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L’estetica come filosofia dell’esperienza Rileggendo Dewey con Garroni

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 101-113)

di Leonardo Amoroso

Il progetto di una rifondazione dell’estetica nel senso di una filoso-fia dell’esperienza è stato autorevolmente proposto e approfonditamen-te sviluppato da un autore che è un riferimento imprescindibile nella storia recente dell’estetica italiana: Emilio Garroni. La sua proposta è ben presente a tutti noi. Sarà dunque sufficiente che la richiami dap-prima in maniera telegrafica, per passare subito dopo a valorizzare i riferimenti e le critiche di Garroni a Dewey. Seguendo la via indicata da Garroni, e sviluppandola come posso, cercherò di inquadrare l’ope-ra di Dewey in un orizzonte più ampio: quello della definizione teorica dell’estetica e, insieme, della riconsiderazione della sua storia.

L’estetica di Garroni è una «filosofia non speciale», come suona il sottotitolo dell’opera in cui essa è stata per la prima volta proposta:

Senso e paradosso 1. Non è una parte, magari marginale, della filosofia, dedicata a un’esperienza, quella dell’arte bella, tutto sommato secon-daria rispetto ad altre forme di esperienza (quella conoscitiva, quella morale, etc.), ma una filosofia dell’esperienza in genere. Ma ciò non significa che essa sia, d’altro canto, una «filosofia generale» al modo di una metafisica che pretenda di descrivere dall’esterno l’esperienza e le sue forme. Né filosofia speciale né filosofia generale, l’estetica intesa al modo di Garroni si configura invece, secondo quanto suggerisce il titolo stesso del libro, come un risalimento, all’interno dell’esperienza, verso il suo senso.

I pensatori ai quali Garroni si richiama nel proporre quest’estetica sono soprattutto Kant e poi Wittgenstein e Heidegger. Ma è significa-tivo anche il riferimento a Dewey. Quanto e perché lo sia risulta imme-diatamente chiaro da poche frasi di un’intervista concessa da Garroni, un anno prima della morte, a uno studente, Fiorenzo Ferrari, che gli stava dedicando la tesi di laurea 2. Alla domanda relativa, Garroni rispose: «L’estetica di Dewey è un’estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con l’ar-te, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il

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pranzo in un ristorante fran cese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una crociera, e così via».

Gli esempi qui ricordati da Garroni (e da lui più ampiamente di-scussi – come vedremo – in Senso e paradosso) sono addotti da Dewey nel terzo capitolo di Art as Experience 3, quello che ne conclude la par-te introduttiva, dedicata alla nozione di esperienza e al suo rapporto con la nozione di arte. Data l’importanza fondamentale di questi tre capitoli per il progetto di un’estetica come «filosofia dell’esperienza», ne richiamo, sia pur brevissimamente, i temi più significativi per quel progetto. Tuttavia, preciso subito che Dewey non si discosta dalla no-zione tradizionale (o, più precisamente, ottocentesca) di estetica come «filosofia delle belle arti» 4. Quello che critica è la concezione dell’arte e delle opere d’arte come un regno separato dell’esperienza: una con-cezione che, lungi dal valorizzarle, ne impedisce la comprensione. Per questo – argomenta – occorre invece acquisire consapevolezza della continuità fra l’esperienza estetica e l’esperienza ordinaria, riscoprendo quell’elemento estetico che è presente già in quest’ultima e che l’espe-rienza specificamente estetico-artistica sviluppa e accentua.

Dewey fa valere anche una continuità fra l’esperienza la natura, come risulta chiaro, del resto, fin dal titolo dell’opera che costituisce la premessa immediata di Art as Experience, cioè Experience and Nature 5. In questo modo, l’esperienza è ricondotta alla nozione, più generale, di «vita» e descritta, più precisamente, nel senso di un’interazione fra organismo e ambiente. L’esperienza è un «adattamento per espansio-ne» 6, una «vitalità intensificata» 7 che si produce quando una perdita dell’integrazione viene superata e si realizza una nuova integrazione: «L’esperienza è il risultato, il segno e la ricompensa di quella intera-zione tra organismo e ambiente che, quando raggiunge la pienezza, si trasforma in partecipazione e comunicazione» 8.

