• Non ci sono risultati.

Abilità linguistica e competenza comunicativa

PARTE TERZA

45.2. Abilità linguistica e competenza comunicativa

Consideriamo ora il caso degli usi nell'italiano contemporaneo dei termini giusto, non giusto, ingiusto, giustezza, giustizia, ingiustizia nell'ambito delle diverse strategie discorsive. Piuttosto che mettere il discente di fronte ad un apodittico "così è e non si discute" l'educatore linguistico dovrà cominciare con il far constatare che due frasi apparentemente omogenee come 1) è giusto quel che hai detto e 2) è giusto quel che hai fatto divaricano se si procede a sostituire l'aggettivo giusto con il corrispondente sostantivo derivato. Nel primo caso, infatti, avremo La giustezza di quel che hai detto; nel secondo, invece, La giustizia di quel che hai fatto. Bisognerà allora far constatare al discente che le frasi 1) e 2), di fatto identiche sul piano sintagmatico, sono ben diverso nel loro statuto testuale, in quanto corrispondono, con le loro "riscritture" lessicali, a vettori pragmatici diversi (con rinvio alla classica differenza tra il "dire" e il "fare"). Ma il

discente dovrà essere indotto ad altre constatazioni: ad esempio, che è possibile trasformare negativamente le due frasi, in quanto sia 1) sia 2) ammettono un'identica riformulazione (non è giusto...); o ancora che nel caso di 2) la variante negativa è ingiusto... non crea diversità semantica, mentre nel caso di 1) non è giusto quel che hai detto può non essere perfettamente identico a è ingiusto quel che hai detto. Il piccolo dilemma si risolverà facendo constatare al discente che nel termine giusto sussiste il fenomeno dell'ambiguità semantica, in quanto esso sincretizza i significati di "esatto" ed "equo", mentre da un punto di vista pragmatico è necessario optare o per l'uno o pe r l'altro. Dopo questa "scoperta" il discente capirà meglio perché la norma italiana ammetta il lessema negativo ingiustizia "ciò che non è equo", ma non ammetta il lessema negativo *ingiustezza "ciò che non è esatto", giacché le due parole al positivo han no morfologia derivativa e statuto semantico diversi. Come si vede, tutte queste informazioni per il discente, che sviluppano la sua abilità linguistica e la sua competenza comunicativa, non vengono "imposte" mediante il modello paradigmatico della grammat ica normativa ma risultano "acquisite" mediante i modelli sintagmatici dell'educazione linguistica.

45.3. Il "Libro d'italiano" di R. Simone (1976)

Di questa opera, che costituisce un esempio tanto buono quanto precoce (1976) di ciò che dobbiamo intendere per "educazione linguistica", sarà sufficiente ricordare e commentare brevemente la successione tematica, che corrisponde a "passaggi" o "movimenti" di una strategia operativa che mira a porre il discente in una condizione di piena consapevolezza rispetto al "bene" da conquistare. Simone tratta come I argomento "La lingua che parliamo", mostrando quali siano gli aspetti essenziali della lingua ed insistendo sulla "regola della comunicazione", cioè che si parla per comunicare (capire e farsi capire). Come II argomento egli cerca di mostrare "Come comunichiamo" (sistemi, condizioni, elementi della comunicazione: si noti l'opportuna insistenza su questa dimensione pragmatica, che inchioda educazione ed apprendimento sul piano della concretezza processuale). Il III argomento entra nel vivo: "Una lingua italiana, molte lingue italiane" fa riflettere sul pluralismo linguistico, sulla mutabilità delle lingue, sui rapporti tra le lingue, sull'italiano e sui suoi dialetti, sulle classi sociali e l'uso della lingua, su lingua comune e lingue speciali, su italiano comune e italiano regionale. Simone in conclusione tratta: "IV. Alcuni aspetti del significato. V. Ordine del pensiero, ordine delle parole. VI. Gli usi dell'italiano. Alcuni materiali per l'osservazione lin guistica" con una significativa successione nella trattazione di aspetti semantici, sintattici e pragmatici della lingua italiana. Per noi risulta oltremodo significativo, proprio in rapporto all'argomento della lezione precedente, il richiamo finale a "lo stile di ognuno e lo stile di tutti".

