• Non ci sono risultati.

nel quadro dell’orizzonte estetico attuale?

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 125-139)

di Mario Perniola

1. L’orizzonte estetico – Quale posto occupa la grande opera estetica di John Dewey nel quadro dell’estetica attuale? A quali pericoli di fraintendimento è esposta? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto descrivere sommariamente la tendenza prevalente nella ricerca estetica di oggi, che è caratterizzata da un duplice processo. Da un lato si assiste ad un ampliamento dell’orizzonte estetico che tende a includere sempre nuovi territori e oggetti di studio. Dall’altro l’unità dell’orizzonte estetico si spezza in una molteplicità di ricerche e di indirizzi e che sembrano avere poco che fare gli uni con gli altri. La situazione mi pare caratterizzata da due tendenze opposte: l’una verso l’espansione, che si potrebbe definire come la svolta culturale

dell’este-tica, attraverso la quale l’estetica finisce a identificarsi con lo studio

della cultura; l’altra verso la frammentazione, che si potrebbe definire come la decostruzione dell’estetica, attraverso la quale perfino le nozioni fondamentali dell’estetica perdono il loro carattere unitario.

Come tutti sappiamo, l’orizzonte estetico si è costituito fin dal Set-tecento dall’incontro di quattro problematiche differenti che facevano capo a quattro oggetti distinti: il bello, l’arte, la conoscenza sensibile e l’educazione. Tuttavia questo accordo è durato molto poco. Già per Kant il giudizio non appartiene più all’ambito della conoscenza sen-sibile. Dopo poco Schelling ed Hegel spezzano l’accordo tra la bella natura e l’arte e ritengono che il titolo Filosofia dell’arte sia preferibile a quello di Estetica. Lo stile di vita estetico, che Schiller aveva iden-tificato con la formazione dell’umanità, diventa oggetto della critica di Kierkegaard. L’orizzonte estetico non è più un luogo di pace e di armonia, ma un campo di battaglia in cui quattro contendenti (il bello, l’arte, la conoscenza e gli stili di vita) si confrontano e si affrontano dando luogo alle più varie situazioni strategiche. L’orizzonte estetico è caratterizzato da un dinamismo permanente che di tanto in tanto si manifesta in aperti conflitti, ma che è sempre attraversato da tensioni e attriti.

I contendenti che agiscono all’interno di tale orizzonte non sono individuabili in modo essenzialistico indipendentemente dalle relazio-ni che via via stabiliscono gli urelazio-ni con gli altri. Chi si interroga sulla loro identità, cioè si chiede che cos’è l’arte, che cos’è il bello, che

124

cos’è l’estetico (inteso al neutro come l’oggetto per eccellenza della disciplina estetica), che cos’è la condotta esemplare, corre il rischio di arrivare a risultati nulli. Questo approccio metodologico, anche se preceduto da un’ampia rassegna storica dei vari modi in cui sono stati pensati il bello, l’arte, l’estetico e lo stile di vita esemplare, arriva alla conclusione sconfortante che tutto può essere considerato come bello (anche il brutto nelle sue varie declinazioni), come arte (anche l’anti-arte), come estetico (anche l’anestetico), come stile di vita esemplare (anche l’abiezione).

2. Espansione dell’orizzonte estetico – Nel mio libro L’estetica del

Novecento 1 ho cercato di fornire le linee generali dell’orizzonte estetico

di quel secolo delineando cinque concetti fondamentali all’interno delle quali possono compresi i più significativi contributi a questa disciplina. Questi concetti filosofici sono la vita e la forma (riportabili a Kant), la

conoscenza e l’azione (riportabili a Hegel), e infine il sentire (riportabili

a Nietzsche). Ancora oggi una gran parte dei contributi estetici con-temporanei si muovono all’interno di queste cinque nozioni.

Tuttavia un numero crescente di ricerche e di studi sta ampliando ulteriormente l’orizzonte estetico allargando in modo considerevole i confini della disciplina e mutando le sue caratteristiche essenziali. Il senso generale di questa tendenza è quella di considerare l’estetica come un campo di studi più vasto della filosofia. Questo fenomeno è stato descritto come la svolta culturale dell’estetica. Due recenti opere monumentali condividono questo progetto: la prima è l’Encyclopedia of

Aesthetics, diretta da Michael Kelly, recentemente pubblicata in quattro

grossi volumi 2, alla cui stesura hanno contribuito più di cinquecento studiosi di varie specialità; la seconda è l’Aesthetische Grundbegriffe, diretta da Karlheinz Barck, in sette grossi volumi 3. Si tratta di opere differenti tra loro e di diverso rigore metodologico; tuttavia presentano alcuni aspetti comuni.

