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Patologie dell’esperienza estetica contemporanea

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 153-165)

di Fabrizio Desideri

Patologia nel suo senso esteso indica normalmente il malfunziona-mento di un organismo, una qualche anomalia. In maniera più sbriga-tiva e più consuetudinaria potremmo anche dire che quando usiamo il termine “patologia” implichiamo che “qualcosa non va”. Il difficile in questi casi è dire quando qualche cosa “va” ossia e più precisamente quando un organismo (non necessariamente biologico, anche sociale oppure istituzionale) funziona normalmente, non è soggetto ad ano-malie. Il normale funzionamento di un organismo o di un sistema, di cui l’organismo (vivente) costituisce senza dubbio un sottogenere (nel senso appunto che ogni organismo è un sistema, ma non viceversa), è più facilmente definibile ex negativo (in opposizione alle sue manife-stazioni patologiche) che in via direttamente positiva. Senza con questo dover affatto concludere in un apofatismo puro semplice. Non sostengo infatti che il normale funzionamento di un sistema o di un organismo sia ineffabile: le sue patologie delimitano già in positivo alcuni tratti significativi della condizione di normalità funzionale. Ovviamente, ri-spetto all’effettività di sistemi-organismi la norma esprime una sorta di media ideale che possiamo esprimere nella forma di un modello. Da una parte, tale modello dipende da una serie di osservazioni empiriche, tanto più significative quanto più si presentano in forma patologica; dall’altra, queste osservazioni sono influenzate dal modello e dai criteri di interrogazione-analisi che fornisce. A questo proposito un modello, nella fattispecie un modello relativo ad una funzionalità sistemica, sarà tanto più potente quanto più sarà permeabile a degli aggiustamenti e a delle correzioni e quindi quanto più sarà flessibile.

Sulla base di questa premessa generale mi propongo di analizzare il problema delle patologie dell’esperienza estetica contemporanea. Un aspetto non secondario del mio proponimento, anzi strettamente con-giunto con esso, è dato dall’intenzione di contrastare la tesi abbastanza diffusa circa l’estetizzazione o, come suo rovescio speculare, circa l’ane-stetizzazione quale chiave interpretativa di certi caratteri salienti della contemporaneità quanto al problema estetico. Dico subito che a me questa tesi , nel suo carattere di attribuzione generalizzante, pare incon-sistente. Non solo per la sua scarsa efficacia descrittiva, ma anche – e forse ancor più decisamente – per il modello teoricamente normativo da

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cui consapevolmente o inconsapevolmente deriva. Riprendendo a questo proposito una tesi di Jean Marie Schaeffer 1, senza doverla abbracciare

in toto sia nella sua articolazione analitica sia nel suo sviluppo

succes-sivo 2, identifico questo modello come direttamente derivante da una concezione speculativa dell’estetica, dove quest’ultima – abbandonando progressivamente il terreno aisthetico (e dunque percettivo-sensoriale) del sentire – si risolve sostanzialmente in una filosofia dell’arte, confe-rendo a quest’ultima la prerogativa di un accesso privilegiato alla verità. Con qualche approssimazione si può individuare la genesi di questo modello speculativo dell’estetica nell’ambito della filosofia romantica e idealista (segnatamente in Schelling ed Hegel) e vederne lo sviluppo e la prosecuzione nel corso del Novecento in autori come Heidegger e Gadamer. La conseguenza più macroscopica di un’identificazione del-l’estetica con una filosofia dell’arte (di cui, ad esempio, la risoluzione gadameriana dell’estetica in ermeneutica è una diretta conseguenza) è che qualora venga ammessa una qualche specificità e pertinenza della nozione di esperienza estetica (in Heidegger, ad esempio, essa è espli-citamente esclusa, fino a convertire l’Estetica in una Poietica ossia nel considerare l’origine dell’arte in una messa in opera della verità), essa viene comunque assorbita nella sfera dell’artistico. E molto spesso non nell’artistico in genere, bensì in una sfera dell’arte da scriversi con la maiuscola. Solo quest’ultima, infatti, in quanto costituita da opere-even-ti eccezionali rende possibili esperienze esteopere-even-tiche altrettanto eccezionali. L’esperienza estetica si fa così sinonimo di esperienza autentica, mentre è proprio della possibilità di quest’ultima e dell’esperienza in generale ciò di cui, nella diagnostica oscillatoria di estetizzazione e anestetizza-zione, si lamenta la perdita. In questi casi non ci si accorge, però, che il leit-motiv diagnostico è una conseguenza del modello speculativo sog-giacente. Quel modello, di cui appunto estetizzazione e anestetizzazione rappresentano rispettivamente l’esplosione e l’implosione. Il modello esplode o implode per un sovraccarico di investimenti teorico-specula-tivi nei suoi confronti e di conseguenti attese nei confronti della realtà. Siamo forse di fronte – analogamente a quanto avviene nei mercati finanziari – all’esplosione o all’implosione di una bolla speculativa ali-mentata dalla forza d’inerzia delle tradizioni filosofiche e dall’eccesso di previsioni negative. Un primo passo critico (che non può essere svolto qui) consisterebbe nel riconoscere la relatività e la problematicità di questo punto di vista che, a partire da un lettura ipersemplificata della contemporaneità (ad esempio nella forma di un circolo infernale tra globalizzazione, accelerazione tecnologica, post-humano e dominio di un fantomatico pensiero unico) evoca miticamente un senso autentico dell’identità umana di cui l’esperienza estetica in relazione all’Arte (con la maiuscola) significherebbe e l’espressione e il compimento. Anche una versione più moderata di questa lettura mitica della modernità e della ipermodernità quale quella di Marquard (esplicitamente collegata

