di Salvatore Tedesco
Fra i numerosi meriti della nuova edizione italiana di Arte come
esperienza di John Dewey curata da Giovanni Matteucci 1, c’è sicura-mente quello di aver illuminato le profonde innervazioni che da Dewey si dipartono su alcuni momenti essenziali del dibattito novecentesco, promuovendo una lettura in chiave antropologica del concetto di espe-rienza in Dewey.
Detto in tutta brevità e con la necessaria approssimazione, se l’espe-rire in generale non è altro per Dewey che la relazione ambientale in cui il vivente è costantemente immerso, il perfezionamento, la
con-summation dell’esperienza risiede poi nella «qualità individualizzante»,
nella «auto-sufficienza» che il materiale dell’esperienza acquisisce nel momento in cui «porta a compimento il proprio percorso» 2. Ovve-ro, per citare un altro straordinario passaggio dell’argomentazione di Dewey, «l’esperienza è emotiva, ma in essa non ci sono cose separate chiamate emozioni» 3.
Esperienza ed espressione stanno così, nel paradigma antropologi-co di Dewey, in una relazione che ritengo si possa utilmente porre a confronto con le riflessioni più o meno coeve dell’antropologia filoso-fica tedesca. Il vero filo conduttore che ci guiderà nella nostra breve analisi sarà il concetto di movimento espressivo, la cui enucleazione costituisce il vero obiettivo di quanto segue. Se, come scrive Dewey, la funzione cognitiva dell’esperienza sta in ultima analisi nel «controllo prospettico delle condizioni dell’ambiente» 4, il concetto gnoseologico di esperienza verrà superato, come ben argomenta Matteucci, e per così dire ripensato all’interno di una più ampia lettura antropologica.
È giusto da questa prospettiva che parte, riferendosi del resto espli-citamente ai risultati di Dewey, la ricerca di Arnold Gehlen. Nel 1936, muovendo tanto da suggestioni nietzscheane quanto nello specifico da William James e dal Dewey di Natura e condotta dell’uomo 5, Gehlen pubblica un saggio Sull’essenza dell’esperienza 6, che costituisce un pas-saggio decisivo per l’elaborazione della sua prospettiva antropologica. Risultato dell’analisi dell’esperienza lì condotta sarà infatti la deter-minazione del concetto di esonero (Entlastung), ed il ripensamento dei rapporti fra azione e teoria della conoscenza, dunque gli aspetti centrali del pensiero di Gehlen.
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Gehlen vede empirismo e metafisica accomunati da un approccio parziale ai problemi dell’esperienza, un approccio che riconducendo in ogni caso l’esperienza alla coscienza, e dunque intendendola come «un genere del sapere» 7, mancherebbe di coglierne l’aspetto decisi-vo per cui essa consiste anzitutto nell’interazione fra uomo e mondo, in un’elaborazione della realtà che immediatamente si traduce (come invece era stato compreso da Aristotele, «primo grande pensatore del-l’organismo» 8 e con ciò di una filosofia dell’aisthesis al tempo stesso in cui è il filosofo dell’agire e della tecnica) in un “saper deliberare” e in un “fare esperto”, quello della techne, in quanto tale «neutrale rispetto alla distinzione fra “fisico” e “psichico”» 9.
Anche Plessner, ci si permetta una breve parentesi, osserverà per parte sua nella premessa alla seconda edizione delle Stufen che il con-cetto di azione di Gehlen e di Dewey evita «la fatale spaccatura del-l’essere umano in una regione corporea e in una non-corporea» 10.
Un uomo esperto, prosegue Gehlen, «non è in prima linea uno che ha a disposizione giudizi giusti, ma è invece uno che in qualsiasi campo – si tratti pure in definitiva di mera destrezza corporea – co-struisce qualcosa, lo ha a disposizione, e semplicemente può qualco-sa» 11. Ambito dell’esperienza è dunque l’interazione costruttiva con le cose, con le situazioni, con gli altri e con se stessi, e l’esperienza ha innanzitutto un carattere di prestazione, ovvero è un modificare se stessi e le condizioni del proprio rapporto col mondo. Decisivo a questo punto, ma ci torneremo, il rapporto fra il “fare esperto” della tecnica e l’aistheticità del vivente.