L’enciclopedia anglo-americana è molto esplicitamente ispirata da una metodologia che considera l’estetica come un meeting place, un luogo d’incontro di numerose discipline e di varie tradizioni culturali. Essa cerca così di colmare lo iato esistente tra il sapere estetico e la società contemporanea. Infatti ciò che caratterizza quest’ultima è l’in-contro e la mescolanza di codici appartenenti ad ambiti diversi: essa si sviluppa attraverso una continua interazione di segni e un incessante slittamento di significati. A essere inadeguato rispetto alle sollecitazio-ni della società contemporanea non sarebbe tanto il sapere estetico tradizionale quanto la sua pretesa teoretico-speculativa. Sembra che l’estetica possa essere fruttuosa solo se riesce ad aprire un orizzonte epistemologico caratterizzato dalla flessibilità. In fondo, alla base della metodologia dei Cultural Studies sta il principio barocco dell’ingegno che consiste nell’avvicinare cose a prima vista lontane e nell’allontanare

cose a prima vista prossime. Tale principio è ancora più importante se applicato alla ricerca, la quale è generalmente tanto più originale e innovativa, quanto più esplora le zone marginali e i confini delle conoscenze canoniche. Trovano un’ampia trattazione voci su fenomeni alternativi e considerati come marginali dalla tradizione estetica come “lesbian aethetics”, “gay aethetics”, “feminism”, “Aids, aesthetics and activism”, “obscenity” “sexuality”, “situationist aethetics”, “iconocla-sm and iconophobia”. Questa scelta non conformistica è confermata dall’introduzione nel canone estetico di fenomeni che non apparten-gono all’“alta cultura”, come “comics” “popular culture” “fashion”, “rock music”, “jazz”, oppure fanno parte dell’avanguardia artistica più trasgressiva come “anti-art”, “performance art”, “installation art”. Le origini dell’attuale svolta culturale si trovano già nel Settecento per esempio in Inghilterra dove la parola usata per designare l’estetica è

criticism. Fin dall’inizio dunque l’approccio estetico anglosassone alla

società e alle arti si caratterizza in senso non conformistico ed è con un’idea della cultura intesa come formazione di una sfera pubblica discorsiva a cui tutti possono partecipare. Con la parola criticism si intende infatti il diritto di ciascuno ad esprimere una valutazione ed un apprezzamento indipendenti dai canoni ufficiali e dalle gerarchie convenzionali.

Anche l’opera tedesca, le cui voci sono veri e propri saggi, ha un approccio non conformistico alla problematica estetica contempora-nea, in particolare in alcune voci come “Alltäglish, Alltag”, “Design”, “Ekel”, “Erotisch, Erotik, Erotismus”, “Film, filmisch”, “Kommuni-cation”, “Medien, medial”, “Négritude, Black Aesthetics, créolité”, “Performance”, “Schrecken, Schock”, “Subkultur”, “Warenaesthetik, Kulturindustrie”. C’è però dietro l’opera tedesca una conoscenza molto maggiore della storia dell’estetica e delle origini di questa svolta cultu-rale, la quale non è poi così nuova come pretendono i sostenitori dei

Cultural Studies. Il padre fondatore dell’estetica culturale in Germania

può essere considerato Jakob Burckhardt il quale ha considerato la cultura come una potenza critica nei confronti dello stato e della re-ligione, definendola come la somma complessiva delle manifestazioni dello spirito che avvengono spontaneamente e non rivendicano nessuna validità universale e coercitiva. Essa nasce da una eccedenza, da un surplus inutilizzato che inizialmente può essere anche molto esiguo, ma si sviluppa se trova le condizioni favorevoli, cioè l’assenza di re-pressione, la possibilità di avere relazioni sociali non funzionali, la sicurezza delle condizioni materiali di vita. Ogni azione se eseguita con zelo e non per puro servilismo contiene in se stessa questa eccedenza che trova nell’arte la più alta manifestazione. Con Burckhardt l’intera storia universale diventa l’oggetto di una visione estetica, cioè distan-ziata e disinteressata, che prende in considerazione anche l’individuo, relativizzando le nozioni di successo e di fallimento.

