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PARTE TERZA

49.3. Dislessia e disgrafia

Eventi drammatici possono tuttavia interrompere o anche inibire in modo permanente il processo di apprendimento del linguaggio da parte del bambino o di possesso del linguaggio da parte dell'adulto. Ai livelli superiori della lettura e della scrittura (operazioni linguistiche complesse) possono infatti intervenire fenomeni di disturbo con forme più o meno gravi di dislessia "difficoltà nella lettura" e disgrafia "difficoltà nella scrittura". Nell'ambito dei disturbi di lettura (che possono colpire anche gli adulti, in conseguenza di traumi neurologici) si usa oggi parlare di paralessie e riconoscere tra queste tre tipi principali: quelle semantiche, quelle derivative e quelle ortografiche. Nel primo caso il dislettico non riesce a leggere la parola foresta se non con l'espressione sinonimica alberi o anche ricorrendo ad antonimi (deserto), iperonimi (vegetazione), iponimi (abeti) o termini associati (cacciatori); nel secondo caso la parola da leggere (es. costruzione) viene letta con altro affisso (es. costruttore, costruire); nel terzo caso si ricorre nella lettura ad un termine graficamente co ntiguo (vendere per vedere, andare per dare, etc.). Altri disturbi riguardano casi particolari: parole troppo lunghe, parole troppo astratte, parole ortograficamente "irregolari", etc. Si può parlare di dislessia pura, quando la lettura avviene esclusivamente "lettera per lettera" (anche se nel dislettico grafia e pronuncia della parola corrispondente sono normali). Si tratta evidentemente di una "disconnessione" dell'input visivo in seguito al danneggiamento anatomico del meccanismo di riconoscimento della "forma visiva delle parole". Si può parlare invece di

dislessia superficiale, quando insorge difficoltà nella lettura di parole graficamente

irregolari, cioè di lettura non immediatamente predicibile (tale dislessia può ricomparire sporadicamente sia nell'adulto non avvertito sia nel bambino in fase avanzata di apprendimento).

49.4. Afasia

L'afasia rappresenta una disfunzione o addirittura una perdita della facoltà del linguaggio, dovuta ad un danneggiamento dell'emisfero cerebrale sinistro. Il fenomeno, purtroppo, è più diffuso di quanto si possa immaginare ed ha una serie di manifestazioni riconducibili a vari livelli di difficoltà (fonologico, lessicale, semantico -sintattico). Una forma particolare di afasia è, ad esempio, la parafasia, caratterizzata da linguaggio ben articolato e fluente, ma con gravo carenze semantiche nella scelta e nell'esecuzione delle

parole (detta anche afasia di Wernicke, dal nome del suo scopritore). Un'altra forma di questa patologia linguistica è l'afasia di Broca, caratterizzata da una lenta ed elaborata fonazione con produzione di frasi sintatticamente povere. L'afasia ha attratto i linguisti (da Jakobson a Chomsky), che vi hanno cercato indizi o conferme per le loro teorie generali sul linguaggio: si ricordino, a questo p roposito, le teorie jakobsoniane relative alle opposizioni fonologiche (in particolare quelle basate sulle consonanti momentanee, che il bambino apprende per prime e l'afasico perde per ultime) o all'istanza di metafora e metonimia nella produzione del linguaggio (asse delle somiglianze ed asse delle contiguità). Chomsky, dal canto suo, ha sostenuto che il linguaggio è costituito da una serie di componenti indipendenti (fonologico, sintattico, semantico), che interagiscono nella produzione e nella comprensione delle frasi (con evidenti disturbi nel caso dell'afasico). In ogni caso la pluralità delle valutazioni linguistiche e psicolinguistiche ha fatto sì che fino ad oggi non si sia sviluppata ancora una terapia coerente e coordinata di questo disturbo.

