottrarre alla ricchezza e alla complessità della sti-molazione sensibile cui è aperto e che il suo modo di interagire con l’ambiente si indebolisca, si contragga e si irrigidisca in schemi ripe-titivi, cioè perda, in ultima analisi, proprio il suo carattere interattivo. È anche questo, ad evidenza, un tema che ricorda Nietzsche e che Dewey esprime, per esempio, in questa notevole riflessione: «L’espe-rienza è il risultato, il segno e la ricompensa di quella interazione tra organismo e ambiente che, quando raggiunge la pienezza, si trasforma in partecipazione e comunicazione. Poiché gli organi sensoriali, con il relativo apparato motorio che vi è connesso, sono i mezzi di questa partecipazione, ogni e qualsiasi loro indebolimento, sia pratico che teo-rico, è al tempo stesso effetto e causa di un’esperienza di vita ridotta e offuscata. Le opposizioni tra mente e corpo, anima e materia, spirito e carne hanno tutte origine fondamentalmente nella paura di ciò che la

vita può produrre. Sono segni di contrazione e di arretramento» (AE,

49, corsivo mio).

Altrove (AE, 65) Dewey parla, a questo proposito, di «esperienze anestetiche», e le caratterizza da un lato come esperienze frammen-tate e inconcludenti, incapaci di legarsi organicamente in un tutto, dall’altro come esperienze congelate e irrigidite, incapaci di rompere il sicuro protocollo di una connessione puramente meccanica. Bisogna qui aggiungere una considerazione, che non è tematica nel testo dewe-yano (mentre lo è, per esempio, in Nietzsche). Il punto è che senza una qualche parziale anestetizzazione l’esperienza dell’uomo, proprio in forza del suo peculiare radicamento in una sensibilità “aperta”, ri-sulterebbe, per così dire, sovraesposta, frastornata e disorientata dalla molteplicità delle stimolazioni ricevute. Cosicché una delle funzioni dell’arte potrebbe essere proprio quella di costituirsi come una zona

franca in cui a questa pluralità si potesse dare libero corso, con l’obiet-tivo di esibire il lavoro – certo particolarmente complesso – con cui essa riesce comunque ad accedere alla sanzione di una forma com-piente. O addirittura (ma qui siamo già oltre Dewey: ci tornerò nelle battute conclusive) a mancarla, mostrandone tuttavia – cioè mettendole in forma – le motivazioni.

Vorrei trarre almeno una conclusione da questa rapida ricognizione dell’estetica fisiologica di Dewey, di cui ho posto in evidenza la centralità della questione della vita biologica e del corpo senziente, il rapporto necessario, anche se assai problematico, con i prolungamenti tecnici di questo corpo (con le sue protesi sensibili, si potrebbe dire) e infine il risvolto regressivo e, alla lettera, “an-estetico” che affligge, altrettanto necessariamente, l’esperienza umana nella forma di una singolare paura per le sue stesse potenzialità creative e di un potente desiderio di assicu-razione e di stabilità. La conclusione è che la riflessione di Dewey sulla condizione estetica dell’esperienza in genere e sull’arte come modello di un’esperienza autentica deve indurci a porre sotto osservazione il dosaggio tra quanto di estetico e quanto di anestetico è necessario che intervenga nella relazione tra organismo e ambiente affinché questa

salva-guardi il suo genuino carattere interattivo e a domandarci se nella

deter-minazione di questo dosaggio i dipositivi tecnici a cui la creatura vivente umana delega parti crescenti della sua sensibilità non rivestano un ruolo particolarmente incisivo. Ci si può chiedere, in altri termini – ed è ciò che farò nella seconda parte del mio contributo – se un eccesso di delega nei confronti dei dispositivi tecnici nei quali si prolunga la sensibilità umana non comporti anche un’interruzione del carattere genuinamente

interattivo della nostra relazione con l’ambiente trasformandola in una

relazione tendenzialmente autoreferenziale, nella quale ciò che definiamo “ambiente” avrebbe perduto precisamente il tratto dell’imprevedibilità e della contingenza e dunque non presenterebbe più, tendenzialmente, alcuna affordancy. Perché, se così fosse, esso avrebbe perduto proprio quella capacità di opporre resistenza nella quale risiede la motivazione principale dei processi di elaborazione e riorganizzazione creativa nei quali Dewey vede, a buon diritto, le premesse necessarie di un esperire autentico in quanto adattamento per espansione.