45.4. "Per una educazione linguistica razionale"

Questo è il titolo di un'opera collettiva a cura di D. Parisi (1979), che è diventata un testo di riferimento per l'operazione linguistica così denominata. Qui non è possibile occuparsi dei suoi contenuti (ma alcune tematiche, per la loro rilevanza operativa, vanno segnalate: scopi del parlare, comprensione dei brani, scritto e parlato, il riassunto, la punteggiatura, il

contesto scolastico, etc.), mentre ci sembra im portante prendere in considerazione alcuni assunti del curatore. In primo luogo egli denuncia il fatto che "la nuova educazione linguistica" è "ancora sostanzialmente da costruire "nel quadro di una pedagogia che tende a rinnovarsi. E' vero che certi "orientamenti generalissimi" sembrano acquisiti, ma è pur vero che sussiste un "divario" tra essi e "i problemi quotidiani dell'insegnamento, i problemi dei curricoli, degli strumenti didattici, dei metodi di intervento e degli strumenti di verifica, dell'aggiornamento e così via", per cui "il risultato è che vi è grande incertezza e talvolta confusione in coloro che insegnano lingua". Parisi giustamente mette in guardia i linguisti armati dei loro strumenti interpretativi e descrittivi (fonologia, sintassi, cambiamento linguistico) dall'affrontare la "pedagogia linguistica" con l'illusione di essere in possesso di armi infallibili: infatti i problemi da affrontare -e sono quelli più importanti- risiedono per lo più in dimensioni non linguistiche del linguaggio. P iù avanti lo stesso Parisi "scopre le carte": "...gli aspetti del linguaggio considerati in questo volume non riguardano la grammatica. Si tratta essenzialmente di tre aspetti: a) le caratteristiche che distinguono la comunicazione scritta da quella parlat a, b) la natura di alcune abilità linguistiche quali la comprensione e il riassunto dei brani, e c) gli aspetti scopistici dell'attività di comunicare con il linguaggio".

45.5. Prospettive (e retrospettive)

Giustamente G. R. Cardona, Dizionario di linguistica, Roma 1988, s.v., tirando le somme sull'educazione linguistica nella sua accezione attuale, sottolinea che essa si risolve in "un potente strumento di sviluppo conoscitivo e di emancipazione sociale" che è in grado di "stimolare le capacità espressive, creative, analitiche e conoscitive del discente, mirando soprattutto a metterlo in grado di avvalersi in modo diversificato e appropriato delle sue conoscenze linguistiche". Da questa constatazione muovono alcune prospettive estremamente importanti connesse con un aggancio dell'educazione linguistica alle cosiddette "scienze cognitive", che a loro volta si fondano sulla psicologia cognitivista, una originale miscela di comportamentismo e di mentalismo (sul piano metalinguistico si potrebbe pensare ad una posizione intermedia tra Bloomfield e Sapir!). Le scienze cognitive (secondo il programma espresso nel 1977 nell'omonima rivista di "fondazione", poi riformulato da Normann due anni dopo in un congresso di "definizione") riguardano tra l'altro intelligenza naturale e artificiale, tecnologie dell'educazione, rappresentazione delle conoscenze, comprensione del linguaggio, risposta alle domande, apprendimento, etc. e già questo elenco, da solo, è capace di giustificare l'inserimento dell'educazione linguistica in questa prospettiva più ampia.

Ma, se questa è la via per avvalorare il carattere di "sviluppo conoscitivo" dell'educazione linguistica, non meno importante è il richiamo, sopra espresso, all'"emancipazione sociale". In senso retrospettivo vogliamo citare, in tal senso, l'importanza, messa in rilievo da C. Marello, "Lessico ed educazione popolare", Roma 1980, dei dizionari metodici italiani dell'ottocento, tesi a fornire -ovviamente sul piano lessicale- vie di promozione linguistica ai dialettofoni che si accostavano, secondo varie competenze, alla lingua italiana. La Marello fa notare che nella fase primaria della storia della scuola elementare (tra il 1860 e il 1867) predominò -con gravi disagi- l'insegnamento grammaticale, in quanto solo propedeutico allo studio del latino nelle classi superiori, ma poi -a partire dal

1888- si fece strada l'insegnamento "oggettivo", basato proprio sulla lessicografia sistematica ottocentesca (ad es. nella prima classe elementare l'insegnamento oggettivo propone: nomi e qualità di oggetti, che si trovano nella scuola; nomi e qualità degli oggetti più importanti che si trovano in casa; parti del corpo umano; animali domestici; divisioni principali del tempo; fenomeni naturali più importanti. Assai interessante è la progre ssione della competenza lessicale nelle classi successive). Si tratta, come ognuno può vedere, di una vera e propria "educazione linguistica" antesignana di temi ed obbiettivi di quella attuale.