Già questa concezione dell’esperienza ha tratti che possiamo defi-nire “estetici”. Ma la qualità estetica dell’esperienza viene ricondotta da Dewey soprattutto a quella che si potrebbe chiamare la vocazione

dell’esperienza all’unità. Più che di «esperienza in generale», come fanno

i filosofi (compresi «gli empiristi»), è infatti opportuno parlare, dice Dewey richiamandosi al linguaggio comune, di «esperienze che sono ad una ad una singolari, dotate ciascuna di un proprio inizio e di una propria fine» 9. L’unità numerica (il fatto che l’esperienza sia sempre questa o quella esperienza determinata) trova per così dire il suo sug-gello – come già si evince dalla fine del passo appena citato – nell’unità qualitativa, quella che il linguaggio comune definisce accentando l’ar-ticolo: «Facciamo una esperienza quando il materiale esperito porta a compimento il proprio percorso. Allora e soltanto allora esso è integrato e delimitato da altre esperienze entro il flusso generale dell’esperienza. […] Un’esperienza del genere è un intero, e reca con sé la propria quali-tà individualizzante e la propria auto-sufficienza. È una esperienza» 10.

È in riferimento a quest’unità qualitativa, quella per cui un’espe-rienza può essere un «evento integrale» 11 (o, anzi, deve esserlo per valere come «una esperienza»), che Dewey ricorre agli esempi del pran-zo e della tempesta ricordati da Garroni. Solo alla fine di questo terpran-zo capitolo Dewey parlerà dell’esperienza specificamente estetica (quella in cui – anticipo – «vengono resi manifesti per loro stessi» i «fattori» 12

estetici di ogni vera esperienza). Subito prima porterà gli esempi di un’esperienza intellettuale e di un’esperienza pratica, dotate anch’esse di una qualità estetica. Ma prima ancora degli esempi relativi a queste tre forme elevate di esperienza (la conoscenza, l’azione e l’arte), che sono quelle per lo più tematizzate dai filosofi, Dewey porta volutamen-te esempi tratti dalla vita ordinaria.

Tuttavia, siccome quest’ultima è per lo più, purtroppo, non-estetica, quegli esempi hanno comunque qualcosa di straordinario. Per questo – osserva Dewey – si è soliti ricordarli qualificandoli come «vere espe-rienze» o commentando: «quella è stata un’esperienza». E non si tratta nemmeno necessariamente di esperienze «di grande importanza», che abbiano segnato la vita di una persona. Può trattarsi per l’appunto di «qualcosa di relativo scarso rilievo» (come quella tempesta e quel pranzo), ma che «proprio per il suo scarso rilievo mostra al meglio cosa può essere un’esperienza» 13.

Su quest’ultima osservazione fa leva Garroni – al quale possiamo adesso ritornare – per poter rintracciare in Dewey un’estetica «non speciale». In Senso e paradosso, in un denso riferimento a Dewey 14, Garroni sottolinea infatti che quegli esempi sono «non tipici», come sarebbero invece quadri e opere d’arte, e che rispetto a questi ultimi hanno addirittura una funzione euristica maggiore. L’hanno – argo-menta – perché, proprio in quanto non sono «tipici», «non possono passare come rappresentanti» di una «classe» di oggetti di «tipo pre-suntivamente estetico», cioè di un’ideale «collezione di oggetti artistici» «di tutti i tempi e di tutti i luoghi».

Seguiamo ancora Garroni nella sua interpretazione. Quel pranzo e quella tempesta nominati da Dewey sono stati real experiences 15 e possono dunque ben esemplificare ciò che merita di essere appunto chiamato «un’esperienza», cioè – commenta Garroni – «l’esperienza genuina, non parcellizata nel tempo». E ad esplicazione aggiunge im-mediatamente, dopo due punti: «l’esperienza come tale». Poche righe sotto, Garroni arriva a parlare di «esperienza in genere», traendo infine questa conclusione: «Quadri, pranzi, tempeste non sono che esempi di qualcosa che li rende possibili come esempi. Così che, in Dewey, una vera e propria riflessione sull’esperienza reale non può non essere che risalimento, all’interno dell’esperienza concreta, verso la sua condizione di possibilità, verso quell’“esperienza in genere“, anticipata a priori, che ci consente e di avere e di parlare di questa o quella esperienza».