In questa situazione la terapia "caso per caso" è l'unica soluzione possibile (o almeno praticabile). Su un piano sperimentale distinguiamo, in ciascun caso di afasia, disturbi

fonologici, disturbi del livello semantico-lessicale e disturbi sintattici. Tra i primi, i più

vistosi riguardano le difficoltà articolatorie, consistenti, a volte, in una estrema tensione degli organi (un caso, in tal senso, è costituito dalla produzione di consonanti momentanee in luogo delle continue corrispondenti: es. pame invece di fame, totto invece di sotto, etc.). Tra i secondi distinguiamo le parafasie fonetiche (selezione corretta della parola, ma sua deformazione articolatoria per effetto della sindrome di disintegrazione fonetica), le parafasie fonemiche (articolazione corretta dei foni della parola, ma errori di selezione e/o di combinazione dei fonemi corrispondenti), le parafasie verbali (produzione di una parola esistente nel vocabolario, ma diversa da quella che ci si aspetterebbe come risposta ad uno stimolo), i neologismi (realizzazione di parole inesistenti, ma corrette sul piano della forma linguistica impiegata), le anomie (incapacità di produrre le unità lessicali richieste, compensata in genere da parole generiche o da circumlocuzioni). Tra i terzi si riscontrano deficit più o meno gravi di produzione e comprensione delle frasi: Un esempio è il carattere "telegrafico" della produzione di una frase con omissione delle particelle grammaticali (costituite da articoli, congiunzioni, pronomi, preposizioni, verbi ausi liari e modali, etc.) oppure con l'eliminazione di morfemi legati nel nome e nel verbo (usati pertanto con forme invariabili).

49.5. Logopedia

Con logopedia si indica un campo operativo molto vasto in cui si esplicano varie tecniche per il recupero funzionale del linguaggio nel caso di vari tipi di difficoltà. Una di queste è data, ad esempio, dalla sordità più o meno profonda del bambino che lo rende appunto

sordomuto. In questi casi si può intervenire con opportune tecniche di modelli di

corrispondenza tra suono e immagine e con una conseguente educazione alla fonazione ed alla produzione di messaggi sonori accettabili. Nel caso del bambino cieco (o anche dell'adulto diventato tale) una opportuna tecnica terapeutica è la digitolessia, che consiste nella lettura di caratteri grafici (in rilievo) mediante l'uso delle dita. Un altro intervento (più generale) del logopedista riguarda i casi di dislessia, sia sul piano della terapia

(tuttora fortemente sperimentale) sia su quello (ancora poco esplorato) del la prevenzione. La logopedia può convertirsi in settori di intervento più specifici, quali l' ortoepía (tecnica di addestramento alla pronuncia corretta delle parole) o attingere addirittura i livelli artistici ed estetici della scuola di dizione, che è di grande importanza per tutti coloro che sono impegnati nei vari settori della comunicazione. Rientra nell'ambito della logopedia anche la terapia della balbuzie e, più in generale, la riabilitazione linguistica nel caso di fatti traumatici che riguardino in particolare la fonazione. Oggi la logopedia si orienta sempre più sul piano dell'educazione: non solo in quanto promuove lo sviluppo delle

abilità psicolinguistiche nel quadro di un incremento delle più generali abilità comunicative, ma anche in quanto punta a certi interventi specifici (ad es. educazione ed

igiene delle voci professionali, tecniche della deglutizione e della respirazione in nesso con l'attività del parlare, etc.) che aprono nuove prospettive operative dal punto vista linguistico.

49.6. Apprendimento di una L2 o "lingua seconda"

Si chiama L2 o "lingua seconda" qualsiasi lingua che venga appresa successivamente all'apprendimento della lingua materna. Si tratta di un'operazione linguistica fin troppo nota (e non solo nelle aule universitarie delle facoltà di lingue e letterature straniere), sulla quale tuttavia è opportuno riflettere in vista di un operare linguistico più consapevole. Intanto non bisogna dimenticare l'insegnamento della grammatica

generativa, secondo il quale -anche nel caso di una "lingua seconda"- gli elementi del

vocabolario si apprendono uno per volta, mentre le "regole" per la produzione delle frasi si devono possedere simultaneamente. Un altro insegnamento viene dalla linguistica

contrastiva: il confronto tra italiano ed inglese ci insegnerà che questa lingua seconda non

possiede l'indicazione grammaticale del genere; viceversa il confronto con il tedesco ci mostrerà che questa lingua seconda possiede, oltre al maschile e al femminile dell'italiano, anche il genere neutro. Naturalmente bisognerà diffidare dalle somiglianze apparenti (i cosiddetti "falsi amici"): evidence, in inglese, significa "prova" e non "evidenza", to realize, in inglese, ha come primo significato "capire, accorgersi di" e non "realizzare", etc.

In ogni caso nel meccanismo di acquisizione di una lingua seconda esistono fondamentalmente tre livelli di progressione: l'acquisizione della competenza passiva, sia scritta sia orale (il cosiddetto "livello soglia"); il passaggio alla competenza attiva, ci oè alla produzione linguistica delle frasi corrette ed accettabili; la conquista della competenza comunicativa, cioè la capacità di interagire mediante la lingua seconda.

