PARTE TERZA
47.1. L'esigenza di una lingua ufficiale
47.3. Ortografia e riforme ortografiche. 47.4. Esempi di standardizzazione extra -europea. 47.5.Aspetti generali del Language planning.
47.1. L'esigenza di una lingua ufficiale
Si chiama standardizzazione o pianificazione linguistica quell'operazione che, in situazioni a volte molto diverse, comporta la conversione di una varietà linguistica di prestigio in una vera e propria lingua ufficiale, usata pertanto in tutti gli atti pubblici (certificazioni, leggi e decreti, definizioni statutarie, etc .). Di solito i processi di standardizzazione avvengono attraverso la prassi linguistica di persone o centri di riferimento imprescindibile: è il caso di Lutero e della sua traduzione della bibbia in Germania, da cui muove nel corso del tempo il tedesco; d ei dialetti di Parigi e di Londra in Francia e in Inghilterra rispettivamente, prototipi del francese e dell'inglese; dei grandi modelli letterari trecenteschi in Italia, che sono alla base della nostra lingua. Altre volte (ed è il caso dei paesi emergenti o in via di sviluppo, bisognosi di uno strumento etnolinguistico unificatore), i governi creano vere e proprie commissioni di "esperti" incaricate di definire i canoni normativi della lingua ufficiale. Tali commissioni lavorano di solito a partire da una varietà di prestigio (magari quella dell'etnía dominante) o fanno ricorso ad una lingua veicolare (spesso intertribale), che in tal modo risultano pianificate e diventano fruibili per l'uso ufficiale e prima ancora per l'istruzione obbligatoria.
La standardizzazione linguistica in Italia coincide di fatto, nel suo arco temporale più significativo, con la "Storia linguistica dell'Italia unita" ( questo è il titolo del libro emblematico di T. De Mauro uscito nel 1963). De Mauro riconosce alcuni importanti fattori di omologazione: scuola, burocrazia ed esercito, stampa quotidiana e periodica,
spettacoli e trasmissioni di massa.
In realtà la scuola, nei primi decenni dell'unità politica del nostro paese, ha svol to innanzi tutto una lotta sommaria e totalizzante contro la cosiddetta "malerba dialettale", sulla base di posizioni manzoniane contro le quali vanamente espressero riserve personaggi quali De Sanctis, D'Ovidio ed il già ricordato Ascoli. La Legge Casati del 1859 già prevedeva l'obbligo dell'istruzione elementare: ma per la diffusione del fiorentino colto occorrevano precise condizioni, tra cui un corpo di docenti con piena competenza linguistica al riguardo e una certa conoscenza, da parte di costoro, del le condizioni storico-linguistiche e dialettologiche da cui partivano i discenti (secondo il programma desanctisiano). In pratica queste condizioni ideali si verificarono di rado, per cui si creò molto presto, n elle varie regioni d'Italia, una divaricazione tra italiano "di diritto" ed italiano "di fatto". Altro fattore negativo fu la massiccia evasione dall'obbligo scolastico ed il conseguente tasso di analfabetismo, in ogni caso più forte nelle regioni meridionali e insulari. Giustamente osserva De Mauro: "Date le condizioni inizialmente comuni a tutte le regioni italiane, vincere la battaglia contro l'uso esclusivo del dialetto non era possibile se non a un prezzo: quello di imporre agli allievi di rifuggire sistematicamente da ogni elemento lessicale e d a ogni modulo sintattico usato nel linguaggio parlato... L'antiparlato o, meglio, il parlare 'come un libro stampato', è stato così l'ideale linguistico più diffuso nella scuola media". Accanto alla scuola un potente fattore di unificazione sono stati la burocrazia e l'esercito. L'Italia unita possiede presto una classe di funzionari statali con un proprio linguaggio unitario in ogni parte della penisola, caratterizzato per altro da arcaismi vistosi e da innovazioni audacissime, gli uni e le altre diffusi r apidamente attraverso decreti, circolari e commenti normativi. De Mauro fa notare che non pochi di questi funzionari sono meridionali e trasferiscono a livello nazionale espressioni burocratiche meridionali di chiara origine spagnola (cfr. incartamento dallo spagnolo encartamiento; più interessante il caso di disguido, dallo spagnolo descuido "trascuratezza", passato in questa forma all'italiano a caus di un accostamento paretimologico popolare alla parola guidare). Quest'ultimo termine ci mette di fronte a d un altro fenomeno tipico dello standard burocratico, che consiste nel coniare parole a suffisso zero a partire da forme verbali (riparto da ripartire, rivendica da rivendicare, etc.). L'esercito, dal canto suo, allontana (sia pure per un tempo non brevissimo) le persone esclusivamente dialettofone dai loro territori di origine e le costringe all'uso di un italiano approssimativo, ma generalizzato in cui sintomaticamente si diffondono termini di origine piemontese (De Mauro cita cicchetto, grana, ramazza), diventati poi di pubblico dominio (probabilmente anche sveglia, deverbale da svegliare, ha la sua origine nel linguaggio delle caserme).
