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Didattica laboratoriale e mostre didattiche: quale impatto sulle competenze matematiche?

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Academic year: 2021

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Universit`a degli Studi di Pisa

DIPARTIMENTO DI MATEMATICA

Corso di Laurea Magistrale in Matematica

Tesi di Laurea Magistrale

Didattica laboratoriale e mostre didattiche:

quale impatto sulle competenze matematiche?

Candidato:

Marco Ravenna

Relatore:

Prof. Marco Franciosi

Controrelatore:

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Indice

1 Le IN 2012 e il concetto di competenza 8

1.1 La scuola delle Indicazioni Nazionali . . . 8

1.2 La competenza matematica . . . 9

2 Il laboratorio di matematica 13 2.1 Nuovi riferimenti per l’insegnamento della matematica . . . 13

2.2 Qualche cenno storico . . . 17

2.3 Qualche riferimento teorico . . . 19

3 Le mostre didattiche come strumento didattico 25 3.1 Un po’ di storia . . . 25

3.2 Le mostre didattiche oggi . . . 28

4 Un’esperienza laboratoriale 30 4.1 Il tirocinio e le attività svolte . . . 30

4.2 Laboratorio per la classe I: geopiani e poligoni . . . 31

4.3 Laboratorio per la classe II: tassellazioni dello spazio . . . 38

4.4 Laboratorio per la classe III: sezioni piane del cubo . . . 43

4.5 Osservazioni sui risultati ottenuti . . . 48

4.5.1 Laboratorio sui geopiani . . . 48

4.5.2 Laboratorio sulle tassellazioni . . . 49

4.5.3 Laboratorio sulle sezioni del cubo . . . 50

4.6 Modifiche ed adattamenti per diversi livelli scolari . . . 51

4.6.1 L’attività con i geopiani . . . 51

4.6.2 L’attività sulle tassellazioni . . . 52

4.6.3 L’attività sulle sezioni del cubo . . . 53

4.7 Le schede delle attività . . . 54

5 Discussioni e conclusioni 67 5.1 Costruzione della verifica . . . 67

5.2 Osservazioni immediate sulle prove . . . 68

5.2.1 Esiti dell’attività con i geopiani . . . 68

5.2.2 Esiti dell’attività sulle tassellazioni . . . 72

5.2.3 Esiti dell’attività sulle sezioni del cubo . . . 75

5.3 Osservazioni relative ad una visita alla mostra a Pisa . . . 80

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Abstract

Questo percorso di tesi intende analizzare l’impatto di strumenti quali il labora-torio e le mostre didattiche sull’apprendimento della matematica.

Con esplicito riferimento alle Indicazioni Nazionali 2007 e 2012 per la scuola secondaria di I grado vengono richiamati i concetti di Laboratorio di Matema-tica, mostra didatMatema-tica, test standardizzati e si mette in evidenza il ruolo delle competenze nella scuola di oggi.

Tali idee sono alla base dell’attività di tirocinio svolta in una scuola secondaria di I grado, che risulta essere base sperimentale per l’analisi condotta.

Nella tesi vengono raccontate le attività laboratoriali svolte in tre differenti classi e gli strumenti di verifica usati per capirne l’impatto sull’apprendimento degli studenti.

Le attività hanno riguardato i seguenti argomenti: relazioni tra massimo comun divisore e formazione di poligoni stellati con l’uso dei geopiani; tassellazioni dello spazio come introduzione alla geometria solida e esplorazione delle sezioni del cubo.

La verifica dell’impatto delle attività è stata fatta attraverso test standardiz-zati.

Nella tesi vengono analizzati i risultati e vengono descritti possibili suggeri-menti per contesti didattici differenti.

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Introduzione

In questo percorso di tesi, si è scelto di studiare come sia possibile organizzare percorsi didattici che si sviluppino da una mostra matematica e quale impatto tale approccio possa avere sulle competenze degli studenti.

Difatti, le mostre matematiche sono percorsi che, ospitando sia momenti di spiegazione su determinati ambiti matematici (anche riferiti a più discipline) sia momenti di sperimentazione e gioco con strumenti e oggetti su aspetti relativi alla mostra stessa, hanno sicuramente obiettivi divulgativi, ma possono dare spunto per approfondimenti didattici. Possono certamente costituire un ambiente in cui si può imparare divertendosi e, allo stesso tempo, generare curiosità da riprendere in aula per veri e propri percorsi didattici. L’idea di questa tesi è proprio quella di descrivere un possibile percorso didattico a partire dalle sollecitazioni provenienti sia dalla mostra La lunga storia della geometria sul piano, organizzata dai Laboratori Franco Conti, sia dalle mostre di geometria curate dall’associazione "Matematica in gioco" a Carrara.

La storia delle mostre matematiche è relativamente recente e la loro origine risale agli anni settanta, caratterizzati da un clima di sperimentazioni e di conta-minazioni tra il modello della scuola attiva e approcci di matrice strutturalista. Emma Castelnuovo (1913-2014) è stata una delle figure più importanti di questo fenomeno, progettando esposizioni di matematica dove i suoi allievi della scuola media "Torquato Tasso" di Roma erano al contempo protagonisti e artefici.

Quello della realizzazione di mostre non è però un fenomeno isolato, ma negli stessi anni si diffonde in altre città e con altri gruppi di ricerca. Ad esempio, a Pisa, agli inizi degli anni novanta, prese corpo l’idea di una mostra matematica con un tema centrale unitario presso la Scuola Normale Superiore e nel 1992 venne inaugurata Oltre il compasso, realizzata da Franco Conti con la collaborazione di Enrico Giusti. Era una mostra progettata per guidare il visitatore attraverso forme concrete, con un percorso che accosta l’astrattezza delle idee e del pensiero matematico alla corporeità degli oggetti e dei meccanismi, delineando una rete di corrispondenze tra concetti geometrici, meccanismi tecnici e costruzioni scientifici anche con i loro riferimenti storici. Ciò pone Pisa in una posizione di risalto nella tradizione delle mostre matematiche. Nelle province di Pisa e Livorno operano dal 2007, infatti, i Laboratori Scientifici "Franco Conti", con incontri in cui gli insegnanti condividono e confrontano esperienze e progettano insieme nuovo materiale didattico da sperimentare nelle classi e con mostre didattiche soprattutto sulla geometria sia piana sia solida con percorsi flessibili a seconda della classe in visita e interattivi, coinvolgendo i visitatori anche nella parte di mostra guidata con attività e problemi. I Laboratori hanno anche avuto una controparte all’interno dell’università con il gruppo Made@DM e si occupano anche di collaborare alla realizzazione di percorsi laboratoriali nelle scuole stesse

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della provincia (e anche in spazi esterni) e incoraggiare le scuole ad attivare i propri percorsi.

Nella provincia di Massa Carrara, invece, è attiva l’associazione "Matematica in gioco", grazie alle professoresse Egidia Fusani e Laura Salaro, che gestiscono e coordinano attività laboratoriali per studenti e insegnanti e si occupano di allestire mostre didattiche, spesso di geometria ma anche basate sull’induzione, e attività pomeridiane di approfondimento anche di argomenti non standard per le indicazioni nazionali e allenamento per i giochi matematici Kangourou.

Spesso le mostre matematiche hanno assunto anche un carattere interdiscipli-nare, culturale, sviluppando, anche già al loro interno, mini percorsi con intenti strettamente didattici. Da questo punto di vista, perciò, diventa interessante capire se sia possibile trasporre didatticamente i contenuti di una mostra e, in caso affermativo, come si possa passare da momenti di (anche alta) divulgazione a percorsi didattici. Infatti, ciò renderebbe possibile mettere insieme momenti di spiegazione, di esperienza e di riflessione e alternarli. Un tale approccio all’apprendimento garantisce che l’allievo, ciclicamente, faccia esperienze, even-tualmente misurando o contando, e poi rifletta su quanto osservato, formulando ipotesi e congetture; pertanto coinvolge sia il canale percettivo-motorio che quello simbolico-ricostruttivo: lo studente quindi combina un approccio basato sulla produzione, sul movimento e sui sensi con un altro che, invece, opera su simboli e ricostruisce significati.

La visita a una mostra matematica è, di conseguenza, in grado di dare vita a un processo di apprendimento per via esperenziale in ambiente extra-scolastico e, quindi, è proprio il contesto che permette di lavorare per scoperta, ovvero di attuare quanto richiesto dalle Indicazioni Nazionali nell’ottica di una didattica per competenze, anche se al di fuori dell’ambiente scolastico. L’ambito culturale di riferimento è, infatti, quello delle IN 2007 e 2012, in cui vengono descritti gli aspetti fondamentali del laboratorio e, soprattutto, viene evidenziata l’importanza delle competenze nella scuola di oggi.