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i quadri, cioè opere d’arte. Ne discuterò più avanti. Adesso vorrei invece soffermarmi su un ritorno ben più sconcertante: il riferimento all’«esperienza in genere», che Dewey sembrava avere tolto di mez-zo. Tuttavia, Garroni non vuol certo ricadere in posizioni filosofiche «astratte», proprie della filosofia moderna, dalle quali Dewey intendeva risolutamente uscire (come si è visto col suo riferimento all’empirismo. Ma il razionalismo non è certo meno «astratto»). Anche Garroni inten-de uscirne, ma in un modo diciamo meno sbrigativo di quanto gli pare che faccia Dewey, il quale, a suo avviso, non sfruttò «fino in fondo» «le possibilità di comprensione delle sue proprie tesi».

Garroni, dunque, rilancia il riferimento all’«esperienza in genere» e lo fa addirittura nella sua interpretazione di Dewey. Si potrebbe forse dir così: proprio l’«esperienza in genere», per essere pensata davvero, va pensata tenendo conto anche di quel tratto singolare, individuale, che caratterizza volta a volta l’esperienza appunto in quanto esperien-za, nel suo essere cioè esperienza concreta. Altrimenti ci si trova a che fare con un’astrazione che, nel caso dell’esperienza più che in altri, ci fa perdere l’essenziale. Questo riferimento all’individuale animò del resto a suo tempo il fondatore dell’estetica, Baumgarten, e già, anzi, la sua fonte: Leibniz. Si trattava, per esempio, di pensare il rapporto fra individualità e universalità (o fra singolarità e totalità) in un modo diverso da quello di una mera subordinazione logica di particolare e generale.

E quest’istanza ha poi animato, in vario modo, molti autori del-la successiva storia dell’estetica, per esempio (e non è certo un mero esempio fra gli altri) già il Kant della terza Critica 16, dove si parla per l’appunto, fra l’altro, di un’universalità, diversa da quella «logica», ri-vendicata – paradossalmente – da giudizi singoli e da singoli giudicanti. In generale, in quest’opera Kant compie un tentativo poderoso di pen-sare l’esperienza, pur restando a livello trascendentale, in modo meno astratto e «tautologico» (e, dunque, più specificato e determinato) di quanto non accada quando la si concepisce semplicemente dal punto di vista delle categorie dell’intelletto 17. Ma la possibilità di pensarla in tal modo, ha mostrato Garroni con ottimi argomenti, è offerta da Kant dalla scoperta di un principio e da una facoltà in senso lato «estetici»18

che permettono un «risalimento» dell’esperienza, dal suo interno, verso il suo «senso».

Abbiamo ritrovato questa formulazione (già citata in apertura, rias-sumendo telegraficamente Senso e paradosso) alla fine del brano di Gar-roni su Dewey, del quale vorrei ora citare alcuni punti (finora voluta-mente omessi) che avvicinano Dewey proprio a Kant in riferimento a un’«estetica non speciale», ovvero in riferimento a una filosofia dell’espe-rienza che riconosca come fondamentale in quest’ultima un «principio» (Kant) o una «qualità» (Dewey) estetici (in senso lato). L’excursus su Dewey è infatti introdotto, nel libro di Garroni, appunto a partire da

Kant, sia pure nel senso di voler mostrare come non ci sia «per niente bisogno di essere seguaci fedeli di una tradizione trascendentalista» 19

(quindi come non ci sia bisogno di riconoscersi kantiani) per far valere una concezione «estetica» dell’esperienza.

Poche righe più avanti, dove suggerisce (come abbiamo ricordato) che Dewey non avrebbe sviluppato compiutamente le «possibilità di comprensione delle sue proprie tesi», Garroni imputa questo fatto a «un qualche eccesso […] di vitalismo», che «impedì» a Dewey anche «di vedere le profonde consonanze tra il suo pensiero del Kant della

Critica del Giudizio, che anzi egli fraintese affatto» 20. Garroni torna poi brevemente su questo fraintendimento (o, quanto meno, su un suo aspetto) in un altro luogo del suo libro, quando, prima d’introdurre la sua interpretazione della terza Critica (quella secondo cui essa è il primo, fondamentale tentativo di un’estetica come filosofia dell’espe-rienza), sgombra il campo da ogni interpretazione riduttiva di quel-l’opera kantiana come quella, per esempio, che non vede in essa altro che un’«‘aggiunta’ al sistema critico già delineato – come ingenuamente e curiosamente pensava Dewey, e non solo lui – per completare la “trinità classica” del Vero, del Bene e del Bello» 21.