Esemplare, per Gehlen, il caso del bambino che impara a cammi-nare: «di tutte le innumerevoli varianti della locomozione […], alcune vengono fissate, e proprio queste vengono rese possibili e costruite da tutto ciò che si svolge in precedenza e viene lasciato cadere» 12. La nostra esperienza della realtà si orienta sempre sulle maniere in cui le cose “ci concernono”; ben lungi dal permetterci di pervenire ad un immutabile esser-così della realtà, aggiunge Gehlen in polemica con l’antropologia spiritualista di Max Scheler, l’esperienza che noi faccia-mo è sempre un tentativo di «fissare univocamente per la disponibilità
futura il genere e la maniera di questo concernere» 13; l’oggettività non è che una momentanea “posizione di riposo” nell’interazione uomo/ mondo. E qui, al ricordo della polemica di Dewey contro il disinte-resse si aggiungono probabilmente gli esiti del dibattito tedesco di quegli anni, e in primo luogo le riflessioni di Uexküll e di Rothacker sulla valenza antropologica dell’istituzione di un “piano di significato”, di un «orizzonte di ciò che è per noi vitalmente ed emozionalmente significativo» 14.
Già in questa iniziale descrizione dell’esperienza si prospettano al-cuni dei grandi temi che Gehlen affronterà negli scritti successivi, a partire da Der Mensch, e si prospetta soprattutto il carattere simbolico
e dunque esonerante dell’esperire umano: costruiamo «forme della percezione e in generale del sapere vitale più elevate, simboliche, cioè semplicemente abbreviate e quindi esoneranti, che esonerano intere concatenazioni esperienziali ampie e conquistate con difficoltà» 15.
Riflettere sull’esperienza significa dunque per Gehlen riflettere sui modi in cui si realizza l’apprendimento umano e considerare l’uomo come colui che, non limitandosi a vivere ma conducendo la propria vita 16, profondamente rielabora, dissoda e ridefinisce i terreni di con-fine fra i comportamenti istintivi e le prestazioni coscienti.
Abbiamo dunque innanzi un primo piano di lavoro indubbiamente assai articolato: alle relazioni fra esperienza e tecnica corrisponde la messa in discussione della dicotomia fisico/psichico e il ripensamento della relazione fra soggetto e oggetto in funzione della relazione sim-bolica fra l’uomo e il mondo.
Gehlen ritorna sul senso della lezione di Dewey in un breve saggio del 1951, Der gegenwärtige Stand der anthropologischen Forschung 17, affermando che la caratteristica essenziale del comportamento umano, in specie di quello sociale, è quella di affiancare alla relazione con l’oggetto la tematizzazione del proprio sé e l’autopercezione. L’uomo è cioè capace di assumere su di sé il ruolo dell’altro e di vivere se stesso oggettivandosi nella relazione con l’altro. L’esempio è ancora una vol-ta quello del bambino, che nel suo modo di agire e parlare è capace di prefigurare la risposta dell’altro, il comportamento dell’altro, e di regolare di conseguenza il proprio. Non si tratterà tanto di imitazio-ne, quanto della creazione di strategie di autopotenziamento, o ancor meglio di vere e proprie strutture del comportamento che a giudizio di Gehlen iniziano a costruirsi nel corso di quella che Portmann 18
definiva la “primavera extrauterina” durante la quale il neonato, vero e proprio parto prematuro normalizzato, lentamente dà vita a una serie di processi di maturazione e di crescita sotto l’influsso degli stimoli provenienti dal mondo esterno.
E infatti, spiega Gehlen, «persino il parlare e il movimento umano si sviluppano in quel tempo sotto l’influsso dello stimolo immediato dell’ambiente simbiotico, come una “motorica acquisita” tanto auto quanto eterodiretta» 19. A giudizio di Gehlen si dà così la possibilità di seguire la vita spirituale dell’uomo sin nelle sue radici, nella sua materia costitutiva, procedendo dunque dal livello superficiale della coscienza a quello più profondo delle interazioni motorie e percettive con il mondo esterno, sino a ricostruirne, con Louis Bolk 20, i nessi con il complesso degli equilibri del sistema ormonale.
Gehlen si muove qui davvero sulla zona di confine fra l’ambito degli istinti e quello della progettualità umana, meglio ancora del «prendere posizione circa se stesso» 21 da parte dell’essere umano; se nel caso del comportamento animale le interazioni fra le strutture della percezione e quelle del movimento conducevano alla definizione dei modi della
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relazione fra ambiente e animale (in breve, l’ambiente – Umwelt – è composto per Jakob von Uexküll 22 appunto dal prodotto della rela-zione fra mondo percettivo – Merkwelt – e mondo agito – Wirkwelt), l’unità complessa fra percezione e movimento andrà compresa nel caso dell’uomo in un sistema di relazioni profondamente differente.