2. Bisogna dunque porre sotto osservazione i processi di tecnicizza-zione della vita che, da sempre attivi, hanno assunto nel nostro tempo connotati particolarmente vistosi, anche se ancora inadeguatamente chiarificati. Mi riferisco in particolare ai processi di progettazione

tec-nica della sensibilità, che oggi si servono di protesi mediali sempre più

pervasive, performative ed economicamente accessibili.

Non c’è dubbio che questi dispositivi protesici si costituiscano come i veicoli di una peculiare esperienza estetica; ma si tratta di capire se, e a che condizioni, quest’ultima risponda ai requisiti interattivi di

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sione e riorganizzazione indicati da Dewey. E che genere di

“consum-mation” esperienziale vi sia connessa.

Ebbene, è difficile sottrarsi alla conclusione che l’orientamento com-plessivo della progettazione tecnica della sensibilità vada oggi esatta-mente nella direzione opposta al concetto deweyano di esperienza este-tica, e cioè lavori a un livellamento, a una contrazione e a una potente canalizzazione del sentire.

Dewey, come molti prima e dopo di lui, aveva ben chiari i rischi di una trasformazione antropologica connessa con l’età della razionalità tecnica. Ma oggi dobbiamo fare i conti con un elemento nuovo, e an-cora non sufficienemente chiarito, su cui vorrei richiamare l’attenzione: mi riferisco al fatto che la progettazione tecnica della sensibilità ha un rapporto tanto significativo quanto profondo con la forma biopoliti-ca del potere, di cui costituisce anzi una decisiva infrastruttura, una sorta di “bioestetica” come mi è capitato di chiamarla. Ora, il punto che mi sembra davvero importante è che la giuntura delle due linee – quella biopolitica e quella “bioestetica” – si verifica precisamente sotto il segno di quell’istanza assicurativa nella quale Dewey vedeva il contrassegno certo di un’anestetizzazione dell’esperienza.

Assicurare la vita materiale è il progetto razionale, semplice e on-nipervasivo, del biopotere. Ma è anche il progetto essenziale della ra-zionalità tecnica, intesa nel senso ampio con cui un pensatore come Heidegger ci ha insegnato a interpretarla. Ora, uno dei tratti distintivi di questa convergenza consiste precisamente in un innesto diretto della razionalità tecnica su un corpo pulsionale sempre più vistosamente delegato a protesi tecniche. Ciò significa che una bioestetica tende a costituire le sue forme di vita a monte di ogni elaborazione del sen-tire. Che essa è, tendenzialmente, un’estetica della sensazione e non ancora un’estetica del senso. Che la sua direzione non è amancipativa ma regressiva. Insomma, più che un’estetica è, si potrebbe dire, una modalità an-estetica del governo della vita: l’esercizio di una ricettivi-tà tecnicizzata, contratta e inelaborata, cui corrisponde un’esperienza sempre più incapace di autoregolarsi perché sempre più incapace di espandersi nel campo di un’autentica interazione con l’ambiente. Del resto, è precisamente a queste condizioni che l’esperienza, come ho osservato all’inizio, può entrare in un processo di reificazione tale da trasformarla in oggetto di compravendita.