Vediamo più da vicino, e discutiamo (proseguendo lungo la via in-dicata da Garroni), l’argomentazione di Dewey. Con tutto l’amore per Kant, non si può dire che Dewey non abbia qualche ragione quando af-ferma che «Kant era un provato maestro nel tracciare prima distinzioni e nell’innalzarle poi a divisioni per compartimenti» 22. Ma la critica non coglie affatto nel segno nel caso del significato della terza Critica, che è senz’altro irriducibile (come Garroni ben argomenta e come anche il processo stesso della genesi di quest’opera conferma) a quello che vorrebbe Dewey. Quest’ultimo scrive, in riferimento alle tre critiche kantiane: «Dopo aver risolto il problema della Verità e del Bene c’era ancora da trovare una nicchia per la Bellezza, il termine che rimaneva della triade classica» 23. La parola «nicchia» (niche) era comparsa già nelle prime pagine di Art as Experience 24, cioè in quell’incipit polemico nel quale Dewey aveva criticato, nel contesto di una polemica più vasta (perché anche sociale e politica), ogni teoria che consideri l’arte come un regno separato, per esempio la concezione dell’esperienza estetica come mera contemplazione 25.

Ed è appunto nel contesto di una critica alla concezione dell’espe-rienza estetica come contemplazione (è opportuno sottolinearlo) che Dewey critica Kant. Con la sua estetica – afferma Dewey – «venne […] aperta la strada […] che conduce alla torre d’avorio della “Bellez-za” lontana da ogni desiderio, azione e turbamento dell’emozione» 26. Dewey ha ragione a dire che l’estetica kantiana è stata recepita anche (e forse soprattutto) in questo senso. È illuminante, al riguardo, il fatto che, più avanti, discutendo dell’inadeguatezza di varie teorie dell’espe-rienza estetica 27 e, nella fattispecie, di quelle che la intendono come

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una fuga dal mondo verso un altro mondo, al di là dell’esperienza, Dewey indichi in Schopenhauer il continuatore della teoria della con-templazione di Kant 28, considerandolo quasi l’interprete accreditato dell’estetica kantiana.

Ma quello di Schopenhauer non è l’unico (e non il più fedele) svi-luppo del tema kantiano della «contemplazione» e del «disinteresse» 29. Basti pensare, in alternativa, a Schiller 30, che – proseguendo in tutt’al-tro modo sulla strada indicata da Kant – vede nell’esperienza estetica non un vuoto, ma un pieno, nel senso che è proprio in essa che l’uomo può fare esperienza della propria integralità e della totalità delle sue possibilità 31: è da questo punto di vista che Schiller parla di educazione estetica e collega arte e politica. Non cito Schiller solo come obiezione all’interpretazione che Dewey dà di Kant. Lo cito anche perché ritengo che Dewey, trattando di arte, di educazione e di politica, riprenda a suo modo non pochi temi schilleriani. Una qualche conferma può venire da un’importante nota di Art as Experience che dice che la filosofia di Schiller è «un coraggioso tentativo da parte di un artista di sottrarsi al rigido dualismo della filosofia kantiana pur restando all’interno del quadro da essa delineato» 32.

La nota suggerisce – ed è certo un’osservazione convincente – che, una volta posto un dualismo, è poi difficile sottrarcisi o superarlo. E si può anche convenire sul fatto che, se possibile, è meglio tagliare a monte il dualismo, come appunto Dewey tenta di fare con la sua filo-sofia dell’interazione di organismo e ambiente. Ma in ogni caso, almeno il tentativo di superare il dualismo è già presente, con tutta evidenza, nella terza Critica di Kant. Ed è sorprendente che Dewey non lo colga, così come non coglie il significato positivo, e non «anemico» 33, della teoria del «disinteresse».