Lez.50: Insegnamento

50.1.La glottodidattica: metodi e problemi. 50.2.L'insegnament o di una lingua straniera per scopi speciali. 50.3. L'insegnamento specifico di una lingua. 50.4. L'italiano come L 2. 50.1.La glottodidattica: metodi e problemi

L'insegnamento di una L2 nell'ambito delle istituzioni scolastiche (e non in queste soltanto) comporta una serie di operazioni linguistiche di complessità crescente, nelle quali docente e discente risultano coinvolti in un gioco interattivo prolungato e, solo in una certa misura, predicibile. In ogni caso è importante sottolineare che la

glottodidattica o didattica delle lingue straniere si colloca oggi nel quadro di una educazione linguistica avanzata, che coinvolge importanti aspetti sociolinguistici, ma non

questi soltanto: infatti bisogna stimolare, in tal senso, la consapevolezza della stori cità della lingua che si vuole insegnare; bisogna essere consapevoli dei presupposti psicologici operanti soprattutto nel caso di discenti giovani e giovanissimi; bisogna, infine, mettere in chiaro le presupposizioni culturali che presiedono a questa parti colare attività linguistica. La linguistica teorica e interpretativa ha offerto, a più riprese, alla glottodidattica modelli di riferimento: basti pensare al comportamentismo americano di Bloomfield, che agganciava l'insegnamento linguistico al meccanismo di stimolo-risposta; o alla

linguistica contrastiva, che con la sua analisi dell'errore consente di prevedere (e, al

limite, di predire) le aree di difficoltà nell'acquisizione della L 2 e di suggerire le opportune strategie per L1 variabile ed L2 costante; o ancora alla linguistica

tassonomica, legata al nome di Robert Lado, che segmenta la produzione linguistica del

discente nei suoi costituenti minimi, per poi sottoporli al language testing (ma questa tecnica di verifica è ormai abbandonata); o infine all a linguistica generativa di Chomsky con le sue nozioni di Language Acquisition Device (LAD, cioè "meccanismo di acquisizione linguistica"), che corrisponde ad una predisposizione innata all'attività linguistica e che si inquadra nella più generale nozione chomskiana di

competenza/esecuzione.

Naturalmente la glottodidattica, intesa come teoria dell'operare linguistico nell'insegnamento di una L2, può intraprendere strade sue proprie: ad esempio, secondo

Miller (1960), ripreso da Titone (1987), bisogna che il glottodidatta ricerchi una

"struttura profonda" o, più esattamente, "gerarchica... dei livelli operativi presenti nel comportamento e nell'apprendimento umano" nel campo linguistico. In tal senso possiamo arrivare a distinguere il livello tattico (include, tra gli altri, "gli atti di decodificazione e codificazione basati sulle abilità verbali"), il livello strategico (include una serie di processi: di formazione delle regole, di selezione delle unità linguistiche, di programmazione del discorso, etc.) e, infine, il livello ego-dinamico, fatto di autocoscienza linguistica, di esperienza esistenziale, di percezione del mondo, etc. Ma esiste pure una glottodidattica più eminentemente operativa, che punta decisamente alla programmazione e alle tecniche glottodidattiche. In questo caso assume un peso preponderante la sequenzialità didattica, che è articolata in unità didattiche di complessità linguistica crescente, ciascuna divisa in linea di massima in cinque stages (1. presentazione; 2. pratica; 3. produzion e; 4. riflessione sulla lingua; 5. testing e valutazione). In 1. il docente presenta il materiale linguistico, ricorrendo preferibilmente agli audiovisivi; in 2. i discenti usano strutture linguistiche in modo controllato; in 3. essi si impegnano a produrre liberamente tali strutture in contesti appropriati; in 4. vengono studiate le "regole" dedotte dalle prassi linguistiche adottate; in 5. si fanno le opportune verifiche in ordine all'unità didattica realizzata.