all’estetica della ricezione jaussiana) ne condivide i difetti di fondo: alla perdita di esperienza tipica del Moderno (alla sua «trasformazione in un puro e semplice mondo d’attesa» 3) «il mondo dell’esperienza viene conservato nella dimensione estetica» a condizione, certo, che l’estetico sia inteso come «regno poetico-ermeneutico» e che, di conseguenza, l’esperienza estetica sia identificata come esperienza dell’arte da tra-sformarsi in «arte dell’esperienza». Non casualmente Marquard, nel saggio cui ho finora fatto particolare riferimento, attacca in maniera esplicita le tesi di Dewey contenute in Arte come esperienza: «L’attuale situazione congiunturale dell’esperienza estetica compensa quindi […] la crisi dell’esperienza della vita che caratterizza la modernità e il nostro tempo. […] Infatti, a poco serve scoprire, come Dewey, ciò che vi è di estetico nell’esperienza della vita quotidiana, se poi si vive in un’epoca che, all’opposto, deve ancora trarre in salvo l’esperienza della vita quo-tidiana nella dimensione estetica pur di poterla conservare. Un’opera-zione che, invece, riesce […] unicamente quando la dimensione estetica (l’arte e la sua ricezione) vuole e concepisce se stessa, appunto, come esperienza» 4.

Contrariamente a quanto intende Marquard, a me pare invece che il metodo scelto da Dewey, ossia quello di spiegare il senso dell’arte per la vita umana a partire dalla primarietà dell’esperienza come «com-mercio attivo e vigile con il mondo» 5, sia l’unico corretto e sensato. Innanzitutto perché muove da una nozione di esperienza come me-dium implicativo della continua interazione tra la «creatura vivente» (il sistema-organismo) e le condizioni ambientali, anziché come «reme-dium contro l’estraneità al mondo» 6. Rispetto al criptognosticismo di Marquard, che suppone un soggetto già in sé definito in opposizione all’estraneità mondana, la prospettiva naturalistica, ma non riduzioni-stica, di Dewey offre la possibilità metodica di intendere l’esperienza come un continuum geneticamente anteriore al costituirsi di una sog-gettività autoriflessiva. E ciò permette di disporre, relativamente alla stessa definizione di “esperienza estetica”, le tre nozioni cardine della teoria della ricezione jaussiana – poiesis, aisthesis, katharsis – nella loro giusta sequenza sia dal punto di vista genetico-evolutivo sia da quello logico-concettuale, mettendo al primo posto l’aisthesis. L’arte nella sua significatività estetica la si comprende, infatti, a partire dalle dinamiche percettive che costituiscono ogni esperienza del mondo. Sono queste, nella loro intrinseca e non aggiuntiva esteticità, a costituire il germe dell’arte 7 e non solo dell’arte cosiddetta bella, ma di ogni arte, anche di quella che Dewey chiama «tecnologica» 8. Di conseguenza l’estetico, in quanto qualità «valutativa, percettiva e fruitiva» dell’esperienza, è più ampio del fatto artistico, seppur stia con esso in una relazione di continuità genetica e di discontinuità logica.