CAP.15

Implicazioni: politiche linguistiche, standardizzazi one, lingue artificiali

Lez.46: Politiche linguistiche

46.1. Manzoni e l'unificazione linguistica dell'Italia. 46.2. Politiche linguistiche nell'antichità. 46.3. Il nazionalismo linguistico e il caso del fascismo. 46.4. Il linguaggio politico o "politichese". 46.5. Cenni sul "sessismo" linguistico. 46.6. Dimensioni internazionali.

46.1. Manzoni e l'unificazione linguistica dell'Italia

Le implicazioni tra lingua e politica e le conseguenti operazioni linguistiche politicamente orientate sono tutt'altro che rare. A questo proposito viene subito in mente la posizione di Manzoni riguardo all'unificazione linguistica dell'Italia ( una d'arme, di lingua e d'altare,/di memorie, di sangue e di cor), che si riassume nella convinzione che la diffusione del toscano parlato dalle persone colte presso tutti i ceti di parlanti della penisola fosse l'unico mezzo per liberare ed insieme unificare definitivamente l'Italia (si ricordi il liberi non sarem se non siam uni, verso "brutto" a giudizio dello stesso Manzoni, che però lo innalzava al rango di cartello ideologico). Quella del Manzoni è una vera e propria operazione linguistica, contestata per certe sue rigidità aprioristiche dal grande glottologo Ascoli che, come si ricorderà, trovava sbagliato prendere "a balia" o "a maestro" un canone linguistico consacrato nel Novo vocabolario secondo l'uso di Firenze patrocinato da Manzoni. Del resto la stessa "questione della lingua", qui già trattata in altra sede, non è riducibile a mera disputa estetica per tutto l'arco del suo svolgimento. Basti ricordarsi della nozione di "lingua cortigiana" (quella in uso presso la corte pontificia) patrocinata da Calmeta in pieno cinquecento con riferimento ad un "polo" di rilevanza culturale ma soprattutto politica qual era appunto Roma.

Nel mondo antico colpisce il vivace contrasto tra il policentrismo linguistico di alcuni grandi imperi orientali (persiano, ittito) e il monocentrismo ebraico, poi replicato in quello greco-romano. Si ricordi che le iscrizioni a grafia cuneiforme dei re achemenidi sono redatte in tre lingue (persiano, la lingua della dinastia dominante; accadico, la lingua internazionale dell'epoca di originaria pertinenza etnica assiro -babilonese; elamico, la lingua più antica dell'area) a riprova del fatto che lingue e culture diverse possono non solo coesistere in una organizzazione statale, ma diventare addirittura lingue ufficiali con prestigio equipollente. Analoga testimonianza rendono gli archivi plurilingui ittiti (anch'essi a grafia cuneiforme, cioè espressi in un codice grafico palesemente "internazionale"): essi ci restituiscono non solo l'ittito, lingua indeuropea della popolazione dominante nell'Anatolia del secondo millennio a. C., ma anche altre lingue indeuropee (luvio, palaico) e non indeuropee (currito, cattico). Anche in questo caso si ha l'impressione che l'egemonia linguistica non sia perseguita o, almeno, non costituisca un valore primario.

Tutt'altro atteggiamento si ritrova nell'etnocentrismo ebraico: il mito "etnolinguistico" della "torre di Babele" marca, come si è già visto, il rifiuto del plurilinguismo, visto addirittura come manifestazione angosciosa ed eloquente della punizione divina dell'umana superbia; né diverso in fondo è l'etnocentrismo grec o, che bolla con bárbaros "balbuziente" chiunque non parli la lingua di Omero. In ogni caso sia Ebrei sia Greci esercitano una politica linguistica "negativa" nei confronti dell'"alterità" etnolinguistica, anche se i secondi -grazie al loro prestigio culturale e all'espansione politica della grecità in epoca ellenistica- hanno poi esercitato di fatto una straordinaria egemonia linguistica su larga parte del mondo antico. In questa prospettiva essi risultano storicamente superati solo dai Romani, la cui lingua (il latino, una delle molte lingue dell'Italia antica) ebbe in sorte di diventare la lingua di un impero a scapito delle varietà linguistiche preesistenti. In realtà l'imperialismo linguistico dei Romani si disegna eloquentemente attraverso l'aspirazione e talvolta le richieste formali dei popoli sottomessi di poter usare il latino come lingua ufficiale. L'uso del latino, in tal senso, sanciva pienamente i diritti dell'acquisito civis romanus.