In Kant, infatti, il «disinteresse» dell’esperienza estetica fa tutt’uno (come poi in Schiller) con la sua libertà da costrizioni (sia dei sensi sia della ragione). E questo libero gioco, questa libertà estetica, è tale, come poi Kant argomenta, da vivificare l’animo 34 di chi fa tale esperienza e addirittura da congiungersi con gli interessi più alti dell’uomo 35. In questo senso l’esperienza estetica, con la sua peculiare finalità forma-le 36, s’inserisce, quale elemento centrale, in una teleologia cha vede nella cultura la continuazione della natura 37, come risulta ben chiaro nella seconda parte della terza Critica, dove sono centrali i temi della

vita e degli organismi (anche «artificiali», cioè culturali e politici) 38. Insisto su questi temi ben noti (ma, pare, non a Dewey) non solo per portare altre prove della tesi di Garroni di una consonanza tra la filosofia di Dewey e quella di Kant, ma anche per tentare un’interpre-tazione dell’affermazione di Garroni secondo cui il mancato riconosci-mento, da parte di Dewey, della consonanza fra la propria filosofia e quella (da lui fraintesa) di Kant dipende da un «eccesso di vitalismo». Forse – vorrei commentare – è stato tale eccesso a impedire a Dewey

di cogliere il «vitalismo moderato», per chiamarlo così, presente, come appena ricordato, nell’estetica e nella filosofia di Kant.

All’«eccesso di vitalismo» di Dewey Garroni imputa anche – come si è detto – il fatto che egli non seppe realizzare appieno le possibilità di comprensione della sua stessa filosofia. Anche a proposito di questa tesi vorrei suggerire una glossa: forse in Dewey la nozione stessa di «esperienza» rischia talvolta di essere di fatto impoverita per un

ec-cesso di vitalismo. Per chiarire questo paradosso, farò un rapidissimo

rimando a un altro pensatore importante per il progetto di Garroni di un’estetica come filosofia dell’esperienza. Heidegger ha distinto due modi opposti d’intendere l’esperienza: quello, inautentico, dell’Erlebnis (mera «esperienza vissuta», puntuale e superficiale) e quello, autentico, dell’Erfahrung (un incontro che trasforma) 39. È senz’altro possibile che così dicendo Heidegger sia un po’ manicheo. Ma è anche possibile che Dewey, nonostante che egli sostenga senz’altro una concezione del-l’esperienza come Erfahrung, l’appiattisca talvolta sul mero Erlebnis.

Ora però, a prescindere dal problema di questo eventuale scivola-mento di Dewey verso la mera esperienza vissuta e anche da quello, più generale, di ripensare la dicotomia Erlebnis-Erfahrung in relazione all’esperienza estetica, vorrei piuttosto concludere questo mio interven-to guardando al nesso di arte ed esperienza, nominainterven-to fin dal tiinterven-tolo del libro di Dewey e al problema del rapporto fra un’estetica intesa come filosofia dell’arte e un’estetica intesa come filosofia dell’esperienza. No-tavo prima che nel brano di Garroni che riporta gli esempi del pranzo e della tempesta compaiono di nuovo anche i quadri. La cosa pone qualche problema: più precisamente, il problema di una possibile dif-ferenza del carattere «esemplare» di questi due tipi di esempi. Forse si potrebbe distinguere dicendo che i primi sono – come osserva Dewey e come sottolinea Garroni – particolarmente significativi perché, pro-prio in quanto non convenzionalmente «artistici», svolgono la funzione euristica di farci riscoprire l’estetico già nell’esperienza comune, e di porre dunque le basi per una teoria dell’arte fondata nell’esperienza. Ma sono i secondi (i quadri e, in generale, le opere d’arte) ad essere effettivamente «esemplari», nel senso forte di Garroni, in quanto mani-festano esemplarmente le condizioni estetiche dell’esistenza. Dewey la pensa in modo simile: «Un oggetto è peculiarmente e prevalentemente estetico, e dunque consente il godimento caratteristico di una perce-zione estetica, quando i fattori che fan sì che qualcosa possa essere chiamata una esperienza sono innalzati molto al di sopra della soglia percettiva e vengono resi manifesti per loro stessi» 40.

In questo passo Dewey parla di «oggetti», ma più avanti distingue chiaramente fra i meri oggetti, cioè i «prodotti artistici», e le «opere d’arte», che si realizzano solo nell’esperienza che ne viene fatta 41. Que-sta distinzione (che chiarisce fra l’altro uno dei significati del titolo Art

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le opere d’arte intese come meri rappresentanti di una presunta classe oppure come occasioni esemplari per un’esperienza del senso. Il signi-ficato dell’aggettivo «esemplare» come lo usa Garroni ha poi qualche

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