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Centro sociale A.14 n.73. Servizi sociali e assistenti sociali in Inghilterra

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Academic year: 2021

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73

.

“ Centro Sociale”

servizi sociali

e assistenti sociali

in Inghilterra

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P eriodico bim estrale del C en tro di E d ucazion e P ro fession ale per A ssiste n ti S o cia li (C E P A S ) - U n iv e r s ità d i Rom a

Centro Sociale

C om itato scientifico

A. Ardigò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - W. Baker, Center for Community Stu-

dies, University ot Saskatchewan - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - Ai. Berry, International Federation of Settlements, New York, - F. Botts, FAO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - Ai. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casaro, Ministero Pubblica Istruzione, Roma ■ G. Cigliano, Istituto Sviluppo Edilizia Sociale, Roma - E. Clunies-Ross, Instìtute of Education, University of London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - /. Dumazedier, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A . O livetti», Roma - E. Hylten, Stockholm University

F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of

Utrecht - A. Meisler, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L. Miniclier, Inter­

national Cooperation Administration, Washington - G. Molino, Amministrazione Attività Assi­ stenziali Italiane e Internazionali, Roma - G. Molta, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - R. Nisbet, Dept. of Sociology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaroni, Facoltà di Architet­

tura Università di Roma - M.G. Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osservato­ rio di Economia Agraria, Università di Napoli - U. Serafini, Presidenza Consiglio Comuni d’Europa, Roma - M. Smith, London Council of Social Service - /. Spencer, Dept. of Social Work University of Bristol - A. Todisco, Fondazione « A . O livetti», Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A . O livetti», Ivrea - E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

C om itato di redazione

Adele Antonangeli Marino — Elisa Calzavara — Teresa Ciolfi Ossicini — Egislo Fatarella Giuliana Milana Usa — Velelia Massaccesi — Laura Sasso Calogero.

Direttore responsabile: Anna Maria Levi - Direzione, redazione, amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 - Roma - tei. 573.455

Abbonamento a 6 numeri annui L. 3.000 — estero L. 4.000 ($ 6,50) un numero L. 650; arretrati il doppio — spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c.c. postale n. 1/20100 Prezzo di questo fascicolo L. 650.

Una volta all’anno Centro Sooiale pubblica un volume in edizione internazionale dedicato a pro­ blemi di sviluppo comunitario dal tiolo International Review of Community Development.

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Centro Sociale

scienze sociali - servizio sociale - educazione degli adulti sviluppo di comunità

anno XIV, n. 73, 1967

S o m m a r i o

E. Rogers Vacca I I I introduzione

K. Tenenbaum S e r v iz i sociali e assisten ti sociali in In g h ilte r r a

( r i c e r c a f i n a n z i a t a d a l C o n s ig lio N a z i o n a l e d e l l e R i c e r c h e )

1 Premessa

2 Origine e sviluppo dei servizi sociali

8 I servizi sociali contemporanei

Settore previdenziale - Settore assistenziale - Servizi assi- stenziali integrativi - Organizzazione amministrativa - Ten­ denze e discussioni - Servizi sociali particolari - Servizi sociali volontari.

24 Gli assistenti sociali

Lo sviluppo della professione - La formazione professio­ nale - La specializzazione professionale.

48 Nota conclusiva

54 Recensioni

Max Wertheimer, il pensiero produttivo (A. Ossicini); F Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programma­ zione economica (A. Paci); J. Madge, Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia (E. B. Hill); P. Leonard, Sociology in Social Work (E. B. Hill); F. Fer- rarotti, Idee per la nuova società (E. Calzavara); ISTAT, Indagine sulle letture in Italia al 15 aprile 1965 (G. Pa- nizzi).

74 Segnalazioni

A cura di Elisa Calzavara, S. C. fain, Mario Zucconi.

106 Documenti

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Introduzione

d i E r n e s t a R o g e r s V a c c a

Nel quadro di una ricerca sulle professioni sociali, promossa dal Centro di Educazione Professionale per Assistenti Sociali e finanziata dal Consiglio Nazionale delle ricerche, pubblichiamo — dopo quella sugli assistenti sociali nei paesi scandinavi, v. Centro Sociale, n. 67-68, 1966 — una seconda monografia.

Il particolare interesse che quest’altro studio ci offre, sembra si possa dedurre dal titolo, « Servizi sociali e assistenti sociali in Inghilterra », come a sottolineare il fatto che non si è ritenuto possibile discutere gli uni senza parlare degli altri.

Nell’introduzione ad un recente libro sui rapporti fra metodo e amministrazione (A. Forder, Social Casework and Administration, Faber & Faber, Londra, 1966) il prof. Titmuss fa notare come l’idea di un lavoro svolto da un operatore nell’isolamento, e visto soltanto nelle dimensioni del rapporto a due assistente- cliente, se era forse vagamente vicino al vero nel XIX secolo è certamente falso oggigiorno. Eppure vi sono ancora « uomini politici e amministratori... che non comprendono il posto del servizio sociale nella comunità e danno l’impressione che sarebbe possibile risolvere i problemi sociali semplicemente con l’aumento dell’offerta di assistenti sociali qualificati ». E’ chiaro che il prof. Titmuss dà per scontato che il servizio sociale e i suoi operatori formano un tutto unico, non separabile né sul terreno della pratica né su quello della teoria. Non solo, ma gli assistenti sociali, anche se presenti in alto numero, non possono costituire per la loro sola presenza negli enti una risposta a problemi sociali la cui soluzione va ricercata ad altri livelli, politici ed amministrativi.

Tuttavia il servizio sociale e gli assistenti sociali sono sempre stati associati con il compito di fornire assistenza sia materiale che personale ai propri clienti. Può quindi sembrare strano che nel paese dove si potrebbe ritenere che sia stato raggiunto uno stadio in cui i bisogni umani principali sono stati preveduti e coperti, la richiesta di assistenti sociali — sempre di più, e sempre meglio qualificati — continui a salire con il passare degli anni. Né il welfare

state, né il raggiungimento di un tenore di vita notevolmente alto hanno

minimamente arrestato questa tendenza all’aumento della richiesta.

Quali sono le ragioni di questo fenomeno? Ci sembra che valga la pena di considerarle, se riflettiamo che la situazione italiana è quasi l’opposto di quella britannica: in un paese in cui la necessità dei servizi sociali è evidente perfino ai visitatori occasionali ed ai turisti, non si può proprio dire che gli assistenti sociali vadano a ruba; né che gli enti di servizio sociale elevino continue lamentele per la scarsità di questo tipo di operatori.

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Un altro interessante fenomeno che il lavoro di Katrin Tenenbaum mette chiaramente in evidenza è il numero e l’estensione dei servizi sociali inglesi, specializzati e frammentati ad un punto tale da creare un senso di incertezza e confusione non solo nell’eventuale destinatario, ma anche a volte nell’assi­ stente sociale che voglia indirizzare il suo cliente al posto giusto nel momento giusto. La recente pubblicazione di una Guida dell’utente dei servizi sociali della P. Willmott, pubblicata nella edizione popolare dei Pelican Books que­ st’anno, sta a dimostrare che questa sensazione non è soltanto quella del visitatore straniero disorientato, ma anche quella del cittadino britannico, a volte posto di fronte a troppo ben di Dio. E se non è troppo difficile rendersi conto, dopo attenta lettura della Tenenbaum, delle cause storiche che hanno creato la situazione attuale, c’è tuttavia da porsi domande sulla efficenza del sistema, sui problemi di coordinamento che indubbiamente devono esistere, e sulle lacune che questa crescita spontanea e stratificata deve necessariamente aver lasciato.

