di Stefano Velotti
«È all’esperienza estetica [...] che deve rifarsi il filosofo per com-prendere che cos’è l’esperienza» 1. L’importanza di questa affermazione di Dewey può essere misurata se si tiene presente che “esperienza” è probabilmente la parola chiave della sua intera riflessione filosofica, pedagogica e politica. In Il mio credo pedagogico (1897), che antici-pa molte tesi poi svilupantici-pate nell’importante Democrazia ed educazione (1916), si dice per esempio che uno dei punti qualificanti del program-ma di «educazione attiva» è che «l’educazione deve essere concepita come una ricostruzione continua dell’esperienza; che il processo e il fine dell’educazione sono una sola e identica cosa» 2. L’idea stessa di tra-smissione della conoscenza – con cui si intende solitamente il compito dell’istruzione e il processo cumulativo del sapere – è un’idea confusa e forse persino contraddittoria, a meno che non venga intesa, appunto, come un processo che passa attraverso una ricostruzione dell’esperienza: «non è possibile trasmettere un pensiero, un’idea, come idea, da una persona all’altra. Quando viene detta, per la persona alla quale viene detta non è un’idea ma un altro fatto preciso»: si impara dunque solo facendo esperienza, attraverso la sperimentazione diretta di «forme di vita che vale la pena vivere per loro stesse» e non come «preparazione a un vivere futuro» 3. Un’esperienza, infatti, per essere tale, non può essere usata solo come un mezzo per un’eventuale esperienza futura, ma deve essere un’esperienza essa stessa dotata di valore, secondo quella inseparabilità di mezzi e fini che è un altro tratto caratteristico del pen-siero di Dewey. Ancora: «tutto il penpen-siero è ricerca, ed ogni ricerca è nativa, originaria, per colui che la effettua, anche se il resto del mondo è già sicuro di quello che egli sta ancora cercando» 4. Non solo, dunque, l’esperienza non si trasmette se non mediante un’altra esperienza, ma persino la conoscenza in senso stretto non si trasmette se non mediante una ricostruzione “nativa” di esperienze.
Il danno prodotto dall’illusione che la conoscenza si possa trasmet-tere senza esperienza non è solo individuale: in uno scritto del 1937 sulla democrazia nell’amministrazione scolastica, Dewey si interroga anche sulle cause dell’insorgere dei totalitarismi europei: «Sono com-plesse le cause della distruzione della democrazia politica nei paesi nei quali essa era stata istituita nominalmente. Ma credo che di una cosa si
62
possa essere sicuri. Dovunque è caduta, essa aveva un carattere troppo esclusivamente politico. Non era diventata ossa e sangue del popolo nella sua vita quotidiana» 5, non era diventata, cioè, esperienza. È facile capire, dunque, quanta importanza assuma per Dewey la comprensione dell’esperienza estetica, se questa fornisce il modello di ogni esperienza possibile e, dunque, di ogni acquisizione e trasmissione di conoscenza, di abiti, di coscienza e responsabilità etiche e politiche.
Eppure, l’idea di “esperienza estetica” è diventata sempre più so-spetta e incerta: non tanto perché vale ancora, nel senso comune, la vecchia riduzione dell’esperienza estetica a esperienze di tipo esteti-stico, museale, o elitario, quanto perché essa, rimandando a processi di integrazione, di armonia, di equilibrio, sembra per ciò stesso di ri-mandare a qualcosa di lontano dalla condizione che da circa un secolo a oggi riconosciamo, per lo più, come nostra.
A partire dalla prima industrializzazione, attraverso le diverse fasi o “rivoluzioni industriali” e tecnologiche che conducono fino a noi, le nostre forme di vita sono state descritte plausibilmente in termini di scissione tra cultura oggettiva (quella incorporata nei prodotti dell’uo-mo) e cultura soggettiva (quella di ciascun individuo), dove quest’ulti-ma non riesce più ad adeguarsi alla priquest’ulti-ma e a trasforquest’ulti-marla in esperien-za (G. Simmel); di distruzione o atrofia dell’esperienesperien-za (W. Benjamin); di discrepanza tra la nostra capacità di produrre e la nostra capacità di immaginare, sentire e comprendere ciò che abbiamo prodotto (G. Anders); di divaricazione tra uno spazio dell’esperienza, sempre più contratto, e un orizzonte d’attesa, sempre più dilatato (R. Koselleck). A livello artistico poi – ed è nell’arte, si presume, che l’esperienza estetica dovrebbe trovare la sua occasione esemplare – sembra che tutto il Novecento, e ancor di più il nuovo secolo, contraddica l’idea di un’esperienza unitaria e conclusa, quando non si oppone, addirittura, all’idea stessa di una qualità estetica della produzione artistica; per non dire poi delle filosofie che hanno visto nell’arte del nostro secolo la rivelazione dell’insignificanza dell’esperienza estetica per una com-prensione delle opere d’arte in generale (A. Danto e, per altri versi, G. Dickie, e i loro rispettivi seguaci). Eppure, secondo Dewey, è proprio nell’esperienza estetica che verrebbero «resi manifesti per loro stessi» i «fattori che fan sì che qualcosa possa essere chiamata una esperienza», essendo, tali fattori, soltanto in essa «innalzati molto al di sopra della soglia percettiva» (AE, 79).