Nella scuola, quindi, il contesto in cui avviene un processo di apprendimento simile è quello del laboratorio,

"inteso sia come luogo fisico sia come momento in cui l’alunno è attivo, formula le proprie ipotesi e ne controlla le conseguenze, progetta e speri-menta, discute e argomenta le proprie scelte, impara a raccogliere dati, negozia e costruisce significati, porta a conclusioni temporanee e a nuove aperture la costruzione delle conoscenze personali e collettive." (IN 2012).

In una didattica di tipo laboratoriale, quindi, l’apprendimento avviene per scoperta, tramite l’esperienza. Ciò fa riferimento alla doppia funzione, culturale e strumentale, della matematica, mantenendo l’attenzione anche sui tentati-vi, sulle intuizioni e sugli errori, perché costituiscono sempre un ingrediente fondamentale dell’approccio ai concetti: la matematica è, e così deve essere insegnata, un’impresa umana. Il fine è la costruzione di significati, legata sia alle interazioni che si sviluppano tra le persone durante l’attività sia all’uso degli strumenti, che possono essere di tipo tradizionale o tecnologicamente avanzati. Uno strumento è sempre il prodotto di un’evoluzione culturale, progettato per uno scopo specifico, e incorpora idee. Perciò, il significato da costruire non può emergere soltanto dall’interazione tra studente e strumento, né può spettare unicamente allo strumento stesso: occorre quindi capire bene per quali scopi è utilizzato un certo strumento e quali regole vanno stabilite.

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L’attenzione deve essere quindi rivolta sia all’uso dello strumento sia alla costruzione di un ambiente di apprendimento che sia aperto alla discussione e alla condivisione del sapere e che sia di supporto ai processi di osservazione e produzione personali. Si noti come il processo di appropriazione di un significato richieda comunque periodi di riflessione individuale sugli oggetti di studio e sulle attività proposte: la didattica in laboratorio di matematica comporta quindi l’alternanza di cicli di azione-percezione con momenti di riflessione e puntualizzazione, così come accade nella visita ad una mostra.

In questa tesi discuterò della riflessione sulla possibile trasposizione didattica di alcuni argomenti delle mostre di geometria del piano e di quella dello spazio organizzate dell’associazione "Matematica in gioco" a Carrara. Da questa riflessione si è sviluppata una breve sperimentazione, realizzata nell’ambito del tirocinio, i cui risultati sono oggetto di studio nel percorso della tesi.

La base sperimentale per l’analisi condotta in queste attività di ricerca è costituita da tre classi di una scuola secondaria di primo grado. Il tirocinio si è svolto nel corso dell’anno scolastico 2016/2017 presso le classi 1A, 2A e 3A della Scuola Media "G. Leopardi" all’interno dell’Istituto Comprensivo "Avenza Gino Menconi" di Avenza (MS), tra il mese di Marzo e quello di Maggio.

Le attività con le classi hanno riguardato argomenti di geometria.

• Per la classe prima, si è optato per creare un percorso che vede concetti di geometria e concetti di aritmetica a contatto e, quindi, che offre interes-santi spunti di riflessioni nell’ottica di una sostanziale unità della materia, partendo dalla regolarità dei poligoni e dei motivi a stella che si possono ottenere tramite l’uso di geopiani. Usando queste tavole di legno su cui sono fissati dei chiodi ai vertici di un poligono regolare,si è osservato che, a seconda della regola con cui si uniscono i vertici, è possibile ottenere poligoni regolari con tanti lati quanti sono i vertici del geopiano o con un numero di lati minore e poligoni stellati con tante punte quanti sono i vertici o con un numero di punte minore. Indagando con geopiani con vertici in numeri diversi, si è scoperto che è possibile prevedere in anticipo quale figura si ottiene unendo i vertici del geopiano con una regola di tipo aritmetico, trovando quindi legami tra l’aritmetica e la geometria. • Per la classe seconda, la scelta è stata quella di partire da un’attività svolta

precedentemente sulle tassellazioni del piano per cercare di capire cosa succede quando si esce dal piano, come introduzione alla geometria solida e completamento naturale al problema delle tassellazioni, esaminando quelle dello spazio. Ciò è avvenuto attraverso l’utilizzo di forme magnetiche. Durante l’attività, è anche emerso il problema di classificare e costruire i poliedri regolari, per poi capire che, preso singolarmente, solo il cubo è in grado di tassellare lo spazio. Infine, si è notato che, dividendo il cubo in due poliedri, si ottengono ancora coppie di poliedri che tassellano lo spazio e si è costruita una particolare tassellazione con cartoncino.

• Per la classe terza, è stato scelto di partire da un solido sezionandolo e analizzando cosa succede nel percorso contrario a quello esposto prima, esplorando, quindi ulteriori relazioni tra geometria piana e geometria solida sia in termini qualitativi che in termini, quando possibile con gli strumenti sia pratici che matematici a disposizione, quantitativi. In particolare, si è cercato di capire come un piano potesse sezionare un cubo in modo

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da non avere sezioni banali (come singole parti della superficie del cubo ovvero vertici, spigoli o facce) e si è scoperto che un piano taglia tanti spigoli quante facce. Ciò ha condotto all’analisi delle sezioni catalogate per numero di lati. Dopo aver studiato sezioni con 3 e 4 lati, la sperimentazione è proseguita ottenendo anche sezioni pentagonali ed esagonali, ma senza dettagli.

Anche se le mostre matematiche sono spesso adattabili a seconda del livello scolastico dei visitatori, la scelta delle classi di una scuola secondaria di primo grado è stata dettata da una duplice motivazione. In primo luogo, le docenti che gestiscono l’associazione "Matematica in gioco" mi hanno invitato a proporre la sperimentazione proprio nelle loro classi, sia per assistere sia per rendere più semplice la gestione della burocrazia. D’altra parte, è proprio a questo livello che le indicazioni nazionali invitano ad avviare processi di argomentazione con riferimenti alla teoria, in modo più formale.

La verifica dei risultati si è basata su test standardizzati somministrati agli studenti sia prima che dopo l’attività, tramite confronto dei due test. Per quanto riguarda i risultati, non sono emersi, in generale, gli esiti attesi dagli studi sull’apprendimento laboratoriale. La sperimentazione, di conseguenza, non ha avuto gli effetti desiderati, nel senso che non si rileva un sensibile miglioramento delle competenze, così come delle abilità di problem solving. Tuttavia, talvolta, si notano progressi e, in una delle tre classi, i casi di progresso sono la maggioranza. Questo può essere dovuto, in prima istanza, al fatto che agli studenti manchi l’abitudine a un contesto di apprendimento laboratoriale. D’altra parte, una didattica laboratoriale ha tempi lunghi; pertanto, è possibile che i risultati non siano apprezzabili in un quadrimestre, ma che emergano lasciando passare più tempo, e questo forse ha influito negativamente sull’apprendimento dei nuovi metodi.

In conclusione, possiamo affermare che il laboratorio è un ambiente in cui si può imparare divertendosi, giocando e sperimentando, ma non ha funzioni di ludoteca didattica, quindi sottovalutarne l’efficacia vedendolo come uno spazio di gioco ne inibisce fortemente la validità e può compromettere un effettivo e consapevole apprendimento. In un ambiente di laboratorio, l’allievo ha il dovere implicito di ripensare alle esperienze per costruire i significati e ciò può accadere solo se i momenti di esperienza sono affiancati da momenti di riflessione sia personale che condivisa. Inoltre, il laboratorio non deve essere fine a sé stesso ma deve inserirsi in un progetto didattico di più ampio respiro. Pertanto, una didattica di tipo laboratoriale ha un impatto positivo sull’apprendimento, se perfettametne integrata nell’intero percorso didattico dello studente.

Nel dettaglio la tesi è organizzata come segue:

• nel capitolo 1 si fa riferimento alle Indicazioni Nazionali 2012 e si illustra il concetto di competenza matematica;

• il capitolo 2, invece, è dedicato al Laboratorio di Matematica come stru-mento didattico, con cenni alla sua evoluzione storica e riferimenti alla sua collocazione nell’ambito di alcuni concetti pedagogici;

• il capitolo 3 verte sulle mostre didattiche come esempio di laboratorio, con qualche cenno storico;

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• il capitolo 4 contiene le descrizioni delle attività svolte a tirocinio, le osser-vazioni sul comportamento degli studenti durante le attività, le proposte per adattare le attività ad altri contesti scolastici e le schede delle attività; • il capitolo 5 riguarda la costruzione della verifica e la discussione dei

risultati;

• nel capitolo 6, si possono leggere le conclusioni sull’impatto del laboratorio sui test e le riflessioni sulle possibili motivazioni dell’assenza di progressi sensibili e diffusi.

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Capitolo 1

Le IN 2012 e il concetto di

competenza

1.1

La scuola delle Indicazioni Nazionali

Le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione sono, attualmente, il testo normativo di riferimento unico per tutte le scuole italiane dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado. Ciò significa che esse contengono, dal punto di vista normativo, le indicazioni sulla finalità di ciascun livello scolastico, sui cambiamenti di direzione da dare all’insegnamento per renderlo più inclusivo e adatto alle necessità della realtà di oggi e sull’articolazione dei contenuti. Quelle più recenti, al momento dello svolgimento del tirocinio, risalgono al 2012 e subentrano alle IN 2007, che già avevano segnato un cambio di rotta.

