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21.2.1. La posizione di Dante. 21.2.2. La "questione della lingua" nel rinascimento. 20.2.3. Dalla "Accademia della Crusca" alla "lingua dell'Italia unita". 20.3. La posizione di Ascoli sulla lingua degli Italiani.

21.1. Varietà diafasica e idioletti

Quando la fenomenologia linguistica si caratterizza come variazione individualmente determinata, possiamo parlare di varietà diafasica della lingua (è il caso della lingua, sia parlata sia scritta, di ciascuno di noi con le sue peculiarità idiosincratiche). In pratica, nella linguistica descrittiva, si fa riferimento ai casi individuali illustri, cioè in modo particolare alla lingua dei singoli scrittori, anche in rapporto al fatto che le istituzioni letterarie -e, al loro interno, gli scrittori- si configurano tendenzialmente come modelli di comportamento linguistico individuale. Il correlato umano di questo fenomeno è di ti po psicolinguistico ed alla forma linguistica assunta attraverso questo particolare tipo di variazione si dà il nome di idioletto.

21.2. La "questione della lingua" letteraria italiana

Strettamente correlata al problema della lingua individuale illustre è la cosiddetta "questione della lingua": con questa espressione si usa indicare una lunga, anzi lunghissima serie di polemiche e controversie che dal cinquecento in poi (fino all'unità d'Italia; ma un precursore, in tal senso, è stato Dante), hanno diviso letterati e grammatici su quale fosse e su come dovesse essere l'ottima lingua letteraria italiana. L'accento costantemente messo sulla natura letteraria di tale lingua e l'interesse quasi esclusivamente retorico che ha animato tutto il dibattito potrebbe ro esimerci dall'affrontare questo problema. Ma resta il fatto che la nostra lingua nazionale si è formata soprattutto come lingua letteraria a causa della mancanza di unità politica degli italiani durante molti secoli, per cui ancora oggi, nell'italiano parlato e colloquiale (cioè nel nostro comportamento linguistico individuale), moduli linguistici letterari sono tutt'altro che infrequenti e ne costituiscono forse l'aspetto stilistico più rilevante (il fenomeno è apprezzabile contrastivamente, per esempio quando si deve tradurre un testo italiano -anche non letterario- in inglese e si avverte il cozzo tra l' "artificiosità letteraria" della prima lingua rispetto alla "semplicità colloquiale" della seconda).

21.2.1. La posizione di Dante

In ogni caso Dante ricerca tra tutti i dialetti italiani quello degno di essere considerato il "volgare illustre" e dichiara polemicamente che in ogni dialetto italiano ci sono brutture, ma fra tutti il toscano è il più brutto (in quolibet idiomate sunt aliqua turpia, sed pro ceteris tuscum est turpisssimum). In realtà la lingua letteraria italiana si è formata intorno al XIII ed al XIV secolo proprio sulla base del dialetto fiorentino impiegato, sia pure con l'apporto di altri dialetti non toscani e soprattutto con il cost ante riferimento lessicale e sintattico al latino, nelle opere dei grandi scrittori trecenteschi (Dante, Petrarca, Boccaccio).

21.2.2. La "questione della lingua" nel rinascimento

Una vera e propria "questione della lingua" nasce e si sviluppa, come si già detto, tra le polemiche letterarie del cinquecento. Nella prima metà del secolo le diverse e contrastanti opinioni dei letterati confluiscono in tre correnti principali: quella "arcaizzante" (massimo rappresentante ne è il Bembo); quella "eclettica", che vagheggia una lingua aulica composita, sul modello di quelle in uso presso le varie corti; quella "toscana", che scorge l'unico modello da seguire nel fiorentino e nel toscano moderno. Il Bembo, in particolare, difende il fiorentino letterario del Petr arca e del Boccaccio, ma esprime riserve sulla lingua di Dante, giacché questi usa "voci rozze e disonorate". Ovviamente diverse sono le argomentazioni dei rappresentanti della corrente "eclettica": il Calmeta difende il concetto di "lingua cortigiana", tuttavia secondo il modello della corte pontificia di Roma (in ciò precursore di un certo destino linguistico italiano recente, sempre "romano", ma con altre "corti" ed altri ... "cortigiani"); il Castiglione si batte contro l'affettazione e l'abuso degli arcaismi da parte degli scrittori, mostrandosi invece propenso ad ammettere i francesismi e gli spagnolismi ormai consacrati dall'uso (anche lui, in qualche modo, precursore di mode interlinguistiche recenti, naturalmente per quanto attiene agli anglicismi); il Tríssino, dal canto suo, dichiara di voler tornare alla concezione dantesca del volgare illustre e polemizza contro l'uso esclusivo del toscano (non meno degli altri e a modo suo anticipatore di un certo atteggiamento interdialettale dell'italiano parl ato del novecento). Infine, a favore di quella corrente che abbiamo definito "toscana", si schiera il Machiavelli: per lui il vero italiano è il fiorentino parlato, proprio perché presenta la peculiare facoltà di inglobare nuovi vocaboli, provenienti da al tri dialetti, ed assimilarli senza mutare perciò la propria intrinseca natura.