Quali sono, dunque, i fattori che Dewey ritiene necessari affinché si dia un’esperienza estetica? L’esperienza, infatti, per un certo verso «accade continuamente, poiché l’interazione tra la creatura vivente e le condizioni ambientali è implicata nello stesso processo del vivere» (AE, 61). Ma questa sorta di esperienza, non ulteriormente qualificata, non è necessariamente una esperienza. L’interazione tra l’essere vivente e l’ambiente – anche quando è caratterizzata da un’intenzione
consape-vole – può restare «appena abbozzata», dispersa e frammentata, priva di un accordo tra pensiero e osservazione, desiderio e oggetto. La sua fine è una semplice cessazione, non il compimento o perfezionamento di un percorso. Questi abbozzi di esperienze sono dunque diversi da un’esperienza che è «un intero» e «che reca con sé la propria qualità individualizzante e la propria autosufficienza» (AE, 61).
Ciò vale per ogni tipo di esperienza, che sia un’esperienza del pen-siero o dell’azione: qualsiasi esperienza, per avere una sua unità, dovrà possedere una qualità estetica. L’estetico, dunque, non è contrapposto né alla sfera pratica né a quella intellettuale, ma semplicemente al-l’anestetico: «Cediamo alla pressione esterna, oppure ci sottraiamo ad essa e cerchiamo compromessi [...] Una cosa sostituisce l’altra senza però assorbirla o portarla avanti. C’è esperienza, ma talmente fiacca e divagante da non essere una esperienza. Inutile dire che tali esperien-ze sono anestetiche». (AE, 65) Le “esperienesperien-ze anestetiche” sembrano caratterizzate da un far fronte più o meno adattivamente a stimoli diversi, senza che essi vengano elaborati in alcuna maniera e integrati tra loro.
Questo primo insieme di tratti caratterizzanti si sintetizza nel fat-tore che sembra davvero necessario al darsi di un’esperienza («Ci so-no condizioni che vanso-no soddisfatte senza le quali so-non può istituirsi un’esperienza»): l’interazione tra attività e passività, tra agire e subire, tra produrre e fruire. Affinché si dia una esperienza, non sono i tratti materiali dell’oggetto, dell’opera, del prodotto che si esperisce a dover mostrare, secondo certi canoni, un equilibrio o un’armonia, ma è pro-prio questa stessa interazione a dover trovare una misura armoniosa. Se, infatti, uno dei due aspetti prevale sull’altro, se si dà un eccesso sul versante dell’agire o su quello del patire, l’esperienza risulterà «parziale o distorta» (AE, 69). Un’esperienza, naturalmente, è sempre, in una certa misura, parziale: non si dà mai un’esperienza di cui si riesca a cogliere la totalità delle relazioni tra agire e patire che la costituiscono: «Nessuno giunge a una maturità tale da percepire tutte le connessioni che sono implicate». La profondità e l’ampiezza dell’esperienza dipen-dono dunque dal livello di maturità (e dunque di esperienza) raggiunto dalla persona che esperisce. L’esperienza non è esauribile, non è un oggetto, e dunque non può essere interamente dominata e controllata: il suo «contenuto significativo» (AE, 69) dipende invece dalla capacità del soggetto che esperisce di cogliere, per quanto è possibile, le rela-zioni tra azione e passione che la costituiscono. Ogni interferenza nella percezione di queste relazioni limita l’esperienza, al punto che, come si è accennato, l’eccesso di uno solo dei due poli – l’attivo o il passivo – la snatura e la rende infine impossibile.