Da qui anche, occorre sottolineare, le ragioni delle parziali riserve di Gehlen nei confronti di Dewey 23: il terreno dell’esistenza umana, dice infatti Gehlen, non è senz’altro la “vita quotidiana” come afferma Dewey, ma è piuttosto costituito dal nostro cronico proiettarci dalla vita quotidiana verso il futuro: dalla chiusura ambientale propria del-l’animale, in direzione dell’apertura al mondo del circolo funzionale delle nostre relazioni percettive e motorie con la realtà.
Il discorso si apre qui in due direzioni differenti, entrambe del più grande interesse per il nostro ripensamento delle condizioni dell’espe-rienza estetica: per un verso la relazione fra l’uomo e la tecnica, per l’altro verso quella fra istinti e azione.
Più in breve quanto al primo punto: va anzitutto ricordato che già nel saggio del 1936 l’analisi dell’esperienza si legava alle condizioni storiche della tarda modernità, e dunque alla crisi dell’esperienza, in maniera in qualche modo analoga alla diagnosi benjaminiana della po-vertà dell’esperienza, se si vuole, benché come è noto con implicazioni politiche del tutto differenti: l’attenzione per le strategie esoneranti legate al comportamento simbolico dell’essere umano era anche una difesa delle strategie culturali dell’uomo occidentale contro l’oggettiva perdita di pregnanza dell’esperienza nell’era contemporanea 24. Negli anni Cinquanta il discorso di Gehlen si approfondisce con la consi-derazione della mediazione tecnica dell’esperienza; occorre anzitutto ricordare che Gehlen definisce circolo dell’azione la forma generale dell’interazione fra percezione e movimento nell’uomo, e la descrive in base al principio di retroazione per cui il comportamento viene spe-rimentato nei suoi risultati, e tali risultati retroagiscono influenzando i comportamenti futuri 25.
Ebbene, sottolinea Gehlen, sono proprio le proprietà costitutive del circolo dell’azione e del principio dell’esonero a fungere da deter-minanti dell’intero sviluppo della tecnica 26, sino al suo esito estremo, cioè non solo la sostituzione dell’organo con lo strumento inorganico, ma l’automatismo della macchina, vero punto di arrivo delle strategie esoneranti e insieme del processo di autoapprendimento instradato dal circolo dell’azione. Tenendo conto di ciò, probabilmente non sarà sufficiente nel caso di Gehlen parlare di integrazione dell’inorganico nell’ambito dell’organico, ma piuttosto si dovranno fare i conti con la chiara percezione da parte del nostro autore di una svolta assai più radicale, che certo è anche il compimento, alla lettera, di un pro-cesso antico quanto l’ominazione stessa, e cioè del tentativo, operato tanto con gli strumenti della magia quanto con quelli della tecnica,
di pervenire a quella che significativamente Gehlen definisce stabilità
ambientale: «l’interesse umano elementare per l’uniformità del corso
della natura è assai rilevante e corrisponde a un bisogno di stabilità
ambientale quasi istintivo» 27. Quasi un ritorno alle condizioni di si-curezza della vita animale.
La Instinktähnlichkeit, la prossimità all’istinto di questo bisogno apre però per noi al secondo aspetto del problema, e cioè quello della «zona di confine fra esecuzioni istintive ed esecuzioni intellettuali negli esseri umani» 28, cui Gehlen dedica nel 1961 un saggio che costituisce probabilmente il suo principale contributo al dibattito sull’esperienza estetica.
Proviamo dunque a seguire per qualche tratto la densa argomen-tazione di Gehlen, che muove giusto dall’assunzione che esista una proporzionalità inversa fra istinto e coscienza, per cui l’uomo si carat-terizzerebbe per un processo di riduzione degli istinti da porre molto indietro nella storia evolutiva della nostra specie, che presenta di fatto a giudizio di Gehlen solo dei «residui istintuali» 29. Alla riduzione degli istinti si accompagna, d’accordo con le teorie di Bolk sull’ominazione, un insieme di inibizioni ormonali che determinano il mantenimento sino all’età adulta di un sistema di caratteristiche evolutivamente pri-mitive (prolungamento dell’infanzia e tarda maturità sessuale, assenza di peli, elevata aspettativa di vita, instabilità della vita pulsionale). Sulla base di queste premesse Gehlen si domanda se sia ancora possibile nel caso dell’essere umano rintracciare reazioni istintive come quelle studiate dall’etologia di Konrad Lorenz, e consistenti in un processo di scatenamento per cui in determinate specie determinate figure di mo-vimento «vengono disinibite da parte di uno stimolo che sopraggiunge dall’esterno» 30, secondo una relazione definita “chiave/serratura”.