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e alla costitutività dell’estetico in opposizione al suo carattere speciale e compensativo, possiamo anche tentare un’approssimazione analitica a quelle che ho chiamato patologie dell’esperienza estetica contempo-ranea. Con tre precisazioni, e conseguenti limitazioni, aggiuntive. La prima riguarda il vigere di una qualche connessione, stretta o remota non importa, tra determinate patologie e la tesi dell’estetizzazione/ anestetizzazione. Ciò non fa altro che confermare il fatto che le teorie estetiche non solo implicano credenze e atteggiamenti nei confronti del mondo, ma spesso li influenzano, facendo leva su disagi effettivi e propensioni nei suoi confronti. La seconda precisazione è relativa all’esclusione dalla mia analisi di patologie per così dire sistemiche, riguardanti il Sé come sintesi biologico-culturale, limitandomi a quelle che riguardano l’esercizio di quella che chiamerei meta- funzione este-tica. La terza precisazione concerne il metodo di rilevamento: esclude-rò qualsiasi approccio direttamente fenomenologico, assumendo come terreno d’analisi atteggiamenti e correlativi contenuti proposizionali (nel presupposto che quest’ultimi dicono sempre qualcosa circa il pae-saggio interno di cui sono espressione). Come si capirà, il mio scopo non è tanto quello di opporre una versione corretta dell’esperienza estetica (ciò significherebbe ancora difendere il mito dell’esperienza estetica come “esperienza autentica”), quanto piuttosto di verificare, a partire dall’interpretazione di alcuni fenomeni sintomatici (e degli atteggiamenti che implicano), se, in che misura e a quali condizioni possiamo delineare un modello antropologicamente costante e quindi transculturale della (meta)funzione estetica nella costituzione mediale dell’esperienza (nel suo essere un medium prima ancora che un

reme-dium). Per ragioni di economia mi limiterò a tre fenomeni-credenze

esemplari anche per la loro diffusione: lo psichismo, l’estetismo e l’eso-tismo. Nella convinzione, a quest’ultimo proposito, che sia giunto il momento di affrontare il problema estetico non solo a partire da casi per così dire estremi, che eccedono la media degli atteggiamenti este-tici, ma anche da considerazioni circa quel che avviene “innanzitutto e per lo più”. La prospettiva, insomma, è quella di un’estetica capace di cogliere la qualità nella quantità (un’estetica quantitativa se volete) indagando lo stabilizzarsi di preferenze, valutazioni, giudizi e rifiuti estetici di lungo periodo. Nell’ipotesi che il gusto non possa esser considerato del tutto e radicalmente artificiale (frutto, cioè, soltanto di dispositivi culturali e, dunque, privo di una qualche base biologi-ca) e che, comunque, debba esser rivista in senso concettualmente accorto la linea di confine tra naturale e artificiale. In tale direzione ritengo necessario ripensare – anche contro quanto da me sostenuto in precedenza – la definizione kantiana di arte in senso generico come «produzione mediante libertà» 9. Forse dovremmo sostituire “libertà” con “intenzionalità” e prepararci a riconoscere che noi umani a questo riguardo non siamo soli (questo ovviamente non c’entra niente con le

fantasie intorno ai primati che fanno simil-Picasso o simil-Pollock: in merito condivido pienamente quanto sostenuto in maniera esemplare da Lucia Pizzo Russo 10).

Prima di impegnarmi in una pur breve analisi di psichismo, este-tismo e esoeste-tismo ho però l’obbligo di esplicitare cosa intenda qui per “contemporaneità” o almeno quali tratti salienti del presente ritenga significativi sotto il profilo dell’esperienza estetica. Quanto dirò po-trà sembrare ovvio, ma preferisco l’ovvietà all’oscurità. I tratti salienti sono: (1) il globalismo ovvero l’unificazione sistemica del mondo, (2) lo sviluppo pervasivo di una infosfera e delle relative interfacce intel-ligenti di accesso ad essa, (3) la modellizzazione ipertecnologica del-l’ambiente e della vita quotidiana, (4) la revisione da parte della ricerca scientifica di alcuni tradizionali confini tra natura e cultura, (5) l’in-treccio pluralistico tra culture e visioni del mondo e il relativismo de