50.2.L'insegnamento di una lingua straniera per scopi speciali

Questo tipo di insegnamento diventa ogni giorno più importante in considerazione del continuo incremento e della sempre più marcata differenziazione dei cosiddetti tecnoletti, che sono linguaggi settoriali caratterizzati da corrispond enze aggiuntive nel lessico (si tratta spesso di neoformazioni altamente idiosincratiche). In questo caso il docente dovrà innanzi tutto misurarsi con le "possibilità descrittive dei linguaggi settoriali". Anna

Ciliberti (1981) fornisce un elenco assai sintomatico in tal senso: "1. approccio statistico

-quantitativo, in cui includiamo l'analisi stilistico -funzionale; l'analisi dei registri; l'analisi stilistico-linguistica; l'approccio funzionale; 2. approccio universalistico; 3. approccio tipologico- testuale; 4. approccio anti-descrittivista". Non occorre soffermarsi in questa sede su questa pluralità di "approcci", che sono in ogni caso tutti importanti. Più significativo appare invece un tentativo, che risale a Widdowson, di ricondurre la prassi dell'insegnamento del linguaggio scientifico in una lingua straniera a tre tipologie di base: 1. Realizzazione di un tipo di discorso argomentativo-scientifico, un discorso da scienziati a scienziati, con un massimo di terminologia specialistica e con un fortissim o peso di inferenze pragmatiche; 2. Realizzazione di un tipo di discorso

didattico-scientifico, rivolto ad un pubblico di destinatari sufficientemente ricettivo, ma bisognoso

in ogni caso di esplicitezza, chiarezza, ripetitività; 3. Realizzazione di un tip o di discorso

divulgativo-scientifico, rivolto ad un largo pubblico per il quale la terminologia

specialistica è per lo più rimpiazzata attraverso "forme di chiarificazione". E' evidente che per questa strada l'insegnamento di una lingua straniera per scop i speciali si sposta dall'analisi del repertorio lessicale specialistico alla considerazione di "bisogni" specifici del destinatario delle produzioni linguistiche in L2 "speciale".

50.3. L'insegnamento specifico di una lingua

La glottodidattica attuale, proprio per la sua natura eminentemente operativa, tende sempre più a proporsi come didattica di una lingua specifica. Parliamo, in tal senso, di

didattica del francese, di didattica dell'inglese, etc., cioè di operazioni linguistiche con

proprie problematiche e strategie, la cui piena definizione -a parer nostro- può venire solo da una ricognizione preliminare del "contesto operativo" secondo la formula "insegnamento della lingua X a parlanti di lingua madre Y", magari con le opportune distinzioni tra situazioni di full immersion e situazioni proprie dello speech laboratory o di quant'altro si possa immaginare (esercitazioni in aula con o senza lettore di madre lingua, etc.). L'insegnamento specifico di una lingua non è tuttavia esente da certe presupposizioni metalinguistiche dominanti nel paese in cui tale lingua si parla. In questa direzione si può scoprire che certi presupposti generativisti sono dominanti nell'insegnamento della competence dell'inglese, che la linguistica contrastiva aiuta noi italiani a liberarci dai faux amis ("falsi amici") del francese (si tyratta di parole che hanno forma simile alle corrispondenti italiane, ma significato totalmente diverso), che una certa impostazione strutturalista attenta ai fatti morfosintattici ci aiuta a nav igare dentro quella schwere Sprache ("lingua difficile") che è il tedesco. In ogni caso è sempre bene ricordarsi che l'insegnamento linguistico, proprio per la sua natura operativa, non è riconducibile a

schematismi predittivi che imbriglino totalmente la sua natura tendenzialmente "accadimentale".

50.4. L'italiano come L2

Un caso molto specifico è costituito dalle "strategie di acquisizione" dell'italiano inteso come L2. La fenomenologia in questo settore è attualmente sempre più ricca e variata, in rapporto a fenomeni migratori extra-europei che stanno sotto gli occhi di tutti. Ma in questo caso l'apprendimento avviene in forme, per così dire, "spontanee" in una condizione che nega in tutto o in parte l'insegnamento. L'italiano acquisito in modo spontaneo, ad esempio, da arabofoni (secondo un'inchiesta di Banfi a Milano, cfr. L'italiano tra le altre lingue: strategie di acquisizione a cura di Anna Giacalone Ramat, Bologna 1988) presenta i caratteri di un'interlingua con forti elementi di pidginizzazione (mancanza di accordi grammaticali nell'enunciato, forme verbali neutralizzate con dominanza dell'infinito, tendenza alla frase nominale, etc.). Invece nell'italiano imperfettamente acquisito da filippini a Roma (secondo un'inchiesta di Orletti in Giacalone Ramat, cit.) colpisce la presenza di "forme perfettamente flesse" del verbo accanto ad altre tendenzialmente nominali e un'attenzione all'espressione della temporalità (anche se non espressa attraverso marche verbali).