Caratteristica comune di questi meccanismi scatenanti è la loro im-probabilità e semplicità, ovvero, spiega Gehlen, «i segnali scatenanti sono soliti staccarsi nell’ambiente delle diverse specie animali dallo sfondo solito, appaiono insoliti, vistosi, insistenti» 31, e insomma, come già osservava Lorenz, si distaccano da un ambiente per lo più fatto di configurazioni irregolari e indistinte per quella regolarità e simmetria, che solitamente rende belli agli occhi degli uomini i fattori scatenanti ottici degli istinti animali (i colori puri e le forme regolari).
Occorrerà allora chiedersi se esiste la possibilità di rintracciare «qualcosa come un substrato biologico delle esperienze propriamente artistiche» 32, che permetterebbe di addentrarsi nel territorio secondo Gehlen «mai esplorato» 33 di una fisiologia dell’arte. Per chi si occupa di storia delle idee è in effetti piuttosto singolare dover osservare come anche qui Gehlen, benché evidentemente a sua insaputa, stia seguendo le orme di Herder e di ampia parte del dibattito dell’Illuminismo tede-sco in direzione di una fisica dell’anima e di un’estetica fisiologica.
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verso quel grande discrimine costituito dalla riduzione degli istinti, che implica anzitutto l’affrancarsi nell’uomo degli organi di senso «dai circuiti funzionali animali» 34, dove andrà notato che l’espressione “cir-cuito funzionale” (Funktionskreis) fa riferimento una volta di più alla teoria ambientale di Uexküll, e vale a indicare l’interazione e gli effetti di feedback fra animale e ambiente tanto nell’ambito della percezione quanto in quello del movimento.
Ecco perché il passo successivo di Gehlen sta nella distinzione fra la motorica innata, ereditaria, dell’animale, e la motorica acquisita, «istintualmente esonerata» 35, dell’uomo. Infatti per un verso la mas-sima parte di ciò con cui l’uomo interagisce è artificiale, prodotto dal-l’uomo stesso, come tavoli, sedie, penne, case, strade, e dunque non si danno circuiti funzionali innati nell’uso di tali elementi artificiali. Ma soprattutto, poi, il movimento e la sua relazione con la percezione sono volti nell’uomo all’attiva modificazione di circostanze in linea di principio imprevedibili, alle quali appunto è funzionale il carattere autoavvertito delle prestazioni sensomotorie umane. L’esuberante ric-chezza delle pulsioni umane ha caratteristiche tali (cronicità, conver-tibilità) da sfuggire del tutto alla traduzione in precise figure motorie. Si ha così, nel caso di una «situazione biologicamente significativa» (riguardante la sessualità, la nutrizione, il pericolo di vita ecc.), una «scossa sensoriale» 36 che però non necessariamente si traduce in un determinato comportamento, e talvolta anzi non si traduce affatto in azione, ma semmai in un differimento dell’azione.
È però importante osservare come lo stesso Gehlen registri quasi a margine l’esistenza di una via alternativa di sfogo della scossa sensoriale, costituita dalla motilità periferica, involontaria, legata ai canali vegetati-vi, con fenomeni dell’espressività quali il riso, il pianto, l’arrossire, che dovrebbero a giudizio di Gehlen «venir compresi come vie di sfogo
non pratiche (che non modificano nulla nel mondo esterno) di scosse
sensoriali, che per parte loro sarebbero reazioni istintive, trattenute al-l’interno, a stimoli o situazioni scatenanti» 37. Vedremo come già nella ricerca di Plessner e Buytendijk dei primi anni Venti proprio l’analisi di tali fenomeni abbia portato a risultati del più grande interesse.