facto che ne consegue 11. Rispetto a questo elenco, aggiungo un’unica osservazione. Se il globalismo, che corre sul filo immateriale-concreto del sapere tecnologico-informatico e su quello materiale-astratto del-l’economia finanziaria, unifica il mondo e più precisamente i mondi vitali e di senso, di cui il mondo costituisce l’unità differenziale, tale unificazione riguarda solo la sfera comunicativa (caratterizzata dalla velocità e dall’ubiquità dei processi di produzione e di accesso all’in-formazione), trasformandola in vettore di ogni altro processo e di ogni altra trasformazione. Ciò significa anche che l’attuale pervasività della sfera comunicativa non produce identità, ma rivela differenze: differen-ze di forme di vita, di tradizioni culturali e di modi e tempi nell’ade-guarsi e nell’interagire con la facies tecnologica dell’ambiente e con l’interfaccia di accesso all’infosfera. Non siamo insomma di fronte ad una omogeneizzazione del paesaggio umano. Semmai di fronte al fatto che tradizioni culturali e forme di vita remote e distanti si sono fatte estremamente prossime, in un intreccio da cui non è assente il conflitto (in tutte le sue versioni). Di qui la questione pratica ed etica, ancor prima che teorica, del pluralismo e del relativismo in relazione al pro-blema dell’identità umana e delle sfide scientifiche e tecnologiche cui è esposta. Sotto il profilo dell’esperienza estetica ciò dovrebbe invitare a relativizzare alcuni assunti generalizzanti e ad abbandonare alcune chiavi interpretative (ad esempio quelle che identificano la dimensione estetica dell’esperienza con l’arte, anzi con il mondo dell’arte nel suo senso istituzionale, e con la fruizione delle opere). Da questo punto di vista l’esperienza estetica di uno spettacolo nel teatro parrocchiale ha un grado di significatività pari alla partecipazione alle performances più trendy. Sono infatti convinto che proprio oggi abbiamo bisogno di una teoria che miri a spiegare tanto la prima esperienza quanto la seconda, senza la pretesa di ordinarle in una gerarchia di valore. Que-st’ultimo è il compito di una critica e non di un’estetica.

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caratterizzare le tre patologie dell’esperienza estetica enumerate innan-zi. Per psichismo intendo tutti quegli atteggiamenti estetici che fanno precipitare la relativa esperienza nell’orbita del vissuto. Di conseguenza la misura della verità dell’Erfahrung estetica è offerta essenzialmente dall’Erlebnis. Anzi: l’esperienza estetica non è, alfondo, altro che

Erleb-nis. E ciò nel presupposto che il senso dell’identità umana sia definibile

in maniera puramente intrapsichica. La manifestazione più evidente dello psichismo si può così individuare in una difficoltà ad orientarsi in ambienti poco familiari, non riscaldati dal tepore della consuetudine e non confortati dai legami della tradizione. Riducendo il simbolico, di cui l’esperienza estetica è grembo fecondo, a contrassegno e/o con-giungimento con l’originario, lo psichismo manifesta un acuto disagio, fino al disadattamento, nei confronti della modellizzazione tecnologica dell’ambiente. Psiche diviene l’antitesi di techne: la techne è vista come un ingombrante complesso protesico che complica inutilmente, quando addirittura non impedisce, il ritorno in sé. Degradato a mezzo o feti-cizzato a destino il medium tecnologico si trasforma nell’altro rispetto all’umano: nell’antitesi della sua dimensione miticamente “naturale” o “autentica”. Più che svilupparsi come un’effettiva relazione l’esperienza estetica tende qui a invilupparsi sul confine di una regressione interio-re. Lo psichismo conseguente tende perciò a consegnare l’estetico in quanto vissuto all’ineffabile, il senso al sentimento. Caricando l’atteg-giamento nei confronti dell’esterno dell’aspettiva di una rassicurante conferma rispetto alla dimensione soggettiva del vissuto, lo psichismo vive sempre negativamente le dinamiche trans-formative dell’esperienza. Così nei confronti del presente si sente sempre in perdita, investendolo di un eccesso di negatività e di catastrofismo. E perciò tale ateggia-mento genera nevrosi e talvolta depressione, oscillando appunto tra la «fatica di essere se stessi» 12 e l’impossibilità di un bilancio attivo nel commercio estetico con l’ambiente. Unica requie, in questa nevrotica oscillazione, è offerta dalla poesia. Qui l’arte può ancora difendersi, seppur residualmente, ed offrirsi come un dialogo interpsichico tra io e tu. Alla barbarie dei linguaggi artistici contemporanei lo psichismo oppone un senso ‘poetico-sentimentale’ dell’arte e dell’esperienza este-tica, dove il conoscere e il sentire stanno in perpetuo disaccordo.