Credo che se ne debba trarre questa conclusione: l’estensione del campo di influenza delle protesi tecniche della sensibilità in funzione vicaria non coincide affatto, come riteneva almeno in parte Dewey, con un dispiegamento e un’intensificazione dell’aisthesis, né coincide, come vuole una tesi speculare molto fortunata, con un «delitto per-fetto» (Baudrillard) di cui sarebbe stata vittima la realtà, e si presenta, invece, come una vasta operazione anestetica che seleziona e mantiene attivi solo quei segmenti di sensibilità che possono essere canalizzati su

oggetti particolari (proprio come nel caso esemplare dei videogiochi, delle mappe interattive montate sugli autoveicoli o delle operazioni militari eseguite su ambienti reali riprodotti in simulazione elettronica). Per cui, in definitiva, il compimento, la “consommation” dell’esperienza può arrivare a coincidere con la sua ottimizzazione: che si tratti di una destinazione raggiunta col minimo dispendio di tempo e di esitazioni, o di un bombardamento “chirurgico”, o di un nuovo record da iscri-vere nella lista degli score di un videogame.

Se è vero, come credo, che la giuntura tra biopotere e protesi tec-niche della sensibilità si apre sul campo delle esperienze ottimizzabili, reificabili e mercificabili, allora la bioestetica è la forma attuale, e in-comparabilmente più pervasiva, dell’estetizzazione della politica di cui parlava Benjamin proprio negli stessi anni in cui Dewey scriveva il suo saggio. Resta da domandarsi se, in queste condizioni, una “politiciz-zazione dell’arte” possa ancora candidarsi a indicare le strade che si aprirebbero per il recupero di un’esperire autentico. E se quest’ultimo possa ancora avvalersi dei tratti distintivi con cui lo pensava Dewey.

Proverò, in conclusione, ad affrontare questa domanda limitandomi a disegnare, a grandi linee, il campo nel quale essa può aspettarsi di trovare delle risposte adeguate.

3. I concetti che dobbiamo riprendere da Dewey, per riesaminarli, sono due: l’interazione tra organismo e ambiente e l’idea di un com-pimento unitario e armonico del processo esperienziale esemplarmente esibito dall’opera d’arte.

Ho già detto all’inizio che il concetto di interazione va preso sul serio. Si tratta, cioè, di un rapporto in cui i cooperanti sono due, e che comporta, come sottolinea spesso Dewey, non solo attività e passività ma anche il pieno coinvolgimento dei due contraenti – l’organismo e l’ambiente – in un movimento che li trascende entrambi e che non può mai essere interamente dominato né dall’uno né dall’altro. In fondo Heidegger diceva più o meno la stessa cosa quando – di nuovo in quegli stessi anni, evidentemente cruciali – parlava dell’opera d’arte come lotta tra terra e mondo.

Com’è noto, le arti contemporanee, e soprattutto quelle che si av-valgono di nuove tecnologie, hanno enormemente enfatizzato l’idea di interattività. Il punto che è rimasto fin qui non sufficientemente chia-rificato, tuttavia, riguarda proprio il carattere duplice dell’interazione, su cui ho appena richiamato l’attenzione. Ci si potrebbe chiedere, in altri termini se gli oggetti tecnoestetici con cui si interagisce siano a tutti gli effetti assimilabili alle proprietà di un ambiente (contingenza, imprevedibilità, resistenza, relativa irriducibilità), o se non si tratti piut-tosto, perfino nei casi più complessi, di artefatti interamente gestiti da un programma e dunque tendenzialmente anestetici nel senso indicato da Dewey. La risposta potrebbe prospettare interessanti gradazioni,

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da un massimo a un minimo di autentica “ambientalità” registrabili, per esempio, nelle simulazioni elettroniche immersive che sempre più spesso mirano ad accreditarsi come proposte di esperienza estetica tecnicizzata (e si veda su questo punto la precisa presa di posizione illustrata in questo libro da Roberto Diodato). Ma, più radicalmente, ci si dovrebbe chiedere se le arti contemporanee interessate alle tec-nologie abbiano prospettato con sufficiente chiarezza il progetto di riqualificare specificamente l’orizzonte esperienziale di una sensibilità tecnicizzata. Un progetto che comporta da un lato la verifica del grado di apertura e di indeterminatezza estetica accessibile alle protesi tecni-che della sensibilità, dall’altro – e in modo tecni-che mi sembra ancor più

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