20.2.3. Dalla "Accademia della Crusca" alla "lingua dell'Italia unita"

Nel corso del seicento il fatto linguisticamente più rilevante è la pubblicazione del "Vocabolario degli Accademici della Crusca" (1612), opera di indubbia rilevanza scientifica soprattutto se si tiene conto dei tempi e del livello senz'altro inferiore dei

vocabolari coevi di altre lingue europee. Il vocabolario della Crusca rivela una stretta aderenza al criterio del fiorentinismo arcaizzante ed anche per questo provoca vivacissime critiche che riaccendono la mai sopita "questione della lingua". In tal modo la polemica se si debba scrivere o non in toscano arcaizzante si trascina per tutto il settecento: il termine "cruscante" diventa sinonimo di "pedante a livello linguistico" e contro ogni pedanteria in tal senso si pronunciano decisamente scrittori come il Verri e il Baretti. In ogni caso si noti che tutti questi autori affrontano il problema della lingua individuale di ciascuno scrittore solo in vista del suo impiego retorico e letterario in forma di lingua scritta. La lingua parlata con la sua inesauribile ricchezza e varietà, con la sua immediata aderenza all'esperienza della lingua quotidiana resta fuo ri dai loro interessi: in tal modo si sancisce quel carattere "scolastico", "retorico" e "pedante" della lingua italiana che tutti noi avvertiamo più o meno acutamente in rapporto alla nostra formazione culturale ed al contesto sociolinguistico in cui operiamo.

Nell'ottocento continua l'ormai secolare polemica, ma i tempi sono maturi per un'impostazione non più esclusivamente retorica e letteraria: vero è che il padre Cesari sostiene ancora che bisogna tornare alla lingua degli scrittori toscani del trecent o ed è il capo riconosciuto dei cosiddetti "puristi" (tra questi si ricordi, a Napoli, Basilio Puoti), ma contro lui insorge Vincenzo Monti che, in piena temperie napoleonica, insiste non casualmente sul carattere "nazionale" della lingua italiana illustre . D'altra parte il motivo della "nazionalità" o, meglio, dell'identità linguistica di una nazione ("una d'armi, di lingua, di cor", Manzoni), è in armonia con le idee e le aspirazioni dell'allora nascente romanticismo e serve in ogni caso a far uscire il d ibattito dai binari in cui era stato costretto dal rinascimento in poi. Una reale novità di contenuti si riscontra infine nella teoria manzoniana della lingua: Manzoni infatti porta la disputa sul piano dell'impegno civile e si propone di dare agli Italiani uno strumento linguistico omogeneo ed unificatore sul piano nazionale. Dapprima egli pensa ad una lingua composita sulla base di dialetti diversi (sulla scia di Dante e Machiavelli), ma poi scopre con entusiasmo che la vera lingua italiana è nell'uso vivo dei fiorentini colti (una miscela perfetta di letterarietà e spontaneità!). Importanti sono pure i principi generali a cui si ispira il Manzoni: tra questi ricorderemo l'esigenza di studiare la lingua nella sua generalità e non soltanto la lingua "bella" delle opere letterarie; e la convinzione che soltanto l'uso è il vero dominatore della storia delle lingue ed ogni altro criterio di identificazione delle forme "corrette" deve cedere ad esso (è in fondo il principio oraziano dell'" usus, quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi", cfr. Ars poetica, vv.71-72).

20.3. La posizione di Ascoli sulla lingua degli Italiani

Quando si cominciò a pubblicare il "Novo Vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di Firenze, patrocinato da Manzoni, G.I.Ascoli, il fondatore della dialettologia italiana e degli studi glottologici in italia, nella prefazione alla rivista da lui fondata, l'"Archivio Glottologico Italiano" (1873), pur riconoscendo gli indubbi meriti dell'iniziativa, fece alcune importanti puntualizzazioni: in primo luogo, contro l'ipotesi di un intervento dall'alto sul lessico italiano, egli affermò che soltanto la "selezione naturale" (nozione di chiara impronta darwinista!) e non un intervento "glottotecnico" elimina il "lusso di voci e locuzioni equivalenti" (e viene in mente anche la polemica carducciana contro " la favella

toscana che è sì sciocca/ nel manzonismo degli stenterelli "); in secondo luogo egli rivendicò a tutti gli intellettuali, cioè a tutti gli individui colti (da lui definiti c on bella e pregnante espressione "gli operai dell'intelligenza") il diritto di non accettare il "Novo Vocabolario", per quanto buono, come "balia" o "maestro"; infine, pur ammettendo che era definitivamente morta l'idea di un classicismo linguistico, ben p iù forzato gli pareva "il nuovo ideale del popolanesimo" fiorentineggiante (il "turpissimum tuscum" di Dante?). In effetti il Manzoni, tutto preso dal suo impegno civile, non aveva tenuto conto dei molti casi in cui l'uso nazionale si scosta dal toscano (a d es. le forme dittongate buono, nuovo

che si oppongono alle toscane bono, novo).