126

La svolta culturale dell’estetica implicita nell’opera storica di Burckhardt consente di inserire nella storia dell’estetica del Novecento e quindi nel canone estetico tutta una serie di autori e pensatori che comunemente sono rubricati nella storiografia o nelle scienze umane come lo storico Georg Mosse, i sociologi Plessner e Gehlen, il semiotico Umberto Eco, il pensatore giapponese Watsuji e molti altri. In epoca più recente im-portantissimo per questo ampliamento culturale dell’estetica mi sembra il sociologo francese Pierre Bourdieu e dei suoi allievi.

La riflessione di Pierre Bourdieu sulla nozione di “disinteresse in-teressato” è della più grande importanza, perché espande le frontiere dell’estetica e getta le premesse di una nuova sintesi più vasta in grado di rispondere alla sfida proveniente dalla globalizzazione dei saperi e delle conoscenze. Non si tratta infatti di proporre una generica inter-disciplinarietà che il più delle volte apre la strada al confusionismo comunicativo. La strategia teorica della nuova sintesi estetica consiste nel prendere sotto l’egida di un’economia dei beni simbolici tutte le attitudini, i comportamenti, le azioni, in una parola tutti gli habitus guidati da quel “disinteresse interessato”, che nel corso dei secoli ha costituito l’aspetto essenziale dell’esperienza estetica.

Sotto l’estetica vengono così a trovarsi non solo le arti, ma anche tutte quelle attività scientifiche, professionali e burocratiche che im-plicano per definizione libertà e autonomia rispetto all’economia del profitto immediato e della negoziazione e che sono dirette verso la formazione di un capitale culturale e simbolico non riducibile al capi-tale economico. L’estetica finisce così col fornire i criteri deontologici dai quali è retto l’esercizio di ogni attività intellettuale e sui quale si fonda il suo prestigio.

A maggior ragione rientrano nell’estetica i rapporti familiari, educa-tivi, di amicizia, e di amore che da sempre sono stati considerati come indipendenti da contrattazioni esplicite e controllate, ma anche come fonti di obbligazioni molto più impegnative e prolungate nel tempo. L’essenziale è cominciare a sottrarsi nelle piccole come nelle grandi cose a quel “pensiero unico” che pretende di appiattire sotto il suo rullo compressore dell’economia ristretta e quantitativa tutti gli aspetti dell’esistenza. La nuova sintesi estetica può fornire così le coordinate teoriche e gli strumenti concettuali che consentono di trasformare la crescente insofferenza nei confronti della comunicazione massmedia-tica, in una strategia globale di resistenza e di lotta. Attraverso questo ampliamento è del resto possibile comprendere ed apprezzare le logi-che logi-che regolano i rapporti sociali nelle cosiddette “società tradizio-nali” le quali non a torto si oppongono ad una colonizzazione che ha assunto l’aspetto di una dissennata autodistruzione della stessa cultura occidentale.

del-l’orizzonte estetico corrisponde tuttavia una linea di tendenza opposta, che decostruisce i concetti fondamentali dell’estetica occidentale, mo-strando come essi siano inseparabili dalle lingue in cui sono espressi. Il

Vocabulaire Européen des Philosophies. Dictionnaire des Intraduisibles,

realizzato sotto la direzione di Barbara Cassin 4, costituisce un risultato rilevantissimo di questo tipo di approccio metodologico ai problemi della filosofia, che ha nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Émile Benveniste, il suo modello ispiratore. Il punto di partenza di quest’opera che in milllecinquecentotrentadue pagine prende in esame quattrocento parole chiave delle principali lingue europee è la constata-zione che molti termini del linguaggio filosofico sono così strettamente legati alla lingua nella quale sono elaborati concettualmente da risultare intraducibili, oppure traducibili solo attraverso uno slittamento di signi-ficato che deve in ogni caso evidenziato. Ne risulta che da un lato non c’è concetto senza parola: poiché quest’ultima appartiene ovviamente ad una lingua specifica, la condizione di un approccio metodologico non ingenuo alla filosofia passa attraverso lo studio del singolo termine e dalla comparazione del modo in cui è tradotto nelle altre lingue. La pa-rola non è affatto il segno di un concetto, ma è radicata nelle lingue.