E ancora: fino a che punto assistenti sociali numericamente insufficienti, oberati di lavoro, riescono ad adempiere ad una funzione di stimolo per ciò che riguarda il miglioramento, sviluppo, coordinamento dei servizi? O, se vogliamo rifarci ai principi, fino a che punto viene accettato in Inghilterra che questa attività di stimolo faccia parte delle normali funzioni di un assistente sociale, e fino a che punto viene questa attività veramente svolta in pratica? Fino a che punto questi desiderati ed ambiti assistenti sociali si trovano in posizioni tali da potere influire direttamente o indirettamente sulla politica degli enti? Fino a che punto sono in prima linea nell’azione sociale?

Questi problemi, tutti connessi gli uni agli altri, ci sembrano interessanti sia per rilevare differenze e somiglianze con la nostra situazione, sia perché un ripensamento alle origini dei problemi che altri hanno incontrato e stanno tuttora incontrando dovrebbe — o almeno si spera — essere di aiuto a evitare gli stessi errori, e di conforto a tollerare i dolori di crescenza di cui tutti soffriamo sia in paesi « avanzati » che « meno avanzati ».

Come risulta chiaramente dallo studio della Tenenbaum, l’anno 1948, che vide entrare in vigore una serie di provvedimenti legislativi di carattere pre­ videnziale, assistenziale e sociale, segna una linea di divisione fra due ere, fra due diverse concezioni di ciò che i servizi sociali rappresentano nella comunità. A partire dalla fine del secolo scorso già esisteva in Inghilterra una rete di servizi pubblici, sia pure non coordinati fra loro e non interessanti tutta la popolazione. Ma lo spirito che ne aveva informata la nascita era di carattere piuttosto difensivo: l’assistenza veniva fornita perché le situazioni sociali che si erano venute a creare dopo la rivoluzione industriale e gli anni delle crisi economiche o rappresentavano una minaccia agli interessi di certe classi, o, in altri, creavano sensi angosciosi di colpa. Molte riforme, ad esempio nel

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campo previdenziale, erano state ottenute dopo aspre lotte delle trade unions, alcune altre con la speranza di ovviare a mali sociali dilaganti, come le riforme nel campo dell’istruzione, tese a frenare la criminalità crescente; molte erano state spinte e sostenute da un gruppo di intellettuali di sinistra, i Fabiani, che formavano nel campo dell’azione sociale l’avanguardia del partito laburista.

Il fenomeno della divisione in classi sociali della società inglese, che si può dire senza equivalenti nelle altre situazioni europee, al momento stesso che creava dei problemi di giustizia sociale (neppure adesso interamente risolti) portava ad una impostazione particolare nella concezione dei servizi sociali fin dai loro inizi. Il reclutamento degli assistenti sociali prima del 1948 avve­ niva nell’ambito delle classi medie e alte che, con la miglior volontà del mondo di ristabilire una « eguaglianza di partenza » per tutti, soffrivano per le loro stesse origini di notevoli difficoltà di comunicazione con il mondo dei loro clienti ed assistiti. Le strutture stesse dei servizi assistenziali non erano tali da permettere una individualizzazione di trattamento: si trattavano categorie di bisogni, in un sistema che amministrativamente non teneva conto dell’indi­ viduo. Quando, dopo il 1948, avvenne la « rivoluzione pacifica » e nacque il

weljare state, lo spirito informatore dei servizi sociali non voleva più essere

quello di uno stato benevolo e paternalistico, che vuole soccorrere quella parte della società incapace di aiutarsi da sé. Al contrario, l’idea era che lo stato assumeva delle nuove funzioni e si faceva garante di un livello minimo di vita per tutti, perché la comunità aveva bisogno di tutti i suoi cittadini, e non poteva permettere che le energie potenziali di tutta una parte di se stessa andassero sprecate per mancanza di istruzione, di assistenza medica, per povertà dovuta ad una ineguaglianza di partenza e aggravata dalla mancanza di lavoro e dalle orisi economiche.

Non è certo possibile pensare che semplicemente l’azione legislativa, istitu­ tiva di nuove forme assistenziali, rendesse tutta la comunità improvvisamente più sensibile ai bisogni dei meno fortunati. Ma l’azione legislativa, creando nuove strutture e impostando tutta una politica sociale sui diritti che ogni cittadino ha per la sola ragione di essere nato, e sull’interesse che la comunità ha a far sì che ogni nuovo nato possa essere messo in grado di; sviluppare le capacità di cui è dotato, attribuiva ai servizi sociali compiti nuovi e un’apertura infinitamente maggiore di prima. Gli stessi cambiamenti che avvenivano nella società inglese per ragioni di carattere economico, creavano una serie di condizioni in cui gli individui si trovavano più esposti alla necessità di un aiuto individualizzato.

La necessità di un miglioramento nella produzione richiedeva una maggiore mobilità nel campo del lavoro, sia nel senso di maggiore facilità a passare da un lavoro ad un altro mediante riqualificazione, sia nel senso di spostamenti geografici per trovare il lavoro adatto, o la possibilità di un avanzamento. Questi stessi cambiamenti rendevano più difficile trovare nell’ambito naturale

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il sostegno e l’appoggio in casi di difficoltà; le famiglie venivano separate, il risanamento dei quartieri miserabili portava ad una distruzione dei rapporti di vicinato, la nuova mobilità sociale verso l’alto rendeva difficile un dialogo fra le generazioni.

Cresceva il numero dei clienti potenziali, ed insieme cresceva il numero delle richieste di assistenti sociali da parte di servizi anch’essi proliferanti, con nuove funzioni, nuovi campi di lavoro, nuovi esperimenti.

E la nuova situazione poneva gli enti — particolarmente quelli pubblici, che per legge venivano a portare il maggior peso dei nuovi compiti — di fronte alla necessità di trasformarsi per adattarsi alle nuove esigenze. E poiché molti dei servizi non erano stati istituiti per sopperire a bisogni individualizzati, ma per venire incontro a problemi di intere categorie, l’introduzione di un per­ sonale qualificato (che poneva l’accento su nuovi metodi di lavoro, e sull’adat­ tamento e riadattamento sociale dell’individuo) accanto a personale che era stato assunto in vista di altri obiettivi e con altre funzioni, necessariamente veniva a creare una serie di problemi e di difficoltà.

In effetti, se un servizio sociale deve adempiere al compito che la società gli ha affidato, deve anzitutto porsi un problema di efficienza. Quando il personale non qualificato non riesce ad ottenere che il comportamento cambi, che la situazione migliori, il rapporto con il cliente facilmente si deteriora: il cliente cessa di collaborare e con questo la finalità dell’intervento non viene raggiunta.

Come nota la Tenenbaum, una delle caratteristiche dei servizi sociali inglesi è il continuo dialogo che esiste fra enti pubblici ed enti privati di servizio sociale. Quando i nuovi metodi di lavoro — sperimentati in enti privati e quindi più flessibili — si dimostrarono efficienti, le amministrazioni dei servizi sociali pubblici, in diversa misura, cominciarono a fare i primi passi per introdurli nei loro enti, spesso mediante l’assunzione di assistenti sociali qua­ lificati. Questo processo aveva avuto inizio molto prima del 1948, si può dire fin dall’inizio di questo secolo — e gli esempi più brillanti ne sono forse il probation service e i meritai health Services. Ma la nuova situazione portò la richiesta di personale ancora più in alto: non si trattava più soltanto di migliorare il livello di efficienza dell’ente, ma addirittura di provvedere a creare interi nuovi settori di servizi già in partenza individualizzati — l’esempio

più chiaro di questo sono i chìldren’s departments delle amministrazioni locali —

per i quali una preparazione professionale era perciò la garanzia di un inter­ vento fruttuoso.