In queste, così come nelle precedenti del 2007, viene richiamata la necessità di una didattica differente da quella per conoscenze cercata precedentemente, nell’ottica dello sviluppo di competenze seguendo quindi documenti redatti da organi dell’Unione Europea come la Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, in cui questi due organi raccomandano che gli Stati membri cambino i loro sistemi scolastici per garantire l’acquisizione delle competenze chiave di cittadinanza, e il Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente del 2009.

Il testo delle Indicazioni, infatti, spiega che questa necessità è veicolata dal grande cambiamento avvenuto nella società in un tempo molto breve. Le esigenze della formazione possono quindi mutare, dovendo tenere conto dell’evolversi dei nuovi media, della diminuzione del senso del limite e del controllo delle regole tipiche degli adulti e della multiculturalità. Quindi, la scuola deve, al contempo, coniugare i nuovi modi di apprendere e consolidare competenze e saperi di base, dato che cambiano anche le necessità del mondo del lavoro e, dunque, ogni persona spesso deve essere capace di adeguarsi alle nuove necessità. A tale scopo, le Indicazioni Nazionali recitano proprio:

"Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comuni-cano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate. Al contrario, la scuola è chiamata a realizzare percorsi formativi sempre

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più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti personali della personalità di ognuno." (IN 2012).

Nel corso della sezione Cultura, scuola, persona del documento IN 2012, la centralità dell’individuo che apprende viene ribadita più volte. A questa, segue una sezione Finalità generali in cui viene dichiarato esplicitamente che l’orga-nizzazione del sistema scolastico italiano ha come fine il raggiungimento delle competenze chiave per l’apprendimento permanente definite dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea e presenti nella già citata Racco-mandazione, intendendo per competenza "la comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale"(Quadro europeo delle qualifiche, 2009) descritta in termini di responsabilità e autonomia. Per tutte le discipline, sono elencati i Traguardi di sviluppo delle competenze, ovvero le competenze che l’alunno deve conseguire, e gli Obiettivi di apprendimento, ovvero campi del sapere, conoscenze e abilità necessari al raggiungimento dei traguardi.

Nella sezione L’organizzazione del curricolo, le indicazioni metodologiche fornite invitano a

1. "valorizzare l’esperienza e le conoscenze degli alunni, per ancorarvi nuovi contenuti" e per dare loro un senso;

2. "attuare interventi adeguati nei riguardi delle diversità, per fare in modo che non diventino disuguaglianze", in particolare verso gli alunni con disabilità e quelli di cittadinanza non italiana;

3. "favorire l’esplorazione e la scoperta, al fine di promuovere il gusto per la ricerca di nuove conoscenze", in primo luogo ricorrendo alla problematizza-zione che sollecita gli alunni a individuare problemi e a sollevare questioni, mettendo in discussione conoscenze già elaborate per trovare soluzioni originali e piste d’indagine appropriate;

4. "incoraggiare l’apprendimento collaborativo", perché imparare non è solo un processo individuale ma ha una dimensione sociale molto rilevante; 5. "promuovere la consapevolezza del proprio modo di apprendere", al fine

di imparare ad individuare le difficoltà che si incontrano e riconoscere le strategie adottate per vincerle, a rendersi conto degli errori commessi ma anche a capire le motivazioni di un insuccesso e a conoscere i propri punti di forza, perché queste sono tutte competenze necessarie a sviluppare autonomia;

6. "realizzare attività didattiche in forma di laboratorio", allo scopo di favorire contemporaneamente l’operatività, il dialogo e la riflessione su cosa si studia, in quanto incoraggia la ricerca e la progettualità, così come la realizzazione di attività in modo condiviso e partecipato con altri.

1.2

La competenza matematica

Nelle IN 2012 viene citata la definizione di competenza matematica così come enunciata nella già citata Raccomandazione.

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"La competenza matematica è l’abilità di sviluppare e applicare il pensiero matematico per risolvere una serie di problemi in situazioni quo-tidiane. Partendo da una solida padronanza delle competenze aritmetico-matematiche, l’accento è posto sugli aspetti del processo e dell’attività oltre che su quelli della conoscenza. La competenza matematica comporta, in misura variabile, la capacità e la disponibilità a usare modelli matematici di pensiero (pensiero logico e spaziale) e di presentazione (formule, model-li, schemi, grafici, rappresentazioni)." (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio, 2006).

Più precisamente, nel documento in questione la competenza matematica è affiancata a competenze di base in scienza e tecnologie. Ciò accade anche nel Profilo delle competenze al termine del primo ciclo di istruzione scritto nelle finalità generali delle IN 2012 che, per quanto riguarda la matematica, riferendosi allo studente che ha completato il primo ciclo, recita:

"Le sue conoscenze matematiche e scientifico-tecnologiche gli consentono di analizzare dati e fatti della realtà e di verificare l’attendibilità delle analisi quantitative e statistiche proposte da altri. Il possesso di un pensiero razionale gli consente di affrontare problemi e situazioni sulla base di elementi certi e di avere consapevolezza dei limiti delle affermazioni che riguardano questioni complesse che non si prestano a spiegazioni univoche." (IN 2012).

Nella sezione dedicata all’organizzazione del curricolo per discipline, viene descrit-to come questa competenza matematica sia articolata in termini di Traguardi per lo sviluppo delle competenze e di Obiettivi di apprendimento, dopo una breve introduzione sulla disciplina. In quest’ultima viene reso chiaro che l’ambiente adatto non è quello dato dalla classica lezione frontale e che la didattica deve avvenire principalmente per problemi:

"in matematica, come nelle altre discipline scientifiche, è elemento fonda-mentale il laboratorio, inteso sia come luogo fisico sia come momento in cui l’alunno è attivo, formula le proprie ipotesi e ne controlla le conseguenze, progetta e sperimenta, discute e argomenta le proprie scelte, impara a raccogliere dati, negozia e costruisce significati, porta a conclusioni tem-poranee e a nuove aperture la costruzione delle conoscenze personali e collettive. [...] Caratteristica della pratica matematica è la risoluzione di problemi, che devono essere intesi come questioni autentiche e significative, legate alla vita quotidiana, e non solo come esercizi a carattere ripetitivo o quesiti ai quali si risponde semplicemente ricordando una definizione o una regola." (IN 2012).

Nelle IN 2012 è presente anche l’invito a dedicare "attenzione particolare (...) allo sviluppo della capacità di esporre e di discutere con i compagni le soluzioni e i procedimenti seguiti", così come quello a incoraggiare l’uso delle calcolatrici e del computer, purché consapevole e motivato. Viene anche riconosciuta estrema importanza alla costruzione di un’adeguata visione della matematica: è necessario che l’alunno non la riduca a un insieme di regole da memorizzare e applicare, ma che la riconosca (e che la apprezzi) come contesto in cui può porsi e affrontare problemi significativi e anche esplorare, rendendosene conto, relazioni e strutture che si ritrovano sia internamente alla disciplina, sia in natura, sia nelle creazioni dell’uomo. Importante è anche l’elencazione dei traguardi per lo sviluppo di

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competenze e poi degli obiettivi di apprendimento, eaposti nelle IN. Per quanto riguarda la scuola secondaria di primo grado, emergono i seguenti traguardi:

"L’alunno si muove con sicurezza nel calcolo anche con i numeri razionali, ne padroneggia le diverse rappresentazioni e stima la grandezza di un numero e il risultato di operazioni.

Riconosce e denomina le forme del piano e dello spazio, le loro rappre-sentazioni e ne coglie le relazioni tra gli elementi.

Analizza e interpreta rappresentazione di dati per ricavarne misure di variabilità e prendere decisioni.

Riconosce e risolve problemi in contesti diversi valutando le informazioni e la loro coerenza.

Spiega il procedimento seguito, anche in forma scritta, mantenendo il controllo sia sul processo risolutivo, sia sui risultati.

Confronta procedimenti diversi e produce formalizzazioni che gli con-sentono di passare da un problema specifico a una classe di problemi.

Produce argomentazioni in base alle conoscenze teoriche acquisite (ad esempio sa utilizzare i concetti di proprietà caratterizzante e di definizione).

Sostiene le proprie convinzioni, portando esempi e controesempi adegua-ti e uadegua-tilizzando concatenazioni di affermazioni; accetta di cambiare opinione riconoscendo le conseguenze logiche di un’argomentazione corretta.

Utilizza e interpreta il linguaggio matematico (piano cartesiano, for-mule, equazioni, ...) e ne coglie il rapporto col linguaggio naturale.

Nelle situazioni di incertezza (vita quotidiana, giochi, ...) si orienta con valutazioni di probabilità.