Come spiega Barbara Cassin nell’introduzione, tale metodologia implica il rifiuto dell’universalismo logico che sostiene l’esistenza di un universale logico, identico in tutti i luoghi e in tutti i tempi: poco importa la lingua in cui viene detto. Il modello a cui esso si ispira è la logica matematica: nell’impossibilità di una formalizzazione radicale del linguaggio filosofico, l’uso di un inglese internazionalizzato (cioè privato delle sue caratteristiche letterarie) costituisce un compromesso accettabile per i tempi moderni, svolgendo così una funzione analoga a quella svolta dal latino per quasi due millenni. È questa la scelta del-la corrente analitica deldel-la filosofia contemporanea, del-la quale – secondo Barbara Cassin – unisce «l’angelismo del razionale col militantismo del linguaggio ordinario».

Nello stesso tempo tuttavia la metodologia seguita da quest’opera rifiuta la posizione opposta all’universalismo logico, il nazionalismo ontologico, che enfatizza il rapporto tra la filosofia e la lingua al punto di ritenere la meditazione filosofica inseparabile dalla lingua in cui si manifesta. I concetti sarebbero così radicati nell’esperienza collettiva di un popolo al punto che ogni traduzione o decontestualizzazione darebbe luogo al fraintendimento e al malinteso. L’atteggiamento di sufficienza e di altezzosità con cui vengono percepiti dalle grandi cul-ture nazionali i contributi che le riguardano provenienti da stranieri, è appunto un sintomo quanto mai significativo di tale atteggiamento, quasi che ognuno sia legittimato a parlare solo degli autori che appar-tengono alla sua lingua madre. Secondo i sostenitori del nazionalismo ontologico, le lingue filosofiche per eccellenza sarebbero il greco per l’antichità e il tedesco per la modernità.

128

L’approccio metodologico che ispira questo vocabolario si configu-ra come una terza posizione alternativa rispetto alle prime due. Esso studia i principali sintomi di differenza tra le lingue e va alla ricerca dei termini che nelle singole lingue europee presentano caratteri così particolari da risultare intraducibili. Nello stesso tempo si interroga sulla specificità del linguaggio filosofico delle singole culture nazionali, per cui il francese, l’inglese, il tedesco, l’italiano, lo spagnolo, il russo, il portoghese e il greco costituiscono altrettanti lemmi autonomi, men-tre il greco antico, il latino, l’ebraico e l’arabo sono trattati nella voce “Lingue e tradizioni”. I presupposti teorici su cui è costruito questo vocabolario sono due. In primo luogo in ogni termine filosofico di qualsiasi lingua esiste una tensione tra la pretesa di universalità del concetto e la sua espressione linguistica: proprio su tale tensione si basa la specificità del linguaggio filosofico rispetto a qualsiasi altro. In secondo luogo, ogni lingua apre su un modo particolare di vedere il mondo e contiene un intero un sistema di concetti che si rimandano l’un l’altro.

Ne deriva che anche i concetti fondamentali dell’estetica non sfug-gono a questa decostruzione. Prendiamo la parola da cui prende origi-ne l’estetica e la sua traduzioorigi-ne in molte lingue occidentali. La parola

senso è una delle più ambigue del vocabolario filosofico. Essa infatti

ha quattro differenti significati che si intrecciano e si contaminano in modo molto complesso. Ve le elenco brevemente: (1) “sensazione”, “percezione sensibile” (aisthêsis); (2) “comprensione”, “percezione intellettuale” (nous); (3) “significato” (sêma); (4) a queste bisogna ag-giungere anche “direzione” (come quando nella segnaletica stradale si parla di un senso vietato). Tale polisemia non esiste in greco, il quale dispone di termini differenti per indicare queste quattro accezioni.

Faccio un esempio che riguarda direttamente l’idea intorno a cui ruotano alcuni miei libri recenti: il sentire impersonale 5. Se traducia-mo la parola senso in inglese: troviatraducia-mo feeling (di etitraducia-mologia anglo-sassone). È stato infatti osservato che il verbo to feel è sovente usato al passivo, senza indicazione di colui che sente, come nell’espressione spesso ricorrente nell’opera di Hume: “Something felt”, che si riesce a tradurre molto male con “qualcosa di sentito”. A questa desogget-tivazione corrisponde una deoggetdesogget-tivazione, perché il feeling non ha un oggetto prestabilito come ha la sensazione, tanto è vero che si può dire “I feel a sensation”o “I feel my mind”, mentre l’espressione “sento una sensazione” costituisce un pleonasmo.