Ma gli anni cinquanta, se videro un enorme entusiasmo da parte degli assistenti sociali per entrare a far parte del personale che doveva far funzio­ nare i nuovi servizi con metodi nuovi e con spirito nuovo, videro anche, (dopo un breve idillio, il sorgere di una serie di nuovi problemi, che in Italia vanno col nome generico di «problemi di inserimento».

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I servizi sociali pubblici, gestiti in genere direttamente dalle amministrazioni locali o regionali con l ’aiuto del governo centrale, sono finanziati dal gettito delle tasse e delle imposte locali, ed hanno l’obbligo di una stretta resa dei conti alla chiusura del loro bilancio annuale. Inoltre essi forniscono servizi che, per essere statali, devono essere universali: in altri termini tutte le persone che si trovano nelle condizioni previste dalla legge istitutiva per poterne usufruire, debbono poterne in effetti godere i benefici. Non è quindi possibile agli amministratori poniamo di un children’s department di limitare il numero dei casi, o scegliere fra questi quelli che meglio risponderebbero alle loro cure: il numero dei oasi non è controllabile dal servizio, condizione questa assai diversa dalla situazione di un ente privato. Questo in pratica porta alla tendenza da una parte a contenere le spese nei limiti del bilancio preventivo — cosa che in un nuovo servizio limita di molto le possibilità di sperimentazione — e dall’altra a dover provvedere comunque il personale necessario per trattare con un numero inevitabilmente alto e crescente di clienti. I servizi sociali pubblici lavorano quindi in un clima di continua pressione e sono spesso costretti a fare uso di personale non qualificato o semi-qualificato che possono ottenere o che si trovano già ad avere.

E se gli enti di servizio sociale privato non soffrono per queste ragioni, anch’essi hanno i loro problemi; anch’essi, fondati in un’epoca storica diversa, e senza la spinta di una legislazione che li obblighi a trasformarsi per venire incontro a nuovi bisogni, debbono cambiare per adattarsi al nuovo clima, e competono con gli enti pubblici per la limitata quantità di personale qualifi­ cato presente sul mercato — oppure corrono il rischio di ossificarsi nelle loro tradizioni, e quindi di non rispondere più alle nuove esigenze.

I problemi di inserimento degli assistenti sociali inglesi dipendono quindi da due fattori principali. Il primo è legato all’esistenza di amministrazioni che nel passato non si erano preoccupate di assumere personale qualificato perché allora non risultava chiara la necessità di una qualifica particolare, viste le mansioni che il personale era chiamato a svolgere nella limitata definizione data al servizio stesso. Un esempio chiaro di questa situazione si ha ad esempio nel campo dei servizi sociali psichiatrici con la trasformazione dei vecchi

duly authorized officers — personale le cui funzioni amministrative e legali

erano molto limitate — in menial welfare officers con compiti specifici di servizio sociale. La natura del lavoro è sostanzialmente cambiata, e un afflusso di assistenti sociali preparati ai nuovi compiti crea problemi di insicurezza nel personale precedente, specialmente se i nuovi assunti hanno maggiori possibilità di carriera o addirittura occupano immediatamente posti di responsabilità.

II secondo si riscontra in enti che hanno da tempo accettato la necessità di una preparazione specifica del loro personale, e che hanno sempre riconosciuto che il loro lavoro aveva tutte le caratteristiche del servizio sociale (come per i

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ragioni già esposte, e la manoanza di un numero adeguato di reclute qualifi­ cate hanno condotto al continuo uso di personale semi-qualificato. Di nuovo, l’introduzione di assistenti sociali con preparazione professionale migliore accanto a personale principalmente addestrato sul lavoro crea problemi di rapporti all’intemo dell’ente.

Tuttavia la radice di questi problemi va ricercata anche nella confusa situa­ zione inglese per ciò che riguarda l’addestramento professionale, così chiara­ mente illustrata dalla Tenenbaum nella seconda parte del suo lavoro.

La necessità per gli assistenti sociali di avere una preparazione professionale era inizialmente derivata dal problema di comprendere il cliente e i suoi bisogni, e di essere in grado di rispondere a questi in maniera appropriata — e senza dubbio questa era la finalità che avevano in mente i primi pionieri della Charity Organization Society quando iniziarono i primi corsi di scienze sociali per i loro operatori. E che questa necessità fosse sentita in primo luogo dalle organizzazioni che volevano adoperare gli assistenti sociali nei loro servizi è senza alcun dubbio la fonte della massima differenza fra la situazione inglese e quella italiana: nel nostro paese infatti, si può dire che siamo quasi di fronte al problema inverso, quello di « vendere » assistenti sociali, prepa­ rati nelle scuole di servizio sociale, ad enti che solo in parte riconoscono la necessità di avere un personale con una preparazione diversa da quella esistente — o quasi inesistente.

In Inghilterra, tuttavia, questa istanza degli enti portò come prima conse­ guenza una varietà nel campo dell'educazione professionale parallela alla varietà degli enti sorti per rispondere ad istanze di bisogni specifici: e quindi gli assistenti sociali sanitari ebbero la loro preparazione separatamente dagli altri, e così i probation officers, i child care officers, gli assistenti sociali psichiatrici e così via. Questo fenomeno va ora diminuendo, con la tendenza ad una preparazione di base unificata che permetta fra Labro la possibilità di scegliere la propria specializzazione più tardi, e la possibilità di una inter­ cambiabilità di personale da un ente all’altro, cosa importantissima quando si voglia raggiungere una utilizzazione migliore di una scarsa quantità di personale.

Ma tuttavia, anche in Inghilterra, per varie ragioni storiche, uno degli aspetti principali dell’educazione professionale degli assistenti sociali venne trascurato in favore di altri: ci riferiamo alla prevalente importanza data alle dottrine psicologiche e alla metodologia del casework, rispetto alla impor­ tanza data, durante l’addestramento, allo sviluppo della capacità di comu­ nicare con gli amministratori del proprio o di altri enti, e di mantenere all’esterno tutti quei contatti professionali che assicurano un coordinamento delle attività assistenziali a favore del cliente.

L’amministratore di un ente segue prassi che sono state dettate dalla valutazione, fatta in un certo momento nel tempo, di un gran numero di

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fattori: i bisogni qualitativi e quantitativi dei clienti che l’ente deve servire, la disponibilità di fondi, la disponibilità di personale, l’utilizzazione di per­ sonale diverso per diverse funzioni. Per ottenere un risultato positivo questi procedimenti dovrebbero essere modificati mano a mano che l’uno o l’altro dei fattori vengano a cambiare, e l ’ente per raggiungere una sua efficienza dovrebbe mantenere una flessibilità che permetta di variare le sue prassi a seconda delle necessità. Se l’assistente sociale, oltre allo svolgere il proprio Lavoro diretto, non è in grado di trasmettere all’amministratore quelle infor­ mazioni che derivano dalla sua esperienza diretta, per ciò che riguarda le trasformazioni nella situazione dei suoi clienti, ramministratore non è in grado di valutare almeno uno dei fattori che pesano sulla sua decisione, e non può quindi decidere giustamente. Questo implica che l’assistente sociale dovrebbe avere la capacità di vedere il proprio lavoro anche in chiave ammi­ nistrativa; dovrebbe essere in grado di rilevare costanti presenti in clienti o in gruppi di clienti, carenze nei servizi di appoggio che renderebbero migliore il servizio dato al cliente, e dovrebbe essere al corrente non solo degli svi­ luppi delle dottrine psicologiche, psichiatriche o sociologiche che hanno influenza sulla sua metodologia di lavoro, ma anche delle situazioni reali che trasformano la vita sociale della comunità in cui egli si muove. Questo « senso amministrativo » non dovrebbe essere, fra l’altro, limitato alla inter­ pretazione di bisogni di gruppi specifici di clienti entro la propria ammini­ strazione, onde dimostrare la necessità di nuovi procedimenti nel servizio, o l’estensione o il miglioramento di certe prestazioni, o l’inclusione di nuovi tipi di clienti nella prassi esistente, ma dovrebbe anche includere una visione critica e realistica del proprio ruolo all’interno dell’ente, che lo mettesse in grado di immaginare nuove utilizzazioni delle proprie capacità e conoscenze professionali e suggerire nuovi esperimenti e nuove soluzioni, nuovi indirizzi della propria attività. E’ vero, d’altra parte, che se il contatto diretto con i clienti è limitato a personale che si trova molto in basso nella scala gerar­ chica, i giudizi di questo personale non saranno mai valutati al giusto grado e gli amministratori dimostreranno una tendenza a tenerne un conto relativo; questo è vero in Inghilterra come in Italia, come probabilmente altrove.