Vediamo brevemente queste opposte patologie: l’eccesso sul versan-te dell’azione («lo zelo nel fare, la brama nell’agire») impedisce il
com-64
piersi di un’esperienza. Soprattutto «nell’ambiente umano frettoloso e impaziente in cui viviamo» tale eccesso si traduce in una successione di abbozzi di esperienza eterogenei, dove lo scopo, spesso neppure avvertito, è quello della massimizzazione dell’efficienza, di «poter fare il maggior numero di cose nel tempo più breve». Decisivo, in questo sbilanciamento, è il contrarsi del tempo, un’«impazienza» che implica, letteralmente, una prevaricazione di ogni «resistenza»: quella del
me-dium in cui qualcosa si realizza (ridotto a mezzo da sfruttare in vista
di un fine ad esso estraneo), quello di qualsiasi realtà o alterità, che non viene ascoltata, esplorata, curata, amata, colta come «un invito a riflettere», ma trattata come «un’ostruzione da abbattere».
Uno degli autori più citati da Dewey in Arte come esperienza è il poeta John Keats, di cui viene ricordata a più riprese la famosa lettera in cui introduce la nozione di «Capacità negativa» 6, una nozione che, nel 1916, già aveva attirato, per motivi analoghi, l’attenzione di Freud, e che poi costituirà un costante punto di riferimento per W. R. Bion (autore, non a caso, di un importante volume intitolato Apprendere
dall’esperienza) 7. Poche pagine prima di tematizzare la relazione ne-cessaria tra patire e agire, Dewey ricorda come, per Keats, Shakespeare costituisse il modello di un uomo dotato eminentemente di tale capa-cità: il modello di un uomo, cioè, «capace di essere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione». Ed è proprio questa «impazienza» che, poco dopo, Dewey identifica come ciò che «confonde e distorce invece di condurci alla luce» (AE, 57-59).
Se sul versante dell’eccesso di attività predomina una percezione del reale troppo ristretta e parziale, che lo riduce alla misura dei propri scopi determinati e non permette di cogliere le opportunità impreviste che esso potrebbe racchiudere in sé, «l’eccesso di ricettività» produce un analogo e complementare disconoscimento del reale: non per un eccesso di focalizzazione, di appropriazione cieca e violenta, ma per una sorta di bulimia di sensazioni e impressioni, nell’illusione che ciò che rende vivi, che ciò che costituisce «la “vita”», sia «l’affollarsi del maggior numero possibile di impressioni, malgrado nessuna di esse sia più di un’impressione fuggevole e rapsodica» (AE, 69). Anche in que-sto modo la realtà sfugge, dissolvendosi in una stimolazione continua e occludente, che non lascia spazio ad alcuna riflessione, ad alcuna distanza, e ci schiaccia sull’ambiente rendendolo così avvolgente da essere invisibile: «Qualche azione risoluta è necessaria a stabilire un contatto con la realtà del mondo e per far sì che le impressioni possa-no essere messe in relazione con fatti in modo che ne venga saggiato e definito il valore» (AE, 69). In definitiva, «l’eccesso di ricettività» impedisce il pensiero, la riflessione, il giudizio. Come gli era chiaro da tempo, Dewey sa che «nella percezione è implicato l’uso del giudizio; altrimenti la percezione resta semplice eccitazione sensoriale o un
ri-conoscimento del risultato di un giudizio precedente, come nel caso di oggetti già noti» 8.
“Riconoscimento” è qui la parola chiave. Dewey sembra infatti usa-re, come equivalenti, termini quali il patiusa-re, l’essere pazienti, il subiusa-re, la ricettività, ma li caratterizza tutti, precisando la contrapposizione iniziale, come dotati di un elemento attivo: «la ricettività non è passivi-tà», «questa ricezione comporta attività che sono comparabili a quelle del creatore» (AE, 75). È possibile allora cogliere, come vedremo, il nesso tra la pazienza come attività, la «capacità negativa» di Keats, il tempo e la percezione, in quanto distinta, appunto, dal mero «ricono-scimento»: questo, infatti, «è una percezione che si è arrestata prima di avere l’opportunità di svilupparsi liberamente. Nel riconoscimento c’è l’inizio di un atto di percezione [...] [la quale] si arresta al punto in cui servirà a qualche altro scopo, come quando riconosciamo un uomo per strada per salutarlo o per evitarlo e non per vederlo al solo fine di vedere che cosa c’è» (AE, 75-76). Nel riconoscimento, anche l’uomo incontrato per strada è solo un segnale tra segnali, solo uno stimolo sufficiente a causare una reazione (salutarlo o evitarlo), non qualcosa che si offre come la realtà complessa che è e che richiede di «vedere che cosa c’è». Per «vedere che cosa c’è» è richiesto del tempo: il processo della percezione non è comprimibile nel tempo istantaneo del riconoscimento (quel tempo che, come sappiamo, «nell’ambiente umano frettoloso e impaziente in cui viviamo» non è, per lo più, a nostra disposizione), richiede una pazienza attiva, una «capacità nega-tiva», una tolleranza per la complessità, un permanere e un indugiare sul reale senza risolverlo in «fatti e ragioni».