Feeeling rimanda quindi ad un sentire impersonale. La difficoltà di tradurre la parola feeling non deriva soltanto dalla sua etimologia che è completamente differente da senso. Più radicalmente è l’operatore

–ing a essere intraducibile. Tradurre feeling con il sentire significa

so-stanzializzarlo troppo. Certo il sentire è più impersonale del senso, ma si configura o come una facoltà soggettiva sostanzializzata o al contrario

come un non sentire affatto, nel caso che non si riesca ad immaginare un sentire senza soggetto. Per esprimere più correttamente il tipo di esperienza neutra ed impersonale che costituisce il cardine intorno a cui ruota la mia riflessione sull’affettività, si dovrebbe inventare una parola che la grammatica italiana non consente, il sentendo, cioè la sostantiva-zione di un gerundio. Nella sostantivasostantiva-zione di un infinito, il sentire, va perduta la dimensione progressiva implicita nell’operatore –ing In altre parole, in italiano, in francese e in tedesco, trasformare un verbo in un sostantivo, implica nello stesso tempo sostanzializzarlo metafisicamen-te, correndo il rischio di regredire da una metafisica del soggetto (di derivazione cartesiana) a una metafisica della sostanza. L’inglese invece ci fornisce la possibilità di sostantivare senza sostanzializzare, di creare concetti che eludono lo schema soggetto-oggetto all’interno del quale rimaniamo prigionieri in lingue che hanno una impronta metafisica.

4. Arte come esperienza o esperienza come arte? – Se considero il grande libro di Dewey, Art as experience, alla luce dell’attuale situa-zione dell’estetica, osservo che esso corre il rischio di costituire una legittimazione di un approccio pseudo-culturalistico che propone consi-derare di qualsiasi esperienza quotidiana, sic et simpliciter, come dotata di un significato e di un valore estetico. Se così fosse il libro di Dewey avrebbe dovuto intitolarsi Experience as art. Ora invece non c’è dubbio che l’accento è posto sull’arte, intesa come il punto di arrivo di una “vera” esperienza.

In un passo particolarmente significativo, Dewey paragona l’espe-rienza estetica al sentire una pietra che rotola giù da una collina per avere un’esperienza (A generalized illustration may be had if we

imma-gine a stone, which is rolling down ill, to have an experience”) 6. Dewey suppone che questa pietra sia dotata di immaginazione, si interessi alle cose che incontra nel suo cammino, attribuisca loro l’effetto di acce-lerare o di ritardare il suo movimento, provi sentimenti nei confronti del loro aiuto o del loro ostacolo e alla fine si fermi al termine della sua corsa. Tutto ciò le è accaduto è pensato da lei come il culmine di un processo continuo.

Per Dewey questa pietra senziente avrebbe fatto un’esperienza do-tata di qualità estetica, innanzitutto perché non si è limido-tata a soltanto pensare tutto il suo cammino, ma lo ha effettivamente compiuto. Dewey sottolinea il carattere pratico di tale vicenda, non tanto per opporsi a quelle estetiche che attribuiscono all’arte una funzione solo conoscitiva, ma per separare l’esperienza estetica dalle prospettive meramente edoni-stiche. Perché l’esperienza arrivi alla sua dimensione estetica è necessaria una lotta che comporta per lo più sofferenza e dolore: ciò consente a Dewey di emancipare l’esperienza estetica dalla connessione col piacere, che era stato l’oggetto della critica di Tolstoj. Dewey si muove in un una direzione che rompe risolutamente con le estetiche edonistiche: «in ogni

130

esperienza c’è un elemento di patimento, di sofferenza in senso lato»

(There is […] an element of undergoing, of suffering in a large sense, in every experience) 7. Il piacere e il dolore, come tutte le altre emo-zioni, d’altra parte, non devono essere considerate separatamente, ma connesse col carattere processuale dell’esperienza, che si svolge come la vicenda di un romanzo o di un dramma: l’emozione appartiene a una entità che è impegnata in una lotta dalla quale essa acquista signi-ficato. La sospensione, che tante teorie considerano come un aspetto essenziale dell’esperienza estetica, non deve essere intesa come distacco dalla pratica, ma come attesa, incertezza sull’esito, tensione verso il per-fezionamento dell’esperienza. La domanda sul “come va a finire” è un

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 125-139)