Forse per questo anche in Inghilterra ci sono stati tentativi di definire meglio i compiti professionali, il profilo professionale, le funzioni e il ruolo dell’assistente sociale, specialmente in quegli enti in cui il servizio sociale non è primario, e in cui i rapporti degli assistenti sociali non sono soltanto con amministratori, ma anche con persone aventi qualifiche professionali diverse (e in genere di maggiore status) come medici, magistrati, psichiatri, ecc. I vantaggi immediati di una definizione precisa sono evidenti, tanto da farla ritenere la sola soluzione efficiente: gli individui si sentono più sicuri, cause di attrito vengono eliminate, la comunicazione formale è meglio assi­ curata, e nella propria sfera ciascuno ha il senso di una maggiore indipendenza.

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Ma a lungo andare una definizione troppo precisa tende a diventare rigida, e può diventare un ostacolo alla trasformazione e all’adattamento di un ente a nuove circostanze e nuovi bisogni.

In questo, come in altri campi, la tendenza inglese è piuttosto verso un empirismo che permetta una maggiore flessibilità e la possibilità di speri­ mentare — a ragion veduta — un certo numero di varianti e di nuove soluzioni.

Questo « senso amministrativo » dovrebbe anche render più facili per l’assistente sociale i contatti con servizi ed enti diversi dal proprio, in modo che le risorse della comunità vengano impiegate nel modo migliore, senza sperperi di denaro o di personale. Questo problema del coordinamento degli sforzi nel campo del servizio sociale è specialmente sentito nella realtà inglese, proprio per resistenza di un gran numero di servizi sociali; non è affatto raro che lo stesso caso sia per legge di competenza di due o anche tre o quattro

servizi diversi (tribunale minorile, children’s department, housing department,

education department per citare una combinazione comune in molti casi di

minori in care) e venga visitato contemporaneamente da una moltitudine di assistenti sociali con scopi diversi e per ragioni diverse.

Due sono i metodi di coordinamento che di recente sono stati molto discussi: i coordinating committees e le case conferences. I primi sono commissioni a livello di servizi, con lo scopo di raggiungere un accordo fra diversi servizi, sia di uno stesso ente che di enti diversi, per prendere accordi su direttive generali; la discussione di casi è puramente illustrativa dei principi in que­ stione. La case conjerence è piuttosto una discussione di gruppo fra operatori diretti per raggiungere una valutazione dei bisogni totali di un caso particolare e concertare un piano di azione comune. Non esiste ancora nella letteratura corrente una vera e propria rassegna e valutazione critica del modo di operare e dell’efficienza di queste commissioni e dei risultati concreti che riescono a raggiungere.

Rimane il fatto che ai diversi aspetti di uno stesso problema assistenziale inevitabilmente viene attribuita diversa importanza da enti diversi, proprio perché le loro funzioni e la loro esperienza sono diverse, e diverse sono le pressioni cui ogni ente è sottoposto da parte della comunità. L’atteggiamento inglese a questo proposito è in genere piuttosto empirico e, tutto considerato, non del tutto negativo: si ritiene che non sarebbe neppure desiderabile eli­ minare completamente queste differenze con atti autoritari di amalgamazione di servizi o con l’uso dei medesimi operatori sociali da parte di più servizi, perché in fondo queste differenze hanno anche il valore positivo di non permettere che certi aspetti vengano trascurati o dimenticati.

Ma se da una parte soluzioni radicali si possono trovare soltanto mediante cambiamenti nella legislazione, e di conseguenza dopo pressioni notevoli da parte dell’opinione pubblica e di gruppi speciali, dall’altra grandi speranze

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vengono riposte nelle soluzioni auspicate dal cosiddetto Younghusband Report, che rappresenta una pietra miliare nello sviluppo dei servizi sociali inglesi. E’ ancora troppo presto per giudicare se i nuovi corsi istituiti in seguito alle raccomandazioni di questo Rapporto produrranno effettivamente personale con il grado richiesto di capacità professionale a soddisfare le esigenze della struttura tripartita preconizzata dal Rapporto stesso. E’ interessante notare tuttavia che finora i corsi « Younghusband » sono stati frequentati in massima parte da assistenti sociali già in servizio, distaccati dalle loro amministrazioni per ottenere la nuova qualifica.

E qui vale forse la pena di notare l’importanza particolare di un meccanismo che esiste in Inghilterra, il quale permette1 di studiare i problemi non solo in sede teorica, ma è anche lo strumento tramite il quale molte delle trasforma­ zioni organizzative di servizi vengono sperimentate in pratica: mi riferisco al lavoro dei working parties, commissioni di studio stabilite dai diversi ministeri per dare una valutazione critica e suggerire soluzioni a problemi sociali di ogni genere e ad ogni livello. Per esempio il famoso Younghusband Report ora citato è il risultato di una commissione di studio stabilita dal Ministero della Sanità pubblica sul tema « Assistenti sociali nei servizi di sanità e assistenza delle amministrazioni locali ». Come questo, moltissimi working parties sono stati nominati da diversi ministeri per studiare e offrire suggerimenti in merito a varie situazioni: probation Service (Morrison Report, 1962), fanciulli e giovani (Ingleby Report, 1960): organizzazione dell’assistenza post-dimissione dei disadattati sociali; assistenza ai bambini in ospedali, ecc. Questi studi ven­ gono chiamati in genere con il nome della persona che presiedeva la commis­ sione, ma ne fanno parte una varietà di persone, da funzionari dei ministeri interessati a persone note nel mondo degli studi sociali, docenti universitari, ecc.; nel corso del loro lavoro queste commissioni hanno la possibilità di ascoltare i pareri ed i suggerimenti sia di singoli che di associazioni profes­ sionali di operatori sociali, specialmente qualificati ed interessati al problema in discussione.

Il ministero competente ed il Governo non sono necessariamente impegnati a seguire in toto le raccomandazioni ed i suggerimenti di queste commissioni, ma in genere essi hanno una tale autorità che vengono sempre utilizzati, almeno in via di esperimento, in situazioni particolari. Se la sperimentazione ■dopo un certo numero di anni ha dato dei risultati positivi, è abbastanza frequente che questi suggerimenti e proposte, modificati dalle esperienze rac­ colte, vengano poi incorporati in progetti di legge, e alla fine creino nuove prassi e nuove soluzioni.