Simmetricamente antitetico allo psichismo è l’esotismo. In questo caso la dinamica della relazione estetica è tutta consegnata ad un puro “fuori” 13: a un’esteriorità assoluta. Quanto più l’oggetto è percepito come astratto dalla “prospettiva del mondo” ed estraneo alla cerchia delle relazioni e degli abiti che definiscono la mia forma di vita, tanto più è prediletto esteticamente. Mentre per lo psichismo la misura del valore estetico è una prossimità dove il familiare scivola insensibilmente nell’intimo, per l’esotismo il valore è dettato dalla distanza. Perciò l’og-getto estetico è desiderato in quanto “assolutamente” distante e, quin-di, sigillato in se stesso. Non importa che la sua distanza sia geografica

o culturale, basta che opponga resistenza a rivelare i fili e le relazioni che lo connettono al mio mondo. Bloccato nella sfera del desiderio, il senso dell’estetico implica qui la chiusura al cognitivo. Nell’esotismo si persegue, così, l’utopia di un oggetto “in sé”, perfetto nel suo isola-mento e distante perfino dal proprio ambiente da cui emerge, appunto, come fosse un’isola. In quanto emergenza assoluta l’oggetto esotico è dunque indifferente al problema del confine tra physis e techne, tra vita e artificio. Chi insegue l’insula felix dell’oggetto esotico trascura che, al fondo, ogni isola è tale, ma solo relativamente.

Sempre in balia della pulsione a fare della vita stessa un’opera d’ar-te l’esd’ar-tetismo 14 tende invece a rimuovere i confini tra esperienza in generale (quella che con Paolo D’Angelo potremmo anche chiamare «esperienza quotidiana» 15) ed esperienza estetica. Il motivo sta nel fatto che surroga la (meta)funzione estetica, e l’esperienza che la pone in esercizio, nel suo input iniziale: la sensazione. Trascurando la dif-ferenza (pur micro-logica e micro-temporale) 16 che intercorre tra la pluralità tendenzialmente caotica degli input sensoriali e le selezioni percettive, l’estetismo persegue una rotondità e una definitezza della sensazione, dove la significatività precipiti ad un grado zero. Ricercan-do una fantasmatica sensazione pura, l’estetismo riduce la qualità in gioco nella dinamica percettiva dell’esperienza estetica in una qualità della sensazione che si traduca in un senso senza significati. Per questo il modo in cui la sensazione si presenta nell’estetismo si fissa spesso nella forma dello choc. È un aspetto quest’ultimo ben colto da Dewey e proprio nel suo carattere patologico:

La connessione tra qualità e oggetti – scrive in Arte come esperienza – è intrinseca in ogni esperienza dotata di significatività. Se si elimina questa connessione non rimane che una successione di fremiti transitori priva di senso e non identificabile. Quando facciamo “pure” esperienze di sensazioni esse ci capitano attirando d’improvviso e violentemente l’attenzione; sono shock, e perfino gli shock servono normalmente a su-scitare la curiosità di indagare la natura della situazione che ha improv-visamente interrotto la nostra occupazione precedente. Se la condizione persiste senza cambiamenti e senza che si sappia calare ciò che si sente in una proprietà dell’oggetto, il risultato è pura esasperazione – una cosa assolutamente distante dal godimento estetico. E non è promettente fare della patologia della sensazione la base del godimento estetico 17.

Trasformando e trans-valutando l’esperienza estetica in un ethos vero e proprio, se non addirittura in un’etica, l’estetismo traduce l’at-titudine attenzionale nell’intenzionalità (in senso forte) di un’attesa: attesa che la sensazione si faccia forma. Ma l’eidos è una promessa che la pura sensazione non può mai mantenere. Di qui l’esasperata tensione meta-eidetica dell’estetismo, talvolta nella ricerca dell’informe fino alla regressione materica. Quando non incontra thanatos come la

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vera perfezione di eros (il volto in-significante di cui è in cerca) l’este-tismo non può far altro che rimettersi ad attendere il prossimo shock, innalzando progressivamente l’asticella che misura il grado della sua intensità. E poiché l’asticella che sposta ha il colore grigio dell’abitu-dine, spesso l’estetismo finisce per consegnarsi alla noia ovvero al suo nemico mortale.

Rispetto a queste tre patologie dell’esperienza estetica mi guardo bene dal proporre una qualsiasi versione corretta o “sana” di esperien-za estetica, opponendo un dover essere al loro essere. Mi si potrebbe anche obiettare che l’essere di queste patologie riguarda la possibilità

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