Ha rafforzato un atteggiamento positivo rispetto alla matematica at-traverso esperienze significative e ha capito come gli strumenti matematici appresi siano utili in molte situazioni per operare nella realtà." (IN 2012)

A questi seguono gli obiettivi standard di apprendimento, scritti con verbi all’infinito e divisi per ambito di contenuto (Numeri, Spazio e figure, Relazioni e funzioni, Dati e previsioni ), anche se la parola "standard" non compare in modo esplicito nelle Indicazioni. È comunque importante perché le prove INVALSI, OCSE-PISA, TIMMS misurano appunto degli standard attraverso la risoluzione di problemi-item che, in genere, presentano risposta chiusa e non chiedono esplicitamente di spiegare il processo risolutivo (a parte casi isolati).

Nell’elenco dei traguardi per lo sviluppo delle competenze ci sono sia elementi di continuità che elementi di rottura con le precedenti Indicazioni nazionali del 2007: gran parte dei traguardi è stata mantenuta, ma eventualmente cambiata di posto o semplificata, e ci sono un paio di traguardi nuovi; l’elemento più significativo però è dato dalla scomparsa dell’attività laboratoriale, che nelle IN 2007 era indicata esplicitamente nei traguardi. Nelle Indicazioni del 2007, inoltre, la descrizione e gli scopi del laboratorio sono più dettagliati:

• si specifica che il luogo fisico è un’aula o uno spazio attrezzato ad hoc, ma questo perché in tale documento la matematica è affiancata alla tecnologia e alle scienze sperimentali e anche il laboratorio perciò subisce quest’analogia; • i dati raccolti devono essere anche confrontati con le proprie ipotesi

formulate, cosa che non viene specificata nelle IN 2012;

• i significati che vengono costruiti e negoziati sono interindividuali e, cioè, riguardano più individui, nei loro rapporti reciproci;

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• le attività di laboratorio devono avere un carattere non episodico e essere inserite in un percorso di conoscenza, con lo scopo anche di affinare il linguaggio e le capacità di organizzare il discorso.

In entrambi i documenti è comune l’importanza dell’attenzione alla gradualità, della risoluzione di problemi, del laboratorio, dello sviluppo di una corretta visione della disciplina, dell’utilizzo consapevole e critico di strumenti informatici e di calcolo e, infine, della capacità di argomentare. Nel dettaglio delle differenze:

1. nelle IN 2007 la costruzione di un atteggiamento positivo verso la matema-tica era elencato come primo obiettivo, come importante riconoscimento di quanto sia fondamentale che lo studente non sviluppi ansie, negatività o paure legati alla disciplina, invece in quelle 2012 questo non costituisce più il primo obiettivo ma bensì quello conclusivo, inteso come punto di arrivo (sì, ma da perseguire fin dal primo giorno), mentre la sicurezza nel calcolo, anche con i numeri razionali, viene elencata come primo obiettivo da per-seguire, comportando quindi un’eccessiva attenzione a sterili tecnicismi di calcolo nelle scelte didattiche dei docenti, cosa che può d’altra parte far sì che negli studenti si crei un’errata convinzione che lo studente bravo in matematica è quello che sa ottenere il risultato corretto velocemente; 2. ci sono semplificazioni sia nel traguardo legato al riconoscimento delle

figure (che nelle IN 2007 erano da descrivere e rappresentare, mentre in quelle 2012 da denominare) sia in quello sulle valutazioni di probabilità (attraverso l’eliminazione dei connettivi e dei quantificatori e la sostituzione

delle valutazioni generiche con quelle numeriche);

3. compare la lettura di tabelle, grafici, grafi e schemi di ogni tipo;

4. il traguardo sull’argomentazione viene spostato più in basso (come se perdesse di importanza) e privato degli accenni (citati negli obiettivi di apprendimento delle IN 2007) alle attività laboratoriali, alla discussione tra pari e alla costruzione di modelli.

Nel corso delle attività di cui parlerò nei capitoli successivi, ho scelto di focalizzarmi sulla risoluzione di problemi e sull’argomentazione, avendo notato, nel corso del tirocinio curricolare, che una buona parte degli studenti manifesta una forte difficoltà ad esprimersi in base alle proprietà degli oggetti, spesso una rinuncia a spiegare a sé stessi cosa si sta facendo, per quale motivo lo si fa e a quale scopo e, talvolta, una forma di disagio se, durante loro momenti di incertezza, il docente li incita a spiegare nel tentativo di aiutarli.

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Capitolo 2

Il laboratorio di matematica

L’introduzione sulle indicazioni nazionali 2012 e in particolare su quelle per la didattica della matematica nella scuola di oggi ha reso chiaro il fatto che, per questa disciplina, è consigliabile procedere sostanzialmente attraverso attività laboratoriali predisposte in modo da superare il metodo puramente trasmissivo della didattica tradizionale.

2.1

Nuovi riferimenti per l’insegnamento della

ma-tematica

Per questa sezione, i principali riferimenti vengono dai documenti "Matema-tica 2001" e "Matema"Matema-tica 2003" predisposti dall’UMI-CIIM per il curricolo "Matematica per il cittadino", a meno che non sia diversamente specificato.

Prevalentemente, dei due documenti citati, ho utilizzato maggiormente quello più recente, dal momento che esso presenta una sezione apposita sul laboratorio. Per la sezione finale ho anche considerato Nascita e sviluppi dell’Officina mate-matica di Emma Castelnuovo nella Casa-laboratorio di Cenci, di F. Lorenzoni, disponibile sul sito web della Casa-Laboratorio.

Nella premessa, il professor Arzarello, allora presidente della Commissione Italiana per l’Insegnamento della Matematica che ha redatto il documento, scrive proprio che

"Le ricerche più recenti hanno provato che sono le esperienze ad attivare gli opportuni circuiti cerebrali di cui l’essere umano già dispone. Non si tratta di imporre una matematica dall’esterno, ma di fare evolvere dall’interno la matematica che vive nel nostro corpo."

La necessità quindi è quella di ripensare l’insegnamento in quanto questo deve fare riferimento alla doppia funzione, culturale e strumentale, della matematica, mantenendo l’attenzione anche sui tentativi, sulle intuizioni e sugli errori, perché costituiscono sempre un ingrediente fondamentale dell’approccio ai concetti: la matematica è, e così deve essere insegnata, un’impresa umana. Ciò ha importanti ripercussioni sia sul ruolo da attribuire nell’apprendimento agli errori sia rispetto a molte teorie didattiche. Prima di entrare nel merito del laboratorio, Arzarello specifica che esso non costituisce né un nucleo di contenuto né uno di processo e che non vuole essere un luogo fisico separato dalla classe, ma piuttosto una serie

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di indicazioni metodologiche trasversali ai nuclei e basate sull’uso di strumenti (tecnologici o non) che consenta di progettare un insieme di attività strutturato per costruire significati. Coinvolge persone (come insegnanti e studenti), strutture (che possono essere fisiche, come aule o strumenti ) e idee (che possono essere i progetti e i piani di attività didattiche dell’insegnante o le sperimentazioni degli studenti). La metafora che spesso viene utilizzata per descrivere l’ambiente del laboratorio è quella della bottega rinascimentale, nella quale gli apprendisti imparavano sia facendo, sia vedendo fare, sia comunicando tra di loro o con i maestri.

Ciò, però, più che altro caratterizza l’ambiente, perché per costruire efficace-mente esperienze di laboratorio in matematica bisogna tenere conto del legame stretto che la costruzione del significato ha sia con la dimensione sociale dell’am-biente (ovvero alle interazioni che si sviluppano tra le persone durante l’attività) sia con l’utilizzo degli strumenti, in quanto uno strumento è sempre il prodotto di un’evoluzione culturale, creato per uno scopo specifico e, di conseguenza, incorpora idee. Questo fatto, sul piano didattico, implica, in primo luogo, che il significato da costruire non può emergere soltanto dall’interazione tra studente e strumento, né può spettare unicamente allo strumento stesso. Anzi, per costruire un significato mediante uno strumento, è necessario pensare bene per quali scopi esso è usato e quali regole vanno stablite per usare lo strumento stesso, perché in questi ultimi risiede il significato che deve essere costruito. Inoltre, il processo di appropriazione del significato richiede periodi di riflessione individuale sugli oggetti di studio (e sulle attività proposte). Nell’ambiente di laboratorio, si utilizzano strumenti sia di tipo tradizionale (come materiali "poveri" adatti anche alla metafora descritta precedentemente o strumenti meccanici) sia tecno-logicamente avanzati (come software di geometria dinamica in avviamento a un processo di dimostrazione, software di manipolazione simbolica per concentrarsi sui concetti integrando diversi ambienti e registri, fogli elettronici e calcolatrici grafico-simboliche). Per concludere l’analisi degli strumenti, in Matematica 2003 viene detto che anche la storia della matematica, nonostante presenti contenuti propri e possibilità di collegamento con altre discipline, può essere pensata come uno strumento di laboratorio efficace e adatto a motivare adeguatamente l’intro-duzione di alcuni concetti e a indicare percorsi didattici possibili per apprendere importanti contenuti matematici: in questo contesto, la storia della matematica può fornire al docente la possibilità di scegliere, in condizioni opportune, un percorso didattico che si presta bene sia a suscitare l’interesse e l’attenzione della classe sia a consentire connessioni interdisciplinari importanti per formare competenze di cittadinanza. Ovviamente, l’utilizzo della storia della matematica nel contesto del laboratorio preclude lo sviluppo dei contenuti disciplinari specifici relativi ad essa e la relega ad uno strumento che, in ottica dell’autonomia, il discente interessato può approfondire per conto proprio.