46.3. Il nazionalismo linguistico e il caso del fascismo

Il concetto di lingua nazionale viene promosso, insieme a quello di "nazione", durante e dopo l'epoca napoleonica ed è strumento politico, nel corso dell'ottocento, di primaria importanza per la promozione di vari "risorgimenti", che spesso degenerano in v eri e propri nazionalismi linguistici. Questi si manifestano in una esagerata difesa di una presunta "purezza" della lingua e nel conseguente rifiuto dei termini stranieri, anche quando essi siano ormai ben radicati nella lingua che li accoglie.

Certo si può sorridere di fronte al goffo (e per niente... "spiritoso") tentativo di epoca fascista di sostituire l'insostituibile whisky con il poco credibile spirito d'avena nel quadro di una opinabile "autarchia" del vocabolario. D'altra parte la lotta del fascis mo contro le parola straniere conosce altri episodi meno "divertenti", quale quello di tassare i commercianti che esponevano insegne con parole straniere o regolare i comportamenti linguistici dei funzionari statali mediante vere e proprie circolari in cui certe operazioni

linguistiche più che proposte erano imposte. La politica puristica del fascismo diventa particolarmente intensa verso la fine degli anni trenta e sfocia dieci anni dopo nella creazione di una Commissione "per l'italianità della lingua", c he nel giro di tre anni (1940-1943) pubblica quindici elenchi di sostituti lessicali italiani per altrettante parole straniere. Su un piano positivo (ma, a scanso di equivoci, sarebbe meglio dire "propositivo") Mussolini stesso si propone come modello di c omportamento linguistico: espressioni ormai desuete come chilometrico per indicare "straordinariamente lungo" e bagnasciuga per indicare la "spiaggia marina al punto di contatto tra terra ed acqua" sembrano esser frutto del fertile ingegno linguistico del Duce, in ogni caso preoccupato non solo di salvaguardare la "purezza dell'idioma patrio" ma anche di rimpolparlo adeguatamente.

46.4. Il linguaggio politico o "politichese"

Abbiamo accennato ai "fasti" della politica linguistica del fascismo: dobbiamo or a, in modo altrettanto sintetico, soffermarci sulla prassi di linguaggio politico che ha caratterizzato quella che in questi precari anni novanta si usa chiamare prima repubblica (già questa espressione fa parte del "politichese" e si basa su modelli franc esi che presentano lo stesso congegno sintagmatico). Il "politichese" (la conclamata "seconda repubblica" ne ha uno suo, discutibile almeno quanto quello che crede di poter discutere) si basa soprattutto su quello che si usa chiamare, con riferimento agli stereotipi linguistici dei giornali, "linguaggio prefabbricato". Questo significa che esso ricorre a certe formule fisse, la cui valenza comunicativa non è mai quella corrispondente al significato letterale. Se, ad esempio, si dice una pausa di riflessione, questo stereotipo comunica in realtà che l'accordo tra le parti non è stato ancora raggiunto ma che si spera ancora che questo avvenga prima o poi (l'espressione era tipica della "prima repubblica"); se invece si bolla con parole di fuoco il consociativismo, con questo termine non ci si riferisce alla nefandezza del "consociarsi" o dell'"associarsi" in assoluto, ma ad una certa compartecipazione indebita delle opposizioni agli "utili" della maggioranza (si tratta di espressione emblematica della "seconda repubblica"). In realtà il "politichese" è in larga misura un crittoletto (o linguaggio cifrato), che ha le sue regole non scritte ma largamente condivise dai cosiddetti addetti ai lavori (anche questo modo di dire è "politichese": ad es. un'opinione espressa dalla massima carica dello stato, purché sia sufficientemente pepata e per niente attenta alle esigenze della riservatezza, diventa una esternazione (la costernazione, invece, la si prova di fronte ad un delitto che ha per vittime alcuni servitori dello stato troppo dediti al loro dovere).

Naturalmente si potrebbe continuare con queste considerazioni, dato che i materiali non mancano, anzi vengono "confezionati" quotidianamente dalla stampa e dagli altri mezzi di comunicazione di massa. Ma giova piuttosto ricordare che il crittoletto di cui stiamo parlando (già di per sé poco trasparente, per usare un'espressione del "politichese") diventa ancora più oscuro quando si converte in idioletto (cioè in fatto idiosincratico) di un singolo uomo politico. Di fronte a tanta difficoltà non ci resta allora che il... pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà , ma anche questa è una citazione di "politichese", per di più di un "politichese" idiosincratico (dato che appartiene ad un politico molto noto della "prima repubblica").