Allo stesso tempo, queste commissioni rappresentano una via di comunica­ zione per cui le associazioni professionali possono fare sentire la voce del­ l’esperienza sui problemi sociali, sia grandi che piccoli, di loro competenza. ■Questo è quindi forse il modo principale — ed anche il più ufficiale — con

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cui gli assistenti sociali inglesi rendono noto il loro punto di vista sui

problemi sociali esistenti. _

Ma le associazioni professionali non si limitano necessariamente a servirsi di queste commissioni ufficialmente costituite per esprimere la loro opinione circa situazioni particolarmente discusse o scottanti. Le loro assemblee annuali sono un’occasione per rendere noto alla stampa il punto di vista di gruppi speciali di assistenti sociali, e quando la stampa si occupa sia di casi singoli o di situazioni «di scandalo» le associazioni professionali raramente trascu­ rano di dire la loro parola, sia mediante lettere aperte che mediante comunicati. In questo senso le associazioni professionali costituiscono veri e propri gruppi di pressione, in senso politico, con il vantaggio di trovarsi nelle condi­ zioni migliori per documentare e provare i danni o le inadeguatezze di certa legislazione o corrente prassi assistenziale. E naturalmente questo implica una attiva partecipazione dei membri delle associazioni a tutto il lavoro prepara­ torio necessario a raccogliere ed elaborare i dati provenienti dalla pratica diretta. In effetti, se negli anni cinquanta l’impegno di operare e rendere efficienti le nuove strutture aveva potuto creare la sensazione di un distacco e di una indifferenza degli assistenti sociali inglesi rispetto ai problemi sociali più urgenti, e quasi l’impressione di un eccessivo interesse nelle tecniche e meto­ dologie del loro lavoro, si può dire che negli ultimi anni c è stato un rinno­ vamento di interesse nello studio e discussione dei problemi sociali ancora aperti e dei nuovi problemi che si vanno creando in Gran Bretagna.

Vorremmo arrischiare l’ipotesi che questo rinnovamento di impegno sociale vada veduto nel contesto di due fatti importanti. Il primo è l’arrivo sulla scena di nuove generazioni di assistenti sociali, reclutati non più necessaria­ mente nelle classi medie e alte, ma giunti alle Università dopo 1’« Education

A ct» del 1948, che ha dato la possibilità a giovani provenienti dalla classe

lavoratrice di aprirsi la strada alle professioni a seconda delle loro capacità intellettuali. Lo spirito con cui queste nuove leve esaminano le realtà sociali, che conoscono non attraverso libri o studi, ma dalla nascita, è inevitabilmente diverso da quello dei pionieri « filantropi ». E mentre naturalmente è facile per la generazione che ha creato il weljare state e ancora ricorda la crisi e la disoccupazione e la miseria degli anni trenta, di cadere o in una forma di compiacimento, o quanto meno di soddisfazione relativa per ciò che è stato raggiunto al giorno d ’oggi, le nuove generazioni, per cui la crisi del 29 è una leggenda e le conquiste di ieri un fatto naturale e dovuto, trovano molto più facile portare uno spirito critico nei confronti della situazione attuale. L altro fatto, di natura politica, è che nel lungo periodo di governo conservatore, dal ’51 al ’64, i servizi sociali del welfare state, pur non essendo stati distrutti, cominciavano ad essere lentamente erosi da una amministrazione che, per ipotesi, non ne condivideva i principi informatori. E la stessa reazione che portò di nuovo al governo il Partito laburista, è anche la reazione di tutti

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quelli che non vogliono vedere le loro conquiste sociali fare dei passi indietro, e che vogliono dei servizi sociali in via di miglioramento, non in via di disgregazione.

Con questo, non si vuole naturalmente sostenere che i servizi sociali inglesi sono i migliori possibili: né lo sosterrebbero gli operatori sociali che li fanno funzionare o i cittadini che se ne servono. Esiste ancora una grande disparità sia di distribuzione che di qualità dei servizi nelle diverse parti del Regno Unito. E’ difficile attirare personale qualificato specialmente nelle zone depresse, come certe zone del Galles e della Scozia. La stessa flessibilità delle leggi istituzionali, che in alcuni casi prescrivono alle amministrazioni locali i loro obblighi, ma in altri semplicemente « permettono » loro di organizzare o no dei servizi, creano situazioni di privilegio di alcuni cittadini — risiedenti in zone più avanzate — rispetto a quelli risiedenti in zone meno progressiste.

Uno dei fenomeni interessanti che sta attualmente sviluppandosi in Inghil­ terra è rimportanza assunta da gruppi di pressione locali per ottenere dalle amministrazioni locali il miglioramento dei servizi esistenti o la loro estensione, 0 l’istituzione di servizi « permessi » ma non obbligatori. Questi gruppi di pressione sono in genere dovuti ad utenti dei servizi, non soddisfatti delle prestazioni ricevute, che a volte non si limitano soltanto ad una azione di protesta, ma diventano, col passare del tempo, veri e propri pionieri di azione sociale in sfere ben delimitate. Se non si può dire che questi gruppi utilizzino poi la competenza di assistenti sociali qualificati con funzioni specifiche nel gruppo, come avviene in altri paesi e specialmente in America, è giusto tuttavia notare come gli assistenti sociali non sono del tutto assenti neppure in queste formazioni spontanee. Di alcune iniziative essi sono addirittura pro­ motori — non nella loro veste specifica di operatori di servizi, ma unendosi ad altri elementi locali — come ad esempio entro il gruppo del Surrey, che pubblicò uno studio sui servizi sociali locali per refutare la pretesa dell’ammi­ nistrazione locale, la quale sosteneva che i suoi servizi fossero fra i più efficienti del paese. In altre situazioni, essi spesso sono fra i partecipanti attivi di gruppi locali, in quanto essi stessi utenti potenziali dei servizi in questione, come molti dei membri della National Association for thè Welfare

of Children in Hospitals (Associazione nazionale per il benessere dei bambini

in ospedale, nata per favorire l’attuazione del Piati Report del 1958). E quando il gruppo di pressione si trasforma in vera e propria associazione privata che offre un servizio sociale non ancora previsto, l’assistente sociale può venire impiegato e pagato privatamente dalla nuova organizzazione, a cui offre allora l’appoggio della sua competenza professionale (come è avve­ nuto per la Society for Autistic Children: nata dagli sforzi di un gruppo di genitori per ottenere dalle amministrazioni locali una educazione speciale per 1 loro bambini, che fosse diversa dalle formule ufficiali per i bambini deficitari e disadattati, è ora un’associazione che aiuta i genitori dei bambini affetti da

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autismo a risolvere i loro problemi, e che ha creato una prima scuola residen­ ziale speciale per questa categoria).

Queste attività ci sembra vadano distinte dalle attività di volontariato, che hanno in Inghilterra una lunga tradizione, e vadano piuttosto classificate come moderni tentativi di self-help, o attività che partono da una base democratica di auto-organizzazione in una comunità di complessità crescente.

E ci sembra che una delle origini di questi movimenti sia da trovarsi nel fatto che quando i servizi sociali si estendono a tutti, quelle categorie mentali di « assistiti » o « beneficati » o « persone in stato di bisogno » tendono a scomparire, e i destinatari dei servizi cominciano a coincidere con quelli che pagano i servizi stessi attraverso le tasse: gli utenti del servizio sono quindi le stesse persone che lo finanziano, e in questo senso hanno maggiore inte­ resse diretto e responsabilità per il modo come funziona e come dovrebbe funzionare. In Inghilterra, poi, il fatto che utenti dei servizi sono anche i ceti medi, come tutti gli altri cittadini, ha fatto sì che le maggiori capacità di verbalizzare le critiche e di esprimere una eventuale insoddisfazione da parte di persone dotate di maggiore cultura venissero messe a servizio di queste organizzazioni spontanee, che in passato avrebbero avuto una molto minore possibilità di far sentire la loro voce.