L’altro aspetto nominato poco sopra è quello legato alla dimensione sociale dell’apprendimento: la costruzione di significati è, infatti, strettamente collegata anche alla comunicazione delle conoscenze in classe e alla loro condivisione. Occorre quindi prestare attenzione alle modalità della comunicazione in classe, che può essere tra pari o con l’insegnante. Quella tra pari avviene solitamente tramite il lavoro, di tipo cooperativo o collaborativo, in piccoli gruppi di alunni, mentre l’insegnante può gestire la discussione matematica, un ulteriore strumento metodologico di comunicazione attraverso il quale l’insegnante inserisce una particolare discussione nel flusso dell’attività della classe e, avendo presenti sia

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gli obiettivi generali dell’attività che quelli specifici, la guida e la influenza in modo sostanziale.

Un ambiente naturale in cui inserirla è, ad esempio, la risoluzione collettiva di problemi, in cui possono anche vedere varie tappe della discussione. Dopo che l’insegnante ha proposto un problema, un primo livello di discussione può essere quella legata alla formazione di un "piano d’attacco" a esso, analizzandone i dati e l’obiettivo. Un secondo livello si sviluppa al termine della soluzione (che può essere individuale o in piccoli gruppi) o in un momento molto importante della soluzione stessa ed è centrato sul confronto delle diverse soluzioni realizzate dagli alunni, attraverso la presentazione delle proprie soluzioni e poi l’interpretazione e la valutazione di quelle dei compagni. Questa fase è quella che conduce ad un terzo livello di discussione, che può riguardare alcune caratteristiche delle soluzioni proposte, come la loro correttezza, la loro ricchezza, la loro coerenza, la loro attendibilità e il loro livello di generalizzazione. Quest’ultimo momento è quello che dovrebbe avviare la fase di istituzionalizzazione del sapere, conducendo quindi a costruire significati che vanno oltre quelli direttamente coinvolti dalla soluzione del problema e all’approccio al pensiero teorico.

I concetti matematici vanno quindi sviluppati attraverso attività didattiche (nei già citati documenti del curricolo UMI-CIIM definite "significative") che consentano di motivare l’introduzione di strumenti culturali della disciplina per studiare fatti e fenomeni in modo quantitativo, di contribuire alla costru-zione dei loro significati e di dare senso al lavoro riflessivo su di essi, in un ambiente in cui l’alunno possa essere coinvolto attivamente e stimolato ad af-frontare e risolvere problemi, in attività didattiche che impostino il processo di insegnamento-apprendimento sull’interazione tra studenti e tra insegnanti e studenti, privilegiando una caratterizzazione di tipo collettivo. Di conseguenza, il modello della lezione frontale, per quanto sia la tecnica più sicura per "portare a termine il programma" per studenti, insegnanti, genitori e dirigenti, spesso non è sufficiente: esso si basa sulla spiegazione di varie parti del programma (che ci si augura siano tutte, ma non sempre ciò accade) dell’insegnante alla lavagna o alla cattedra, seguita dall’applicazione di quanto spiegato attraverso esercizi (che in genere sono ripetitivi) in classe e a casa. Ha una sua valenza didattica, perché abitua gli studenti a stare attenti ad una spiegazione, a imparare in maniera autonoma a prendere appunti mentre una persona parla, a comprendere un discorso su un argomento matematico fatto da un esperto e a sintetizzare e organizzare l’informazione. Ciononostante, non è e non deve essere l’unica metodologia didattica in classe, ma deve essere integrata con altre metodologie che sviluppino altre competenze, come ad esempio l’insegnamento per problemi che è l’approccio fondamentale alla costruzione dei saperi in matematica. Esso consiste nel porre problemi agli studenti (a casa o in classe, singolarmente o in gruppi, in tempi lunghi o brevi) e, eventualmente, nell’abituarli a porsi questioni e problemi legati all’argomento di studio in maniera autonoma. Ciò compare anche nelle Indicazioni nazionali. Porsi e risolvere problemi è una competenza a lungo termine e ambiziosa, ma comporta l’acquisire gradualmente l’abitudine a porsi criticamente nei confronti non solo della disciplina ma anche della scuola e del mondo, per diventare un cittadino che utilizza la matematica e ne domina le tecniche in modo consapevole. Perciò, l’insegnamento per problemi è fonda-mentale per garantire il raggiungimento sia di abilità tecniche che di quelle di ragionamento. Gli studenti possono imparare a porsi e risolvere problemi sia singolarmente sia in gruppo, tenendo però conto del fatto che lavorare in gruppo

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ha anche finalità comportamentali, come saper stare con gli altri, discutere in gruppo, rispettare l’opinione altrui e saper difendere la propria, argomentando, dibattendo e negoziando insieme significati. Pertanto il lavoro in piccoli gruppi è da preferirsi come metodologia di classe, lasciando all’insegnante la scelta dei raggruppamenti. A volte torneranno comodi gruppi omogenei, a volte gruppi eterogenei; entrambi i casi hanno i loro vantaggi e svantaggi. Accanto al lavoro di gruppo è però opportuno mantenere degli spazi riservati alla discussione ma-tematica, in cui l’insegnante-guida fa partire una particolare discussione durante l’attività della classe e, facendo interventi mirati nel suo sviluppo, la influenza in modo determinante, avendo ben chiari gli obiettivi generali e specifici dell’attività proposta. L’insegnante può anche far intervenire voci di persone esterne alla classe, come voci dalla storia, tramite lettura di testi storici, o dalla realtà, mediante scritti, registrazioni audio o video o teleconferenze. In questo modo la discussione matematica si struttura, all’interno del progetto didattico-educativo, come polifonia di voci (interne o esterne alla classe) articolate a proposito di un particolare sapere matematico. La discussione matematica è trattata più approfonditamente in "Matematica 2001 ", in una sezione apposita, in cui sono descritte le caratteristiche già dette precedentemente e vengono raggruppate le discussioni in tre macrocategorie, a seconda di come nascono e del loro fine.

La discussione matematica si articola in tre passi fondamentali:

1. Nascita da un problema, nei due aspetti di formulazione di una strategia di soluzione, in cui tutta la classe risolve un problema a parole, e di bilancio, in cui si analizzano le diverse soluzioni;

2. Finalità di concettualizzazione: ovvero di costruzione, attraverso il lin-guaggio e i legami tra esperienze già vissute e termini particolari della matematica e può avvenire introdotta da domande dirette o indirette; 3. Momento di metadiscussione, legato alla definizione dei valori da attribuire

a tecniche e concetti e agli atteggiamenti rispetto alla matematica, anche in relazione al riconoscimento dell’importanza di costruire un atteggiamento positivo tra i traguardi.

L’impianto metodologico del laboratorio è quello dell’apprendistato cognitivo in cui l’insegnante-esperto dà forma e struttura all’agire dell’allievo-principiante, che osserva l’altro e valuta il suo agire in relazione alle proprie attività intellettuali, coinvolgendo abilità e processi sia di tipo cognitivo che di tipo metacognitivo. In questo impianto c’è equilibrio tra la sfida da affrontare posta dal problema e l’intervento dell’insegnante che agisce in modo da rendere l’allievo consapevole del perché l’esperto agisca secondo certe strategie e ne eviti altre. Ciò richiede quindi la costruzione di un ambiente di apprendimento che sia aperto alla discussione e alla condivisione del sapere e che sia di supporto ai processi di osservazione e produzione personali.

Il documento poi afferma anche che la pratica della verbalizzazione, della produzione di ipotesi argomentate e della loro verifica debba caratterizzare l’attività didattica.

Il ruolo dell’insegnante è quello di mediatore in tutte le fasi e può essere esercitato sia direttamente, introducendo i necessari strumenti matematici, sia indirettamente, attraverso l’analisi e il confronto delle produzioni individuali degli alunni e, quindi, la valorizzazione dei contributi degli stessi nelle discussioni e

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nel lavoro di gruppo. Inoltre, essendo la matematica una disciplina che necessita tempi di apprendimento lunghi (sia per le connessioni tra i diversi concetti che vanno assimilate, sia per la loro caratterizzazione in termini di conoscenza), è consigliabile sviluppare attività nell’ambito di progetti didattici pensati su periodi medio-lunghi.