Non meno importanti, soprattutto in epoche più recenti e pertanto di più diffusa alfabetizzazione, sono la stampa quotidiana e quella periodica: qui celebra i suoi trionfi il cosiddetto "linguaggio prefabbricato" con i suoi moduli infinitamente ripetuti (chi non è gradi completare la frase: la folla, in preda ...., si è ... nelle vie?). La lingua dei giornali, prima necessariamente semplice se destinata alla fruizione di massa o necessariamente
ermetica se destinato al pubblico dei veri colti, rappresenta oggi un esempio di straordinario equilibrio tra letterarietà (si noti che molti titoli, ad esempio, sono veri e propri endecasillabi) e linguaggio quotidiano (con qualche concessione al carattere approssimato del parlato); essa è, ogni caso, un fattore di standardizzazione molto potente. Anche la stampa periodica, soprattutto se propone rubriche fisse e romanzi a puntate , introduce elementi di unificazione linguistica in rapporto al numero sempre maggiore dei fruitori di tali messaggi.
Infine gli spettacoli e le trasmissioni di massa (cinema, radio, televisione e, ancora più recenti, i grandi concerti con decine di migliaia di spettatori) portano il livello di fruizione dello standard linguistico su un piano quasi universale (si fa fatica a pensare ad un individuo che, in condizioni normali, non sia quotidianamente raggiunto dai loro "messaggi"). Quest'ultima operazione linguistica rappresenta una realtà caratteristica dei nostri giorni, che ci coinvolge tutti in un fenomeno di standardizzazione linguistica che non ha precedenti storici riguardo all'ampiezza e alla portata.
47.3. Ortografia e riforme ortografiche
Quando si accentua la dimensione istituzionale della lingua diventa urgente corredarla di un canone grafico o, più esattamente, ortografico, che indica la giusta scrittura di ciascun termine. Si ricordi che l'ortografia è un codice logografico, che impone, ad esem pio, il grafo [c] in cuore, scuola (grafie etimologiche: cfr. lat. cor, schola) ed il digrafo [qu] in liquido, liquore (grafie etimologiche: cfr. lat. liquidus, liquor), anche se, da un punto di vista fonetico, tutti i termini qui citati presentano la stes sa articolazione labiovelare sorda. In ogni caso l'ortografia è un vistoso esempio di standardizzazione grafica, spesso caratterizzato da vere e proprie riforme ortografiche. L'esigenza di queste riforme diventa sempre più urgente a misura che cresce la di varicazione tra il parlato (con le sue evoluzioni nel corso del tempo) e lo scritto (fermo nelle sue convenzioni). Lingue come il francese e l'inglese resistono - come è noto- a questa esigenza di riforma, anche se le loro evoluzioni fonetiche le hanno vertiginosamente allontanate dalle forme scritte. Le ragioni di tale resistenza sono facilmente comprensibili: infatti una generazione graficamente "riformata" non sarebbe più in grado di leggere correttamente la massa dei testi scritti secondo la vecchia norma, per cui si preferisce restare al paradosso di una scrittura alfabetica che si allontana sempre più dai suoi corrispondenti fonetici. Quando poi sono in gioco grafie non alfabetiche (come nel caso del cinese), l'esigenza dello standard si sposta sui criteri di trascrizione ad uso internazionale: è il caso del sistema pinyin ("alfabeto fonetico") usato per trascrivere parole cinesi per lettori occidentali secondo norme diverse e successive nel tempo (si pensi alla trascrizione Mao Tze-tung rimpiazzata dalla trascrizione Mao Dze-dong per il noto uomo politico cinese.