Tipica in proposito ci sembra un’osservazione contenuta nella già citata

Guida dell’utente dei servizi sociali-, trattando l’argomento delle «lamentele,

e del come farle perché raggiungano lo scopo », l’autrice dice testualmente. « Se avete buone ragioni per usare del telefono (o fare una visita) come mezzo di comunicazione, è un dato di fatto, triste ma vero, che è spesso un vantaggio essere in possesso di un middle-class accent », e continua con il suggerimento « ... se non lo avete, chiedete l ’aiuto di un amico che lo possiede, o dei Citizen

Advise Bureaux cui spetta per compito di aiutarvi in questo senso ».

Questo suggerimento è dato in tutta serietà, ed è un commento alla situa­ zione delle classi sociali in Inghilterra che non richiede spiegazioni o ulteriori parole. Ma il fatto stesso che un intero capitolo del libro sia dedicato al miglioramento dei servizi sociali, ci sembra indicativo: la qualità dei servizi sociali di una comunità dipendono da una serie di fattori, come la politica sociale generale del paese, l’ammontare dei fondi spesi per queste attività, le strutture degli enti, la preparazione del personale incaricato di rendere gli enti operanti. Ma in ultima analisi la qualità e l’efficienza dei servizi sociali dipendono da quello che la comunità stessa richiede, da quello che vuole ottenere, e, in misura ancora maggiore, dal lavoro che è disposta a fare per ottenere quello che vuole.

In Inghilterra, come altrove, la responsabilità per il tipo di servizi sociali che vogliamo dipende dall’esercizio della nostra qualità di cittadini, non solo in quanto elettori, ma in quanto partecipanti attivi a quanto succede nella nostra immediata comunità e vicinato.

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Servizi sociali e assistenti sociali in Inghilterra

d i K a t r i n T e n e n b a u m

P rem essa

Nell’Enciclopedia Britannica, alla voce Social Service, si trova la seguente definizione:

« L’espressione viene definita, in termini generali, come quell’insieme di provvedimenti statali o privati intesi a mantenere il livello del reddito, a for­ nire assistenza medica, a soddisfare i bisogni di alloggio e di ricreazione, e i provvedimenti per l’assistenza e la protezione di gruppi particolari, che sono stati riconosciuti come responsabilità essenziale della comunità in una società industriale... In Gran Bretagna il termine comprende provvedimenti statali e non statali nel campo delle assicurazioni sociali (Social Insurance), assi­ stenza sociale (Social Assistance), assistenza medica (Medicai Care), edilizia

(Housing), istruzione (Education), e tempo libero (Ricreation), come anche nel

campo dell’assistenza e protezione di gruppi sociali ».

Nell’uso invalso in Italia,1 l’espressione servizio sociale viene adoperata, nella stessa accezione, al plurale:

« Il termine (servizi sociali) sta ad indicare i servizi, cioè le attrezzature attraverso cui si esplicano le attività di aiuto sociale e di protezione sociale: servizi di assistenza all’infanzia, alla gioventù, agli anziani, ai minorati fisici e psichici; i servizi di salute pubblica, d’igiene mentale, di sicurezza del lavoro e così via. Nella sua forma al plurale il termine comprende non solo i servizi pubblici, ma pure le istituzioni private che costituiscono l’insieme dei mezzi strumentali destinati a realizzare i programmi di protezione sociale >■>?

La tesi riguarda i servizi sociali e gli assistenti sociali in Inghilterra.3 I servizi

sono gli elementi attraverso cui si struttura il cosidetto welfare state.* In que­

sto contesto essi tendono a diventare social security Services — servizi di sicu­

rezza sociale, in quanto dovrebbero formare una rete operativa organica, integrata in un sistema di sicurezza sociale.

Nella prima parte della tesi verranno analizzate le origini, lo sviluppo e lo stato attuale dei servizi sociali; nella seconda verrà considerata l’evoluzione del servizio sociale come professione e la presente formazione e attività pro­ fessionale degli assistenti sociali inglesi.

Tesi di diploma discussa presso il CEPAS nel dicembre 1966, nel quadro della ricerca sulle professioni sociali (v. introduzione).

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O rig in e e sviluppo dei se rv izi sociali

Le lontane origini dei moderni servizi inglesi si fanno risalire in genere alla elisabettiana legge sui poveri (« Poor Law »). Essa in effetti rimane un clas­ sico esempio nel campo dell’assistenza pubblica e può essere considerata quale prima forma embrionale di assistenza sociale statale. Promulgata nel 1601 dalla regina Elisabetta, rimase in vigore, con fasi alterne, fino al 1834, anno in cui essa fu sostanzialmente modificata in base al « Poor Law Amendmeni

Act » che ridusse l’assistenza praticamente all’internamento dei poveri nei workhouses (ospizi o « case di lavoro »), i cui orrori sono stati ampiamente

descritti anche in opere letterarie quali l’Oliver Twist di Dickens.

I servizi sociali attuali, tuttavia, sono una risposta diretta della società ai problemi posti dal moderno sviluppo industriale; le loro radici reali vanno dunque ricercate in tempi più recenti, in un periodo in cui la rivoluzione industriale in Inghilterra è ormai compiuta e il processo di industrializzazione ha gettato solide basi. Questo processo non implica infatti solo mutamenti nell’organizzazione pratica del lavoro e della produzione, ma determina una trasformazione profonda nella struttura sociale della società inglese: rapida e caotica espansione delle città, intenso aumento demografico della popola­ zione, consolidamento economico e politico della borghesia e formazione della classe operaia dalla dissoluzione del ceto contadino e artigiano.

I primi decenni del XIX secolo segnano il momento più acuto del problema sociale connesso all’industrializzazione del paese. A metà del secolo si entra in una nuova fase, susseguente all’esaurirsi del movimento cartista e al supe­ ramento della crisi economica degli anni ’47-’48. La formazione delle grandi industrie moderne e l’ammodernamento dei rapporti di produzione da una parte, l’organizzazione di forti ed influenti sindacati dall’altra, pongono in una nuova prospettiva i rapporti tra classe lavoratrice e borghesia. Lo sfruttamento capitalistico cioè è meno « primitivo » e il potere contrattuale dei lavoratori si accresce col rafforzarsi delle loro organizzazioni — sindacati e società di mutuo soccorso.

Indigenza, malattie, disoccupazione, ignoranza, continuano naturalmente a sussistere; una schiera sempre più larga di riformatori sociali e di opere filan­ tropiche si interessa a questi problemi e ne ricerca la soluzione. Dalle posi­ zioni più avanzate di singoli e di gruppi emerge la concezione che la miseria e le sue conseguenze non siano effetto di incapacità individuale — sanabile attraverso i tradizionali interventi di carattere caritativo — ma una vera e propria « malattia » sociale che coinvolge la responsabilità della società intera e richiede il suo intervento attraverso lo Stato.

Nel seno stesso dei sindacati e delle società di mutuo soccorso nasce una prima forma di mutua assistenza quale spontanea risposta al dramma della malattia e della disoccupazione. Società di mutuo soccorso, di dimensioni

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ridotte, si ritrovano sin dal primo affermarsi della rivoluzione industriale; nella seconda metà dell’800 esse si espandono notevolmente e acquistano un’importanza nazionale sempre crescente. Anche le tracie unions organizzano un’attività assistenziale a favore dei loro membri in situazione di bisogno, assicurando sussidi in caso di disoccupazione, infortunio, malattia e morte.