46.5. Cenni sul "sessismo" linguistico

Molto interessante appare un altro aspetto dell'operare linguistico in campo politico, che si inscrive nella lotta per la parità di diritti tra i sessi e consiste nella volontà di rimuovere dalla lingua tutte quelle espressioni che gettano una luce ambigua o addirittura negativa su tale parità. Si consideri -per affrontare subito il problema su un piano molto generale - l'uso del termine uomini, che coincide non solo con il genere grammaticale "maschile" ma designa anche in partenza gli individui di sesso maschile: tale uso neutralizza, come si sa, l'opposizione semantica "maschio vs femmina" e fa sì che un termine di genere maschile venga impiegato per designare indifferentemente tutti gli ess eri umani (caso analogo: studenti, professori, termini non casualmente di genere maschile, usati per designare sia i maschi sia le femmine). Si noti che, di conseguenza, termini come maschio e femmina si caricano di connotazioni sessuali specifiche (magari con rinforzi ulteriori, come l'uso -ad esempio- del più allusivo macho in luogo del banalizzato maschio).

L'attenzione sul "sessismo" linguistico svela facilmente altri meccanismi di faziosità: consideriamo il caso della terminologia istituzionale e -da una certa parte- il disagio di fronte a termini come la sindaca, la prefetta, la ministra per designare cariche tradizionalmente ricoperte da rappresentanti del sesso maschile (qui si evita, a bella posta, il termine uomini, anche se usato in modo proprio); o ancora -ma dalla parte opposta- il disagio di fronte ad espressioni come il senatore Maria Bianchi invece del più che legittimo la senatrice Maria Bianchi o il buffo contrasto, nella frase che segue: la

dottoressa (titolo di studio da lungo tempo conseguito dalle femmine) Maria Bianchi,

direttore amministrativo (carica evidentemente poco usuale tra le femmine). In queste condizioni si può capire come un certo femminismo militante abbia lanciato vere e proprie "crociate" contro il "sessismo" linguistico e che si ano stati pubblicati veri e propri "manuali" per l'uso non sessista della lingua. Ma se i comportamenti linguistici sono, come abbiamo imparato, legati a designazioni, significazioni e comunicazioni, che sono a loro volta istanze di rappresentazione lingui stica nel quadro di contesti storici, istituzionali e situazionali, è evidente che la "guerra" per una lingua non sessista va combattuta e vinta a monte dei fatti linguistici, cioè contro situazioni, istituzioni e condizioni storiche di chiara marca sessista.

46.6. Dimensioni internazionali

L'internazionalismo linguistico contemporaneo si riconosce agevolmente nei casi, sempre più frequenti, di società plurilingui e multiculturali: si pensi, in Europa, alla presenza dei turchi in Germania e degli arabi in Francia, ma non si dimentichi che anche in Italia il fenomeno degli alloglotti immigrati sta diventando imponente. Nascono così nuove

minoranze linguistiche, con problemi in gran parte diversi rispetto a quelli delle vecchie

minoranze, spesso sufficientemente inserite nel contesto socioculturale della lingua egemone. Di fronte a questi problemi gli operatori linguistici sono chiamati a dare risposte non generiche e soprattutto non unilaterali: sarebbe infatti un grave errore pensare che tutto si risolva con l'assorbimento linguistico dell'alloglotto o, peggio ancora, con una sua

ghettizzazione. La via di uscita è invece la coesistenza e la promozione sociale e culturale dei pluralismi etnolinguistici insorgenti. Lo stesso discorso vale per situazioni analo ghe (ad es. Stati Uniti, Canada). Purtroppo l'assenza di politiche linguistiche adeguate, insieme ai sempre risorgenti etnocentrismi ed integralismi religiosi, provoca spesso tendenze inverse: non è il caso di andare a scomodare paesi extra -europei, dove -comunque sia- le responsabilità europee sono spesso enormi; basterà citare certe sconcertanti iniziative legislative in Francia, manifestate in termini di un' "anglofobia" dura a morire e in ogni caso incompatibile con il conclamato abbattimento delle fron tiere nella cosiddetta "Europa unita".

Non dobbiamo dimenticare, in tal senso, che gli imperialismi linguistici striscianti da una parte e le identità linguistiche nazionali troppo esaltate dall'altra fanno parte di politiche linguistiche che in Europa come in Asia, Africa e America Latina sono rivolte a fare di uno strumento di comunicazione essenziale quale è la lingua una sorta di "arma impropria" molto potente per fini spesso inconfessabili. Invece una politica linguistica possibile (ed auspicabile) rimane quella che non mortifica e non esalta le identità etnolinguistiche ed etnoculturali, ma ne promuove incessantemente il dialogo e la coesistenza.

Lez.47: Standardizzazione