Un esempio di laboratorio è offerto dall’Officina matematica di Emma Ca-stelnuovo nella Casa-Laboratorio di Cenci, che nasce nel 2002 e normalmente è frequentato da insegnanti. Vengono anche organizzati percorsi per studenti e, talvolta, persone appassionate. In questo contesto, i partecipanti sono invi-tati a mettere in movimento non solo le figure geometriche ma anche le loro conoscenze. L’attività degli insegnanti, pertanto, comporta il lavorare con le mani per costruire materiali con cui operare e ragionare per comprendere un argomento matematico, il porsi domande, il confrontarsi con il resto del gruppo e, infine, la messa a fuoco di questioni didattiche seguendo i relatori (fino alla sua scomparsa una lezione la faceva proprio la Castelnuovo). Nel laboratorio nulla viene dato per scontato e le conoscenze vengono costruite passo dopo passo per ciascuno. Nelle lezioni, invece, i relatori pongono domande aperte per aprire a nuove ricerche. L’ultimo giorno i diversi gruppi mettono in mostra ciò che hanno sperimentato ed è in questo momento che ciascuno si rende conto di che cosa ha assimilato, di cosa può proporre in classe e di cosa deve essere ancora approfondito: la mostra matematica conclusiva è quindi al tempo stesso un momento di esposizione del proprio percorso ma anche di riflessione su difficoltà e scoperte. Lo scopo con cui nasce l’officina matematica è perciò quello di fornire un ambiente di apprendimento per gli adulti in cui essi possano ritrovare fiducia nel proprio pensiero.

2.2

Qualche cenno storico

L’idea di laboratorio nella pratica didattica ha radici profonde e lontane: da Comenius (XVII sec.) all’opera di alcuni pedagogisti come Pestalozzi (ini-zio ’800), a Dewey, Decroly, Montessori, Freinet, per giungere a L. Lombardo Radice, a E. Castelnuovo e all’idea di "classe cooperativa" del Movimento di Cooperazione Educativa (XX sec.). Questa però è solo una carrellata generale messa come premessa introduttiva a un piccolo approfondimento dell’evolu-zione storica del concetto di laboratorio. Per questa sedell’evolu-zione, il materiale è formato dagli articoli Il laboratorio di matematica: storia e osservazioni di M. Bartolini Bussi, 2007, L’emergere dell’idea di laboratrorio di Matematica agli inizi del Novecento di L. Giacardi, 2011 e Il laboratorio come "ambiente" per l’insegnamento-apprendimento della matematica: riflessioni di M. Reggiani, 2008.

Dal punto di vista delle teorie pedagogiche, il concetto di laboratorio come ambiente del fare e dell’apprendere appare nell’opera Didactica Magna di Jan Amos Komenski (latinizzato Comenius), in cui vengono sottolineati sia l’impor-tanza dell’esperienza sia il ruolo dell’insegnante inteso come guida dell’alunno in un processo di apprendimento che lo vede come protagonista. In seguito l’impor-tanza delle attività di gruppo contrapposte alla memorizzazione individuale e dell’intuizione su base esperenziale si ritrova nell’opera Come Gertrude istruisce i suoi figli (1801) di Johann Heinrich Pestalozzi.

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Però, queste idee ebbero il loro reale sviluppo con John Dewey, che, sostenitore del metodo attivo, prese le distanze dal metodo tradizionale trasmissivo, fatto di ascolto passivo. Egli sottolineò infatti gli aspetti sociali dell’educazione e nel 1896 fondò una propria scuola-laboratorio a Chicago, in cui la base di ogni sviluppo di pensiero stava nell’esperienza: difatti, secondo Dewey, il processo educativo è una ricostruzione continua di esperienza e lo studente entra in possesso di un certo sapere solo secondo un processo in cui, partendo da un attività e facendo esperimenti (attraverso prove ed errori, osservazioni e verifiche di ipotesi che egli stesso ha formulato), egli rielabora quanto osservato intelletualmente, produce nuove ipotesi e le mette alla prova, in un ciclo potenzialmente infinito. Inoltre, Dewey sosteneva anche che fossero gli interessi dello studente a guidare l’esperienza, poiché indicatori di sviluppo di capacità personali. All’insegnante spettava il compito di individuare e coltivare questi interessi, visto che questi offrono appigli preziosi su cui operare efficacemente sul piano educativo.

In Europa, meritano, come pedagogisti, di essere ricordati tra i primi esponenti della scuola attiva Ovide Decroly e Maria Montessori, che propongono due metodi diversi per favorire l’astrazione. Decroly propone un metodo basato sull’osservazione della natura, mentre la Montessori ne sviluppa uno basato sull’uso di materiale didattico che i bambini possono manipolare, imparando da queste manipolazioni e dal loro ambiente in modo indipendente. Nel panorama internazionale anche alcuni matematici si occupano dell’idea di laboratorio, anche se con differenti prospettive: in Inghilterra Perry nei primi anni del Novecento dedicava la pratica laboratoriale a una matematica fatta da procedure e non destinata ad essere sistematizzata teoricamente; in America Moore auspicava una pratica laboratoriale con approccio computazionale, grafico o sperimentale; in Francia Borel destinava al laboratorio una funzione da "officina", ovvero costruttiva; in Germania Klein invece suggeriva l’uso di modelli e di macchine matematiche.

Intorno agli anni sessanta, avviene un momento di evoluzione nel modo di intendere il legame tra educazione e costruzione di esperienze, con la diffusione della prospettiva strutturalista. Questa mette in discussione sia il modello della scuola attiva sia il modello tradizionale: secondo questo approccio, infatti, l’unica modalità che può garantire una completa acquisizione di una certa conoscenza e il suo utilizzo in altri contesti è l’insegnamento-apprendimento di una struttura e, quindi, una didattica orientata all’esperienza di fatti e fenomeni o una finalizzata alla trasmissione di contenuti specifici risultano controproducenti in quanto, se i contenuti o i fenomeni sono separati da una spiegazione del loro significato nell’ambito di una struttura più vasta, precludono ad un processo di generalizzazione e tendono ad essere dimenticati facilmente. Questo fa sì che il centro dell’attività didattica non sia più costituito dagli interessi dello studente ma dalla riflessione sugli aspetti strutturanti di una conoscenza che diano significato a quelli sperimentali e sullo sviluppo di competenze che seguano l’organizzazione di questa struttura sia sul piano operativo che su quello concettuale. Nella pratica reale, questo cambiamento non è però avvenuto in modo netto e ha dato vita a situazioni, soprattutto in Italia, in cui i due approcci si combinano e si contaminano.

Nel nostro Paese, l’idea di scuola attiva si è affermata soprattutto nel secondo dopoguerra, grazie all’opera di vari pedagogisti (tra cui è importante ricordare De Bartolomeis), ed è stata alla base di innovazioni e sperimentazioni didattiche soprattutto nella seconda metà del novecento. Ciò non significa che non se ne

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parlasse anche prima. L’idea di laboratorio infatti venne proposta per la prima volta da Giovanni Vailati, che è importante citare perché le sue idee a riguardo sono straordinariamente attuali nonostante siano state scritte più di un secolo fa e sono molto simili alla caratterizzazione del laboratorio data nei documenti del curricolo La matematica per il cittadino citati precedentemente. Nel 1906, infatti, il Valiati caratterizza la sua idea di scuola-laboratorio definendola

"come luogo dove all’allievo è dato il mezzo di addestrarsi, sotto la guida e il consiglio dell’insegnante, a sperimentare e a risolvere questioni, a [...] mettersi alla prova di fronte a ostacoli e difficoltà atte a provocare la sua sagacia e coltivare la sua iniziativa."

In questa scuola, l’insegnante ha quindi il compito di guidare l’allievo al sapere, con un metodo che risalti l’unitarietà della matematica ma al tempo stesso vada dal concreto all’astratto e coinvolga direttamente l’allievo nel farsi carico della responsabilità di imparare (tramite il dialogo, l’uso di strumenti e sussidi didattici, la sperimentazione, i collegamenti interni alla disciplina e i riferimenti storici) in attività in cui, più che il risultato finale, serve prestare attenzione al processo che è occasione di costruzione di significati per l’allievo.

Negli anni sessanta, com’è già stato detto, si rileva una pluralità di approcci didattici alla matematica profondamente differenti tra loro: emergono infatti sia progetti di matrice puramente strutturalista, sia innovazioni didattiche contaminate da idee strutturaliste e da elementi tipici del movimento della scuola attiva. Ciò rende il periodo adatto all’osservazione di alcune pratiche di sperimentazione, come il sistema dei laboratori di De Bartolomeis, una scuola pensata interamente come insieme di laboratori con elementi specifici delle singole discipline. Per quanto riguarda il laboratorio di matematica, De Bartolomeis suggerisce di tener conto dell’importanza della manipolazione per costruire oggetti matematici (sulla linea di L. Lombardo Radice, E. Castelnuovo, Z. P. Dienes) e contemporaneamente del rilievo da attribuire ad un approccio laboratoriale interno alla disciplina, quindi non avente come scopo le applicazioni (idea accostabile al progetto Matematica come scoperta di G. Prodi). È anche un periodo di ricerca, con studi che si rifanno a due tradizioni distinte, una pedagogica e didattica dei metodi attivi e una interna alla matematica dell’uso di artefatti come strumenti teorici per risolvere problemi classici in modo rigoroso. A queste due tradizioni si collegano anche, in anni più recenti, gli studi cognitivi sui processi che mettono in risalto l’importanza di manipolare direttamente dei modelli degli oggetti nella costruzione di processi di pensiero tipici della disciplina e le ricerche sul campo che hanno dato vita anche alle mostre di materiale didattico, cui sarà dedicato il capitolo successivo come approfondimento.