La plasticità e convertibilità della nostra vita pulsionale ha poi a giudizio di Gehlen un’altra conseguenza di grande portata, ovvero ha per effetto l’unità temporale della nostra vita interiore, che non è dis-seminata in un pulviscolo di presenti irrelati relativi alle varie sfere pulsionali, né però è unificata solo a livello della coscienza intellettuale, ma alla lettera getta le sue radici sin nell’oscurità della vita vegetativa: «si costruisce in un costante processo di autotrasformazione, di cui solo la minima parte diviene consapevole, qualcosa come una “base di reazione storica”, che però viene anch’essa costantemente ridefinita» 38. Una volta di più un risultato riportabile a un dibattito oggi troppo ingiustamente dimenticato (i nomi sarebbero qui soprattutto quelli di
Erich Rothacker e di Philipp Lersch 39), nonché una prestazione
ai-sthetica dell’essere umano.
Cosa ne è però dello stimolo scatenante, nel momento in cui esso, nell’essere umano, non genera più una figura motoria, e dunque alme-no tendenzialmente alme-non genera più gli esiti cui sarebbe biologicamente preposto? «Tutte queste cose», cioè tutte le configurazioni scatenanti “improbabili”, risponde Gehlen, «risulterebbero vistose in primo luo-go dal punto di vista ottico, in modo pienamente indipendente da qualsiasi valenza biologica anche residuale, e a loro volta sarebbero coordinate con un’attenzione e una coordinazione sensoriale con gli istinti del tutto astratta, soltanto rudimentale, e quindi dotata di una sua propria qualità» 40. È qui che si radica antropologicamente il pri-mato del ben forpri-mato indagato dalla psicologia della Gestalt, ed è qui che si fonda la possibilità di un’estetica fisiologica.
Gehlen non esita ad esprimere la sua insoddisfazione nei confronti dei metodi più accreditati della scienza filologica dell’arte – un’insoddi-sfazione di cui si ricorderà ancora Hans Belting nella sua recente
Bild-Anthropologie 41 – avvertendo l’esigenza di una comprensione dell’arte che sollevi il velo su quella «animazione [Belebung] ed entusiasmo che fanno battere il cuore e mozzano il fiato» 42, e che restano totalmente inspiegabili «senza alcuna partecipazione di istanze fisiche» 43.
Occorrerà allora rintracciare nelle esperienze estetiche la parteci-pazione di «qualcosa come una motorica particolare, che va vista in relazione ad altre particolarità del movimento umano» 44, ovvero, come spiega il rinvio alla seconda sezione di Der Mensch 45, va posta in rela-zione col carattere acquisito e autoavvertito del movimento, in grado di nutrire la fantasia motoria, in primo luogo nella sua qualità ottica. «In modo corrispondente – prosegue Gehlen – deve essere possibile mettere in relazione con la qualità della struttura delle pulsioni umane certe proprietà delle esperienze estetiche vissute, o addirittura il loro intero ambito» 46. La sobria precisazione ulteriore di Gehlen è che ovviamente in tal modo ambito della fisiologia dell’arte sarebbero solo «gli strati prossimi all’istinto nel campo dei fenomeni estetici» 47.
È allora giunto il momento di raccogliere tutti gli elementi sinora dispiegati analiticamente da Gehlen: in cosa consiste la qualità della struttura delle pulsioni coinvolte nell’ambito estetico, e che genere di Sondermotorik (motorica particolare) è quello cui esse danno vita rendendosi indipendenti da ogni valenza biologica e traducendosi nella qualità del “ben formato”?
Gehlen risponde dicendo che «ciò che è rimasto dell’effetto scate-nante evolutivamente primordiale è un residuo divenuto privo di
fun-zione, depotenziato, che però proprio per questo motivo può irradiarsi
all’intera ampiezza del campo della percezione in interminabile mul-tiformità» 48. Se la percezione e la motorica animale sono per Gehlen meramente elementi del circolo funzionale ambientale, la zona di
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ne prossima all’istinto nel comportamento estetico umano può vicever-sa essere investita di un godimento che è commisurato alla raggiunta libertà dall’azione: «sentiamo di fronte a questi valori estetici qualco-sa come un impulso di genere particolare, libero dal comportamento […]. Abbiamo l’impressione di un venir attirati sensibilmente forte, molto immediato e vivificante, ma d’altro lato decisamente puntuale e per così dire senza risultato» 49.
Insomma risulterebbe soppressa o ridotta la concatenazione fra sti-molo scatenante e risposta motoria istintiva, e proprio nel raggiungi-mento della libertà dall’azione, dunque direi in una sorta di prefigura-zione del compimento del processo esonerante del circolo dell’aprefigura-zione, consisterebbe il piacere estetico 50.