Questa forma spontanea di assistenza mutualistica ebbe un’importanza note­ volissima, se non addirittura predominante, per la nascita e lo sviluppo della moderna assistenza di Stato in Inghilterra. La Commissione reale che dal 1871 al 1875 indagò sulle società di mutuo soccorso si dichiarò contraria ad un intervento, sia pure minimo, dello Stato nel campo delle assicurazioni sociali; tuttavia si riconobbe che « le società erano socialmente desiderabili in se stesse e quale mezzo per ridurre la povertà ». Ma « quando lo Stato entrò nel campo delle assicurazioni sociali nel 1911, per l’assicurazione contro la disoccupa­ zione dovette basarsi sul lavoro pionieristico delle trade unions, come per l’assicurazione contro le malattie dovette basarsi su quello delle società di mutuo soccorso ».5

In verità già nel 1897 era stato introdotto, seppure in forma piuttosto vaga e limitata, un inizio di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (« Workmen’s

Compensation Act »). Con esso venne introdotto il nuovo principio che il datore

di lavoro doveva pagare un’indennità al lavoratore infortunato sul lavoro. Ma in pratica ci si limitava a questa dichiarazione di responsabilità, senza che ad essa seguisse un qualsiasi contributo statale all’organizzazione dell assicu­ razione contro gli infortuni.

Nel complesso, agli inizi del ventesimo secolo non vi è traccia di un valido intervento pubblico a favore dei membri « più sfortunati » della società, malati, disoccupati, infermi, anziani ecc. — se si eccettua le inefficienti misure di assistenza pubblica della nuova legge sui poveri. Nel campo dell iniziativa privata, i sistemi assicurativi dei sindacati e delle società di mutuo soccorso valgono solo per una parte ristretta della popolazione lavorativa, per gli operai ed artigiani più qualificati e dal reddito relativamente alto. Per i bisogni dei più miseri, è opinione comune, deve provvedere la tradizionale attività cari­ tativa dei privati.

L’ultimo quarto del XIX secolo vede però attuarsi anche un decisivo cam­ biamento nell’approccio tradizionale ai problemi sociali, il cui spirito innova­ tore costituisce uno dei principali filoni che portano alla formazione dei servizi sociali. Tra i pionieri in questo campo furono Charles Booth e B. Seebohm Rowntree6 che gettarono le basi dei moderni studi sociali e affermarono il principio della necessità di uno studio obiettivo dei fatti quale base dell azione sociale. Le conclusioni delle loro indagini sulle condizioni di vita delle classi più povere minarono la concezione vittoriana della miseria quale conseguenza esclusiva della incapacità o sfortuna individuale: rilevando che circa il 10% della popolazione viveva al disotto del livello minimo di sussistenza, dimo­

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strarono che essa era dovuta principalmente a fattori fuori dal controllo del singolo individuo.

Seguì una serie ininterrotta di studi sui problemi sociali, intrapresi non solo da singoli, ma da organismi privati e pubblici, tra cui si distinsero le nascenti facoltà di scienze sociali delle università. « Gli studi sociali sono stati per settanta anni nella storia d’Inghilterra un fattore rivoluzionario »;7 essi in effetti « rivoluzionarono le idee degli uomini sulla estensione e sulle cause della povertà, e prepararono la via a gran parte della legislazione sociale della prima decade del ventesimo secolo».8

Questo nuovo clima influenzò direttamente anche i principi e i metodi delle antiche organizzazioni filantropiche. Andò infatti gradualmente sviluppandosi la tendenza a fornire un tipo di assistenza non più generica e indiscriminata, ma meglio organizzata e il più possibile adeguata al bisogno specifico. Un tipico esempio in questo senso è stata la Società per l’organizzazione della carità (Charity Organization Society, C.O.S.) fondata nel 1869. Essa si pro­ poneva un coordinamento delle donazioni private a scopo filantropico e svol­ geva una attività basata sullo studio dei problemi individuali. Benché i prin­ cipi dell’associazione fossero a quell’epoca piuttosto ambigui, con l’opposi­ zione ad un intervento statale nel campo dell’assistenza e con la tradizionale distinzione tra poveri « meritevoli » ed « immeritevoli », essi contenevano tut­ tavia germi innovatori che si sarebbero poi sviluppati in metodi ed istituzioni fondamentali per l’attuale servizio sociale inglese.

Dagli sforzi e dall’esempio della C.O.S. sorse infatti nel 1919 il Consiglio nazionale di servizio sociale (National Council of Social Service, N.C.S.S.), il quale da allora svolge un ruolo determinante nel coordinamento e stimolo delle organizzazioni volontarie e nei loro rapporti con i servizi sociali pub­ blici. Al contributo dei metodi assistenziali della C.O.S. molto devono, tra l’altro, le origini del moderno casework o lavoro sociale individuale: i mem­ bri dell’Organizzazione sostenevano infatti che « i bisogni degli uomini non possono essere soddisfatti solo da un aiuto materiale, e che i loro desideri devono essere rispettati, e la cooperazione ricercata in ogni piano inteso a modificare la situazione che li ha spinti a cercare aiuto ».9 La stessa C.O.S. venne abbandonando l’ideologia vittoriana, sottolineando sempre più la mo­ dernità delle sue attività; assai significativamente essa assunse nel 1944 la denominazione di Associazione per il benessere della famiglia (Family Welfare

Association), divenendo jl più importante ente di servizio sociale familiare.

Del resto per tutto l’800, ma soprattutto nella seconda parte del secolo, si ebbe un fiorire di pionieri dell’azione sociale che lasciarono la loro impronta direttamente in innumerevoli organizzazioni assistenziali private, che ora costi­ tuiscono la fitta rete dei servizi sociali « volontari » integranti il sistema sta­ tale, e che più in generale influenzarono l’opinione pubblica e gli organismi

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statali, spingendoli ad interessarsi ai « bisognosi » e ad intervenire con prov­ vedimenti a loro favore.

Da Lord Shaftesbury (1801-1885), con la sua instancabile attività (tra l’altro, di promotore di svariati atti sulle fabbriche, tendenti a limitare il brutale sfruttamento specialmente di donne e bambini) a Octavia Hill (1838-1912), iniziatrice di esperimenti pilota nel campo dell’amministrazione delle abita­ zioni dei quartieri poveri di Londra (secondo il principio che « non ci si può occupare delle persone e delle loro case separatamente »), tutti questi rifor­ matori hanno in comune la motivazione religiosa, di tipo evangelico, quale principio informatore della loro attività. Questa impostazione cristiana, di tipo nuovo in quanto inserita nella realtà e commisurata ai problemi di una mo­ derna società industriale, ha avuto un ruolo piuttosto rilevante nel processo di formazione della teoria e pratica del servizio sociale in Inghilterra.10

La grande svolta nello sviluppo dei servizi sociali statali la si ebbe con le elezioni del 1906, vinte dai liberali in collaborazione col Partito laburista, di recente formazione.

Quel raggruppamento, che nel 1906 aveva appunto assunto la denomina­ zione di Partito laburista, era venuto costituendosi negli anni precedenti come espressione politica mediata delle rivendicazioni dei sindacati; la base ideo­ logica che vi era prevalsa era elaborata dalla Società fabiana, fondata agli inizi del 1884 da « un gruppo di intellettuali, non influenzati da Marx, che non desideravano né prevedevano un violento capovolgimento dell ordine sociale, ma erano tuttavia consapevoli dell’ingiustizia sociale e desideravano un cam­ biamento »-11 II loro motto era « ¡’inevitabilità della gradualità ».

Fu sul terreno delle riforme (dissodato dalle aspirazioni e dalle realizzazioni di gruppi e di singoli, di cui si è fin qui tracciata brevemente la storia) che si rivelò particolarmente incisiva l’attività politica dei liberali o dei laburisti loro alleati in parlamento. Alla testa dei primi erano Lloyd George e Winston Churchill, rappresentanti dei « nuovi liberali » che intendevano combattere e rimuovere le cause immediate della povertà e dell’insicurezza.