Un caso particolare di ortografia (non logografica) è infine rappresentato dall'Alfabeto Fonetico Internazionale (sigla API), in cui ogni grafo corrisponde esattamente a un fono. Si tratta in realtà di una "guida alla lettura" e come tale esso è ormai universalmente impiegato nei dizionari bilingui per porre rimedio alle "perversioni" dell'ortografia (logografica); ma è del tutto improbabile, per le ragioni già dette, che esso possa diventare una grafia universale valida per tutte le lingue.
47.4. Esempi di standardizzazione extra-europea
Consideriamo il caso del swahili in Africa: si tratta di una lingua della macrofamiglia niger-kordofaniana (sottofamiglia bantu), parlata da oltre quaranta m ilioni di persone nell'Africa Orientale e Centrale. Essa nasce come lingua veicolare, a partire dal decimo secolo dopo Cristo, su una base morfologica bantu arricchita da un grandissimo numero di prestiti arabi. Durante l'epoca coloniale (prima tedesca, po i inglese) il swahili diventa lingua dell'amministrazione, ma con un forte tasso di discriminazione sociale, giacché per accedere ai gradi più alti occorreva una piena conoscenza dell'inglese. Tuttavia durante e soprattutto dopo l'epoca coloniale fu fortem ente avvertita l'esigenza di creare una forma standard di questa lingua con la creazione di comitati appositi e addirittura con l'intervento del Ministero dell'istruzione e di quello della cultura nazionale. In particolare il Ministero della cultura cura attualmente la diffusione della lingua a livello burocratico e fa compilare liste di termini corretti per l'uso di ciascun ministero (i risultati più notevoli sono stati conseguiti nell'ambito del lessico giuridico). D'altra parte giornali e radio si battono contro l'uso dilagante di prestiti stranieri (inglesi o arabi) e contro la tendenza -sintomo di insicurezza linguistica- di passare dallo swahili all'inglese nel corso della produzione di una frase.
Non meno interessante è il caso della pianificazione li nguistica nell'area maleo-indonesiana: qui il malese, originariamente lingua della penisola malese e diffusa, attraverso i traffici marini, sulle coste indiane orientali, birmane, siamesi e indicinesi, è diventato lingua ufficiale di quattro stati con il n ome di Bahasa Melayu "lingua malese" in Malaysia e di Bahasa Indonesia "lingua indonesiana" in Indonesia. La scelta di una lingua indigena come il malese per l'insegnamento e l'uso generale è stata facilitata dal suo carattere di lingua franca e dalla sua funzione interlinguistica rispetto ai dominatori olandesi. In Indonesia, in particolare, la varietà locale di malese, dopo aver vinto la concorrenza dell'olandese come lingua veicolare, ha conosciuto accentuati processi di standardizzazione, che puntavano soprattutto alla terminologia ed ai conseguenti tecnoletti. Nel 1950 è stata istituita una "commissione per la terminologia", che ha svolte una mole impressionante di lavoro (quasi centomila termini coniati o accolti e infine raccolti in dizionari settoriali). Vale la pena sottolineare l'equilibrio con il quale ha lavorato la "commissione", senza cedere a tentazioni di purismo nei confronti dei termini olandesi ormai "acclimatati" o anche ricorrendo a calchi che consentissero un "compromesso" tra lingua malese e concetti europei.