2.3

Qualche riferimento teorico

In questa sezione analizzo quali riferimenti teorici stiano dietro alla costruzione dell’attività di laboratorio, trattando anche come si colloca questo tipo di attività nel modello di apprendimento comunemente adottato e rispetto ad alcuni feno-meni didattici; in conclusione, confronto il modello laboratoriale con il modello tradizionale. Il materiale da cui ho preso spunti per questa sezione è ampio e fa riferimento a diversi articoli e dispense, perciò chiarirò di volta in volta l’origine degli spunti. Le prime osservazioni fanno riferimento agli articoli Laboratorio

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di Matematica e Tecnologia di G. Chiappini, 2003, Toward a didactic practice based on mathematics laboratory activities di G. Chiappini e M. Reggiani, 2003 e Il laboratorio didattico di matematica: riferimenti teorici per la sua costruzione di G. Chiappini, 2007. Per quanto riguarda, invece, la parte dei fenomeni legati all’attività didattica in generale, ho preso spunto anche dagli articoli Costruire e usare macchine matematiche in laboratorio di S. Barbieri, M. Maschietto, M. S. Mazzamurro, F. Scorcioni e R. Serravall, 2017, La ricerca in Didattica della Matematica come epistemologia dell’apprendimento della Matematica di B. D’Amore, 2002, Il sapere matematico e Il laboratorio per l’insegnamento-apprendimento della matematica: le proposte rivisitate della commissione UMI, entrambi di D. Paola, 2008, Dal laboratorio al testo: la matematica si può e si deve capire sempre di D. Paola, 2011 e Didattica laboratoriale e costruzione di competenze nell’insegnamento/apprendimento della Matematica di M. Polo, 2017 e dai capitoli 1 e 5 degli appunti scritti dalla docente per corso di Didattica della Matematica dell’Università di Pavia tenuto da A. Pesci dell’anno accademico 2013/2014.

Una didattica di tipo laboratoriale è associata all’apprendimento per via esperenziale, sfruttando il fatto che, come mostrano i risultati della ricerca in psicologia dell’apprendimento, l’approccio alla conoscenza segue sostanzalmente due canali: uno di tipo percettivo-motorio, che coinvolge l’azione e la percezione verso un apprendimento basato sulla produzione, sul movimento e sui sensi, e uno di tipo simbolico-ricostruttivo, che invece opera su simboli e ricostruisce oggetti e significati. Il canale preferenziale attraverso il quale si verifica principalmente un apprendimento esperenziale è quello percettivo-motorio, per sviluppare una conoscenza utilizzabile solo in un ambito appropriato. Nella pratica laboratoriale, cicli di azione-percezione sono intervallati da momenti di riflessione e puntualiz-zazione, che fanno invece parte di un approccio simbolico-ricostruttivo, e perciò le due modalità di approccio risultano entrambe coinvolte e integrate nell’at-tività scolastica. Questo coinvolgimento garantisce la possibilità di sviluppare significati matematici più avanzati. La nozione di laboratorio di matematica si basa, dal punto di vista culturale, sulla malleabilità degli oggetti matematici obiettivo dell’insegnamento nel senso che, utilizzando in modo opportuno delle tecnologie specifiche, questi possono essere riconfigurati e incorporati in stru-menti tecnologici che possono essere fisici o digitali. L’alunno interagisce con questi oggetti tramite gli strumenti, ricevendo dei segnali che può controllare sul piano percettivo-motorio e interpretare come fenomeni matematici relativi al campo di esperienza privilegiato. Questo processo di incorporazione di una risorsa in uno strumento implica una trasformazione culturale, poiché rende disponibile all’interazione sul piano percettivo-motorio una risorsa che, fino a poco tempo prima, era solo immaginabile sul piano puramente mentale. Attra-verso il feedback dello strumento, lo studente è in grado di capire se l’azione fatta è adeguata per il compito assegnato e cioè se la strategia utilizzata nella soluzione può essere validata. Come è stato già osservato nella prima sezione del capitolo corrente, il significato risiede negli obiettivi per cui è usato un certo strumento e perciò la costruzione di un’attività di laboratorio ha due tipi di scopi, uno legato al problema e uno a come inquadrare tale questione e la sua soluzione in un quadro teorico. Per il primo tipo di scopi, il problema deve essere scelto in modo che l’uso degli strumenti porti alla luce contraddizioni risolvibili sfruttando lo strumento scelto e ciò che esso mette a disposizione. Per il secondo tipo, invece, l’attività può essere efficace se le strategie di soluzione

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e i loro effetti possono essere utilizzate come riferimenti durante la discussione finale per interpretare e giustificare dal punto di vista teorico quanto fatto in pratica. Il laboratorio però ha anche un’importante dimensione sociale poiché, usando risorse incorporate in uno strumento, il loro significato è sia connesso all’uso pratico della risorsa sia relativo alla razionalizzazione di tale utilizzo e al suo inquadramento in un costrutto teorico e, quindi, deve intervenire anche l’approccio simbolico-ricostruttivo per arrivare ad un significato condiviso, attra-verso il dialogo e il confronto. Dopotutto, i due tipi di approcci precedentemente nominati sono mediati da strumenti di natura e modalità differenti: Vygotskij, infatti, distingue strumenti tecnici e strumenti psicologici. I primi sono quelli del-l’approccio percettivo-motorio, perché producono trasformazioni nell’oggetto con effetti esterni. I secondi invece sono propri dell’approccio simbolico-ricostruttivo e hanno come scopo la rielaborazione interna, non producendo effetti visibili sull’oggetto. Nell’articolo del 2007, Chiappini scrive proprio che il laboratorio didattico di matematica

"è quello spazio fenomenologico dell’insegnamento-apprendimento della matematica che si struttura attraverso l’uso di specifici strumenti tecnologi-ci e di articolati processi di negoziazione e in cui la conoscenza matematica viene assoggettata ad un nuovo ordine rappresentativo, operativo e sociale per essere riconfigurata in oggetto di investigazione e poter essere quindi più efficacemente insegnata e appresa".

In questo quadro, questa riconfigurazione è necessaria perché si possa stabilite tra insegnante e alunni un tipo diverso di legame, in cui allo studente è concesso di cambiare comportamento dalle pratiche permesse nel nuovo ordine e in cui l’insegnante non contrappone propri concetti e idee relativi alla conoscenza da trasmettere con il vissuto e le esperienze personali dello studente. Questo tipo di trasformazione è funzionale a favorire, secondo gli schemi di stampo costruttivista, il raggiungimento della padronanza di un metodo logico-simbolico basato su definizioni e deduzioni tramite l’integrazione con altri strumenti operativi e rappresentativi che rendano la conoscenza esplorabile. È perciò diversa dalla trasformazione che è fatta nella prassi didattica tradizionale.

A studiare questo tipo di trasformazioni interviene la teoria della trasposizione didattica, elaborata da Y. Chevallard nel 1985. Per lo studioso francese, vi è un sistema didattico minimo (cioè un insieme di relazioni) che lega insegnante, allievo e sapere sapiente, ovvero quello (nel nostro caso) della comunità dei matematici, che non può essere insegnato così com’è. La trasposizione didattica consiste nell’insieme dei processi che trasformano un determinato sapere matematico dalla forma "accademica" (ovvero quella della ricerca) dapprima in sapere da insegnare (programmi e libri di testo), successivamente in sapere insegnato (quello spiegato in classe dall’insegnante) e infine in sapere appreso (quello che effettivamente lo studente impara), dunque nell’estrazione di un elemento del sapere dal contesto in cui esso è concepito e nel suo riadattamento ad un altro contesto unico, come quello della classe. Il percorso standard parte con l’attività del ricercatore, che sceglie di occuparsi di un problema, che strumenti usare e che strada seguire; nel corso di tale attività può commettere errori o avere dei ripensamenti o produrre dimostrazioni differenti da quelle previste. Il sapere che egli produce perciò è contestualizzato (perché è sviluppato nell’ambito di un contesto specifico) e personalizzato (in quanto si colloca nella sua storia personale). Alcune delle conoscenze elaborate gli paiono degne di essere comunicate al resto