Preceduta da lunghe polemiche e dibattiti, da indagini e rapporti di privati, di comitati parlamentari e di una Commissione reale, nel 1908 venne varata la Legge sulle pensioni di vecchiaia (« Old Age Pensions Act »), che garantiva una sovvenzione da parte dello Stato, non subordinata al versamento di con­ tributi da parte dei beneficiari, a tutti coloro che superati i settanta anni non disponessero di un reddito annuo superiore alle 31 sterline. Venne così intro­ dotto il principio della responsabilità statale per una determinata categoria di bisognosi, che aveva diritto alla prestazione.

A questo primo provvedimento altri ne seguirono: la Legge sull’assicu­ razione nazionale (« National Insurance A ct») del 1911, che nella prima parte stabiliva un’assicurazione contro le malattie e nella seconda una contro la disoccupazione. La prima diede luogo nel 1919 alla formazione del Ministero

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della Sanità, la seconda al Ministero del Lavoro nel 1916. Le due assicurazioni erano obbligatorie, quella contro le malattie per tutti i salariati, quella contro la disoccupazione per gli addetti ad un gruppo ristretto di imprese; i contributi dovevano essere versati in parte dal lavoratore e in parte dal datore di lavoro, ed erano integrati dallo Stato.

Pur tenendo conto di tutti i limiti e le imperfezioni di questi provvedimenti, è da mettere in evidenza che da essi si originò un processo irreversibile di interventi statali nel campo dell’azione sociale. Se evidentemente già per tutto l’800 si erano avute misure pubbliche di carattere sociale (regolamentazione delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, leggi riguardanti l’edilizia, la salute pubblica, l’istruzione, ecc.), questi anni segnano un momento assai importante nell’evolversi della concezione della responsabilità statale nei confronti del benessere dei cittadini: disoccupazione e malattie, causa di povertà e di squal­ lore, sono un problema che riguarda la società nel suo insieme e che non può essere risolto coi metodi della carità privata.

Negli anni seguenti questo processo continua: con alti e bassi, con molte contraddizioni che riflettono i gravi problemi economici e politici che la società inglese deve affrontare nel periodo tra le due guerre mondiali, soprat­ tutto la grande depressione degli anni trenta. Ma nel complesso, alla vigilia della seconda guerra mondiale si può dire che il principio della responsabilità pubblica verso determinati problemi sociali ha gettato solide basi. Si assiste ad una notevole estensione dei servizi sociali statali. Nel 192Ì viene incluso nell’assicurazione contro la disoccupazione il grosso dei lavoratori dipendenti dall’industria e dal commercio; nello stesso anno vengono introdotti gli assegni per i dipendenti del capofamiglia disoccupato; nel 1925 entra in vigore una Legge sulle pensioni di vecchiaia, che rende obbligatori i contributi assicurativi garantendo la pensione al raggiungimento dei 65 anni, ecc. Il vasto gruppo dei « bisognosi » non assicurati viene coperto da svariati enti pubblici di assistenza.

Si tratta di provvedimenti non coordinati, ognuno dei quali intende affrontare un bisogno particolare — non è un sistema di servizi sociali, e considerevoli zone di povertà e bisogno vengono lasciate in ombra.

Gli anni della seconda guerra mondiale sono decisivi per la riorganizzazione dei servizi sociali in un sistema di sicurezza sociale. Le nuove esigenze vengono poste con chiarezza dal famoso « Rapporto Beveridge » del 1942: bisogna combattere alla radice il bisogno ed i mali ad esso connessi; a tutti i cittadini deve essere garantito un minimo di benessere attraverso un sistema coordinato di assicurazioni obbligatorie che copra il rischio della diminuzione o cessazione del guadagno (per disoccupazione, malattia, vecchiaia, ecc.); ma soprattutto lo Stato deve creare quelle condizioni di stabilità economica e di prevenzione e cura delle malattie che riducano al minimo i rischi e l’insicurezza dell'esi­

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stenza. Significativamente il successivo studio di Beveridge riguarda il « Pieno impiego » (Full Employment in a Free Society, pubblicato nel 1944).

Il « Rapporto Beveridge », nonostante suscitasse discussioni ed anche oppo­ sizioni, venne accettato nei suoi termini fondamentali e nelle sue proposte concrete. Il secondo dopoguerra vide compiersi in pochi anni una decisa riorga­ nizzazione dei servizi sociali ed una ristrutturazione degli organismi ad essi preposti.

E’ questo il punto di arrivo attuale di un processo che, come ha scritto Beveridge nel suo « Rapporto », « ... è in qualche modo una rivoluzione, ma in misura più importante è un naturale sviluppo del passato. E’ una rivoluzione inglese ».

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I se rv izi sociali contem poranei

Si è visto che il sistema assicurativo, inteso a prevenire i rischi della disoccu­ pazione e della malattia, era già stato addottato nell’Ottocento dalle trade

unions e dalle società di mutuo soccorso. Lo stesso sistema, così collaudato,

venne introdotto dallo Stato nel 1911 col «National Insurance Act » reso obbligatorio per determinate categorie di lavoratori.

L’Inghilterra uscita dalla seconda guerra mondiale si trovò dinanzi al compito di riorganizzare i propri servizi sociali per adeguarli alle nuove esigenze della nazione. Vi era una rete di servizi pubblici assai estesa e certa­ mente all’avanguardia rispetto a molti altri paesi, ma i difetti e le lacune erano altrettanto notevoli.

L’assicurazione contro le malattie, ad esempio, copriva nel 1939 circa venti milioni di assicurati (più della metà della popolazione oltre i 14 anni), ma non contemplava l’erogazione di sussidi anche per i membri a carico del capofa­ miglia ammalato, limitando così grandemente la portata dell’assicurazione stessa.

L’assicurazione contro la disoccupazione, d’altra parte, era stata introdotta con l’idea che dovesse essere una integrazione di altre risorse per aiutare a superare un breve periodo di mancanza di lavoro. Negli anni trenta, tuttavia, il problema della disoccupazione divenne così grave che le misure previden­ ziali si dimostrarono del tutto inadeguate allo scopo; fu evidente, per l’alto numero di persone che esaurito il periodo di godimento del sussidio di disoccu­ pazione dovevano ricorrere ad altre forme di assistenza, che non si trattava di un problema di « integrazione » ma di sussistenza. Nel 1936, di contro a 700.000 lavoratori che percepivano di diritto un sussidio di disoccupazione in virtù dei contributi versati, circa 600.000 altri disoccupati, che avevano esaurito tale diritto, ricevevano un’assistenza subordinata all’accertamento dei mezzi (means test), e altri 300.000 erano a carico dell’assistenza pubblica erogata dalle amministrazioni locali.12

Alle insufficienze del sistema previdenziale si volle provvedere, nello stesso 1936, con l’istituzione del Consiglio per l’assistenza ai disoccupati (Unemploy-

ment Assistance Board), con cui lo Stato si assumeva l’onere di assistere quei

lavoratori disoccupati che avevano esaurito o non avevano maturato il diritto alle prestazioni previdenziali. Con ciò veniva incrinato il principio assicurativo, ma veniva anche modificata la organizzazione dell’assistenza pubblica, che per tradizione era affidata alle risorse finanziarie delle autorità locali fin dai tempi della Poor Law elisabettiana.

La coscienza della inadeguatezza dei servizi, dell’incrociarsi di competenze tra i vari organismi pubblici, dei vari problemi sociali ancora irrisolti, aveva portato ad un mutamento nella concezione stessa dello Stato e delle sue fun­ zioni. A ciò aveva anche contribuito l’esperienza in qualche modo livellatrice

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