I due fattori necessari al darsi di un’esperienza (patire e agire, re-cepire e fare) non sono dunque due ingredienti che si sommano o si combinano, ma devono presentarsi in una relazione indissolubile, quale che sia. L’«equilibrio», l’«armonia», l’«accordo» tra i due fattori non è infatti comprensibile altrimenti che come una perdurante relazione. Lo squilibrio, la disarmonia, il disaccordo non possono essere altro che il dissolversi di quella relazione, lo sganciarsi di uno dei due fattori dall’altro, la scissione che elimina ogni «resistenza» dall’attività e ogni «regola» dalla ricettività e che porta a una perdita di contatto con il reale: la perdita di contatto tra i due fattori necessari all’esperienza è infatti insieme perdita di contatto con la realtà (quale che sia), e senza un contatto con la realtà non può esserci esperienza, nel senso pieno del termine. Ora, se è vero che «l’estetico non si intrufola nell’espe-rienza dall’esterno, a causa di un lusso ozioso o in virtù di un’idealità trascendente, ma che è lo sviluppo chiarificato e intensificato di tratti che appartengono a ogni esperienza normalmente compiuta», per com-prendere «ogni esperienza normalmente compiuta» bisognerà guardare a un’esperienza esemplarmente estetica quale è quella artistica.
66
lato attivo, fattivo, creativo dell’esperienza e «l’estetico», in senso stret-to, al suo lato recettivo, fruitivo, valutativo, lamentando una mancanza di un terzo termine che designi i due processi presi insieme. L’artisti-co, infatti, non può in alcun modo stare senza l’estetiL’artisti-co, in quanto si ridurrebbe al prodotto di un processo essenzialmente meccanico, alla produzione di uno stimolo per un riconoscimento, non per una per-cezione intessuta di tempo e di relazioni. È per questo che «l’abilità dell’artefice, per essere indubitabilmente artistica, deve essere “amoro-sa”: deve prendersi cura a fondo del contenuto su cui si esercita la sua tecnica» (AE, 71). Una cura “amorosa” non è però soltanto una cura meticolosa, attenta, partecipe, che richiede tempo e dedizione, ascol-to e rispetascol-to dell’altro nella sua auascol-tonomia: perché si sia “amorosi” deve accadere qualcosa di spontaneo, qualcosa che non è interamente riconducibile alle mire intenzionali e consapevoli del soggetto (non si prova amore grazie a una scelta deliberata, intenzionale e consapevo-le), qualcosa che induca a vedere il «contenuto» su cui si «esercita la propria tecnica» come dotato di una propria fisionomia individuale e non come «un’ostruzione da abbattere».
Se – continuando nella nostra ricostruzione del pensiero di Dewey – guardiamo ora alla nozione di «spontaneità», possiamo mettere in questione l’assimilazione esclusiva della sua nozione di esperienza alla
Erlebnis vitalistica, come è invece accaduto anche in chi, come R. Shus- Shus-terman, si è dedicato a riscattare il pensiero di Dewey dall’oblio in cui è stato consegnato per molto tempo dall’estetica analitica 9. Se, per un verso, attribuendo all’esperienza di Dewey il carattere di Erlebnis, di “esperienza vissuta”, si intende preservarne a ragione il carattere “fenomenologico”, “sentito”, “vivo”, d’altra parte ci si lascia sfuggire del tutto il suo spessore, il suo radicamento nella storia dell’individuo e della collettività a cui appartiene, il cambiamento duraturo che essa provoca, il suo aspetto costituente dell’essere stesso di una persona e di una civiltà – quella che, insomma, in contrapposizione a Erlebnis, si è chiamata Erfahrung.