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della comunità scientifica, negli standard in cui queste vengono usualmente comunicate, eliminando cioè riflessioni inutili ed errori e staccando i risultati dal loro contesto d’origine: il sapere sapiente quindi si presenta in una forma decontestualizzata, depersonalizzata, astratta e formale che è già diversa da quella in cui è stato concepito. A questo punto interviene quella che Chevallard chiama la noosfera, cioè il luogo in cui si discutono le idee significative sull’insegnamento, gli scopi della scuola, le finalità del processo di formazione e le attese della società per ciò che riguarda scuola e cultura; questo è anche l’intermediario tra il sistema scolastico, le scelte del docente e l’ambiente sociale esterno alla scuola. Questa individua alcuni aspetti del sapere sapiente degni di essere conosciuti dalla società e opera una trasformazione da sapere sapiente a sapere da insegnare, che deve essere contemporaneamente abbastanza vicino a quello sapiente e abbastanza lontano da quello della società: le istituzioni formulano i curricoli (trasposizione didattica esterna) e in base a questi ricercatori ed esperti scrivono i libri di testo (trasposizione didattica interna). A questo livello, l’insegnante ha il compito di svolgere un lavoro inverso a quello del ricercatore, ricontestualizzando e ripersonalizzando il sapere da insegnare in base all’esperienza personale e all’ambiente della propria classe: deve, cioè, preparare un contesto di classe opportuno a fare in modo che nell’ambiente della classe si possano compiere gli ultimi due passaggi della trasposizione, ovvero il passaggio da sapere da insegnare a sapere insegnato e quindi a sapere appreso. Questa è una fase delicata, che nella didattica tradizionale è trascurata: l’approccio tipico della lezione frontale vede il docente spiegare (spesso non tutti) gli aspetti di un certo concetto presenti sul libro di testo e successivamente assegnare i compiti per casa, che l’alunno deve risolvere in vista di una valutazione, privilegiando l’approccio simbolico-ricostruttivo su quello percettivo-motorio. La ricerca ha mostrato, in aggiunta, che un tale tipo di approccio, se sconnesso dalla costruzione di una ricca base di esperienze, può produrre ostacoli nell’apprendimento, provocando resistenza e confusione.

In una didattica laboratoriale, invece, l’insegnante cerca di fare in modo che l’attività dell’allievo intellettuale assomigli a quella del ricercatore, facendo in modo che lo studente esplori delle situazioni plausibili e in cui le conoscenze da apprendere costituiscano la soluzione ottimale ai problemi posti, producendo modelli, formulando ipotesi e confrontandosi con i pari e con l’insegnante stesso; questo ambiente creato, però, deve produrre contraddizioni a cui l’allievo si deve adattare per poter apprendere e deve essere organizzato volontariamente per trasmettere una conoscenza, attraverso una scelta di situazioni-problema adeguate affinché l’insegnante trasferisca all’allievo la responsabilità di svolgere un certo problema e l’allievo accetti di sua spontanea volontà tale responsa-bilità. In questo tipo di approccio, quindi, serve che avvenga sia un processo di devoluzione (il fenomeno di cui si è detto poco prima in cui l’allievo si fa carico della responsabilità di risolvere un problema) sia un processo, successivo, di istituzionalizzazione, in cui l’insegnante riprende la sua posizione rispetto al sapere riconoscendo l’adeguatezza del lavoro degli alunni e in cui gli studenti, aiutati dal docente, devono poter nuovamente decontestualizzare e depersonaliz-zare la conoscenza prodotta al fine di riconoscere in essa del sapere culturale, utilizzabile in altre situazioni. Alla base della pratica di laboratorio, perciò, è presente l’idea di una trasformazione che ha per fine quello di riconfigurare la conoscenza da insegnare in un oggetto di investigazione e di costruzione di significati, inserendola in un ambiente che permette un rapporto esperenziale con

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il sapere. In quest’ordine di idee, lo studente deve reputare contemporaneamente sia che la tecnica faccia emergere degli obiettivi, consentendogli però di mantene-re l’attenzione sulle procedumantene-re rilevanti a raggiungemantene-re questi ultimi, sia che essa lo guidi all’investigazione degli aspetti strutturali e relazionali che lo pongano in grado di dare giustificazione e senso alla tecnica dal punto di vista teorico o di costruire significati al di là di quelli strettamente collegati al problema assegnato. In particolare, per quanto riguarda la matematica, una tecnica matematica deve essere assoggettata a

1. un ordine operativo, che riguarda il modo in cui una tecnica agisce; 2. un ordine rappresentativo, che riguarda il perché essa funzioni; 3. un ordine sociale, che riguarda il contesto in cui essa è inserita.

Nella pratica didattica tradizionale, il modello di insegnamento di nozioni, procedure e definizioni è di tipo trasmissivo, quasi mai collegato a usi concreti nella realtà, formale e astratto. La partecipazione degli studenti avviene solo sul piano intelletuale, che ascoltano una lezione, una trattazione, un insegnamento a loro impartito in tempi scanditi e precisi. In linea di principio, la lezione dovrebbe garantire un processo di analisi, approfondimento e riflessione sulle conoscenze via via che si costruiscono, per aprire nuove vie di ricerca ancora non sfruttate e per ampliare i punti di vista. Il rischio che si corre è quello di un approccio didattico che diventa una modalità di addestramento e di selezione, con tempistiche molto serrate: la tradizione della lezione, a meno di non essere esperti dell’argomento, costringe a limitarsi all’ascolto, all’annotazione di appunti, alla lettura di testi scritti, alla rielaborazione di quanto ascoltato, letto e scritto e a una sua riproduzione, eventualmente da fare più volte, orale o per via scritta avendo come fine le produzioni presenti sul libro di testo o quelle fatte dal docente. In tal senso, essa non favorisce necessariamente l’uso e lo sviluppo di un pensiero critico e non richiede sempre una partecipazione alla costruzione del sapere attiva e responsabile.

Di contro, la pratica didattica laboratoriale, per come è progettata, prevede invece che l’allievo sia coinvolto attivamente, in prima persona, nel processo di costruzione del sapere seguendo la metafora dell’apprendistato o della bottega ri-nascimentale nel senso già specificato: l’apprendista impara il mestiere lavorando, osservando e comunicando. In altre parole, è un approccio all’insegnamento-apprendimento che coinvolge, sì, la sfera cognitiva individuale, ma anche il corpo, le emozioni e la sfera sociale di un individuo. Per attuare questo tipo di coinvolgi-mento, bisogna far sì che l’alunno rompa gli schemi e le regole (implicitamente o esplicitamente) assunti nella prassi didattica come obblighi reciproci che regolano i rapporti tra insegnante e studenti e le loro aspettative, come fossero commi di un contratto. Gli esperti fanno riferimento a questo insieme di regole, che condi-zionano il processo di insegnamento-apprendimento e che dipendono dal sapere che si vuole insegnare, usando il nome di contratto didattico. La conoscenza si costruisce attraverso progressive rotture del contratto didattico (che è provvisorio e destinato ad evolversi). Queste fratture nella relazione didattica si verificano poco facilmente in un ambiente didattico tradizionale, ma molto più facilmente in un approccio laboratoriale, in quanto forma un ambiente in cui necessariamente lo studente deve assumersi carico di risolvere la situazione problema presentata e costruire il sapere matematico collegato mentre l’insegnante rimane in disparte:

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questa può sembrare una situazione paradossale, visto che l’insegnante non può esplicitare ciò che vuole ottenere (sennò non lo può ottenere) e l’alunno per apprendere deve accettare (implicitamente) di rompere la relazione didattica (con l’insegnante) ed entrare in relazione diretta con il sapere, accettando anche

le conseguenze di questo trasferimento di responsabilità.

A dare un suggerimento per superare questo paradosso è la teoria della situazioni di Brousseau. In particolare, questo si può superare se si costruisce una situazione a-didattica, cioè una situazione (tipica della pratica laboratoriale) in cui l’alunno assume il ruolo di ricercatore in un problema matematico e agisce di propria iniziativa nonostante la presenza dell’insegnante. Non è una situazione didattica che coinvolge il sistema didattico in senso stretto e si svolge in prevalenza in classe intorno ad un sapere da insegnare, tra insegnanti e alunni, dove ci sono esplicite intenzioni di insegnare e di apprendere. Non è nemmeno una situazione non didattica, che invece non è progettata per l’apprendimento (che però può comunque scaturire) e che vede l’alunno da solo, a svolgere un compito che non gli è stato assegnato a scopo di insegnamento. È, invece, una situazione che contiene le condizioni affinché l’alunno la viva indipendentemente dalle istanze didattiche, in modo quindi che le azioni che compie e che le risposte e le argomentazioni che fornisce dipendano dal suo rapporto con la conoscenza da acquisire o da utilizzare per rispondere. L’insegnante deve fare in modo che gli alunni costruiscano o modifichino le loro conoscenze in risposta ad esigenze reali e non su richiesta del docente: la risoluzione del problema deve diventare indipendente dal desiderio dell’insegnante stesso, gli obblighi sono relativi solo al sapere e quindi non sono né arbitrari né specificatamente didattici. Pertanto, una simile situazione in cui l’insegnante è in relazione privata con il sapere e gli alunni sono in relazione (pubblica o privata) con lo stesso sapere ha luogo soltanto se è attivato il processo di devoluzione.

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