Come si sa, il volume Arte come esperienza ha la sua origine nella serie di lezioni istituite dalla Harvard University in memoria di William James. Ora, l’omaggio reso da Dewey a James nelle sue lezioni non è affatto rituale, ma interviene anzi in un punto cruciale della sua argo-mentazione, in cui ritroviamo l’intreccio tra patire e agire che, come abbiamo visto, costituisce il vero nodo della sua teoria dell’esperienza (estetica). Dewey si sta interrogando su ciò che rende un atto espressi-vo: un «atto è espressivo solo quando in esso c’è unisono tra qualcosa che si è accumulato da un’esperienza passata, e dunque qualcosa che si è generalizzato, e condizioni presenti» (AE, 92). Nei bambini que-sto accordo è facile, e facilmente spontaneo, in quanto il passato – lo spazio dell’esperienza – è in loro molto ridotto («ci sono pochi ostacoli da superare, poche ferite da sanare, pochi conflitti da risolvere»), e
si adatta facilmente al presente: lo spessore, la densità dell’espressio-ne sarà però proporzionale alla facilità dell’accordo o, meglio, alla limitatezza dell’esperienza messa in gioco nel presente. Nelle persone adulte il rapporto è rovesciato: lo spazio dell’esperienza accumulata, il passato, è ingombrante, e richiede una lunga elaborazione per tro-vare un’espressione felice, cioè riuscita e spontanea, nel presente. La spontaneità, negli adulti, «viene [...] solo a coloro che si sono immersi in esperienze di situazioni oggettive; a coloro che sono stati a lungo assorti a osservare materiali correlati e la cui immaginazione è stata a lungo occupata a ricostruire ciò che si vede e si ode [...] La “spon-taneità” è il risultato di lunghi periodi di attività, altrimenti è tanto vuota da non essere un atto di espressione» (AE, 92). E qui interviene il decisivo riferimento al James autore di Le varie forme dell’esperienza
religiosa 10, il cui sottotilo – Uno studio sulla natura umana – è certa-mente molto impegnativo, ma anche giustificato. James infatti coglie qualcosa che ha a che fare non tanto con ciò che gli esseri umani si rappresentano, vogliono, intenzionano, quanto con ciò che riguarda la loro “natura” al di qua di ciò che è dominabile e controllabile da intenzioni e volizioni consapevoli. Vale la pena di riportare per esteso il passo che Dewey cita dall’opera di James: «L’intelligenza cosciente e la volontà dell’individuo, quando si affaticano verso l’ideale, mirano a qualcosa di immaginato solo in modo confuso e indefinito. Tuttavia le forze organiche di maturazione progrediscono in tutto quel periodo verso il loro fine prestabilito, e gli sforzi consapevoli liberano alleati subconsci dietro le quinte i quali a modo loro, operano in direzione dell’assetto; e il riassetto verso cui tendono tutte queste forze più pro-fonde è definito con sufficiente sicurezza, e nettamente differente da quello che l’individuo concepisce e determina coscientemente. Esso può, quindi, essere effettivamente disturbato – come fosse inceppato [...] – dagli sforzi volontari dell’individuo, che lo fanno desistere dalla giusta direzione. [...] quando il nuovo centro dell’energia personale è stato tenuto in incubazione subconscia abbastanza a lungo per essere pronto a fiorire, “giù le mani” è l’unica regola per noi, perché deve sbocciare senza soccorsi» (AE, 93).
Nel leggere questo passo, non bisogna pensare ai luoghi comuni di origine romantica riguardo al genio inconscio o a alle forze irrazionali che lo guiderebbero, quanto invece a un altro aspetto – quello della maturazione, dell’elaborazione – questo sì essenziale per comprendere la natura dell’esperienza, e in particolar modo della creazione e della ricezione artistica che ne costituisce il modello: «lo sforzo diretto di “intelligenza e volontà” – commenta Dewey – di per sé non ha mai dato origine a qualcosa che non fosse meccanico; la loro funzione è necessa-ria, però deve lasciare agire alleati che esistono al di là dei loro scopi». Lavorare volontaristicamente in vista di uno scopo sarà ciò per mezzo di cui è possibile formare e dare espressione a un’esperienza, ma non
68
anche ciò grazie a cui tale esperienza, e la sua espressione “spontanea”, possono prendere forma. Più che lavorare, si tratterà quindi di elaborare: cioè di valorizzare il proprio vissuto, nel dialogo con altri soggetti, con