In questi due casi sembrano dominare nell'uso dell'italiano condizionamenti dovuti alle lingue di partenze (LP). Un caso assai interessante, in cui le deviazioni dalla norma sono riferibili all'italiano come lingua di arrivo (LA) è invece quello (segnalato da Bozzone

Costa in Giacalone Ramat, cit.), costituito dall'inserzione di morfemi (tipo forn-*ol-aio

invece che forn-aio), che dipende da un "principio di esagerazione" di fronte ad una LA sentita come fortemente derivativa (caso analogo: poll-*ett-*iere invece che il poco "aspettato" pollivendolo). Tali "errori" avvengono nel caso di discenti impegnati in corsi di lingua italiana e potrebbero essere imputati ad un eccesso di "riflessione sulla lingua" che provoca competenza illusoria ed esecuzioni improprie.

Lez.51: Interpretariato e traduzione

51.1. Breve storia della traduzione. 51.2. I principali campi operativi della traduzione. 51.3. Figura e funzione dell'interprete. 51.4. Il problema traduttologico per eccellenza: l'equivalenza della traduzione.

51.1. Breve storia della traduzione

Il traduttore e l'interprete svolgono sostanzialmente la stessa operazione linguistica, il primo tendenzialmente con riferimento a testi scritti (ma si parla comunemente di

traduzione simultanea e di traduzione differita o consecutiva con implicito riferimento

(ma anche qui con qualche oscillazione in rapporto -ad esempio- ad un giudizio di "buona interpretazione" per chi traduce un testo scritto). In ogni caso la traduzione scritta e l'interpretariato orale risalgono fino ai più antichi livelli documentari e vanno sicuramente (almeno per l'interpretariato) ancora più indietro nel tempo, in quanto l'una e l'altro rispondono ad un'esigenza insopprimibile di comunica zione interetnica ed interlinguistica. Negli antichi imperi (egiziano, assiro -babilonese, ittito, tutti fortemente plurilingui) gli interpreti-traduttori sono funzionari statali con cariche e compiti specifici (si pensi che il termine in uso in Europa fino al diciottesimo secolo per designare l'interprete, cioè dragomanno, turcimanno, risale attraverso l'arabo targoman e simili all'assiro ragamu "parlare" e che un termine currito, cioè di una lingua dell'impero ittito, talami, probabilmente di significato analogo, è alla base degli attuali nomi slavi e di quello tedesco dell'interprete). Ma una forte presa di coscienza dell'attività linguistica del tradurre emerge per la prima volta solo nell'antica Roma, dove la traduzione di testi greci (si pensi all'Odissea tradotta da Livio Andronico o ai rifacimenti -traduzione di commedie greche da parte di Plauto e Terenzio) segna la nascita della letteratura. Importanti sono le precisazioni di Cicerone traduttore di Demostene che dichiara di aver operato non in modo riduttivo come interprete (ut interpres) ma in modo estensivo come scrittore (ut orator). Più tardi San Gerolamo, traduttore della Bibbia e "teorico della traduzione" (cfr. il suo saggio epistolare De optimo genere interpretandi) fornirà una raccomandazione ancora oggi universalmente valida per ogni operazione di traduzione: " non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sensu" (cioè: bisogna saper cavare non parole da parole, ma il senso proprio di un messaggio dal senso del messaggio espresso). In realtà la raccomandazione di San Gerolamo resta priva di "istruzioni per l'uso" e le dispute sulle traduzioni (fatte o da fare) sono la riprova di una sostanziale irriducibilità di questa operazione linguistica a canoni prestabiliti.

Nel medioevo, comunque sia, si traduce molto (si ricordino in Italia i cosiddetti "volgarizzamenti"), anche se Dante nel suo Convivio esprime fondati dubbi sulla validità della traduzione poetica ("sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia"). In questo periodo tuttavia c'è un cospicuo fiorire di traduzioni di genere non letterario in Spagna, dove in particolare a Toledo si realizza un punto di incontro tra civiltà ebraica, araba e cristiana e si crea una vera e propria "scuola" di traduttori (spagnoli, inglesi, ebrei convertiti, mozarabi).

La storia della traduzione dall'epoca rinascimentale fino a quella moderna passa per alcuni punti di snodo fondamentali (la traduzione della Bibbia di Lutero, la definizione di "bella infedele" per la traduzione letteraria data da Voltaire, la nozione di traduzione integrale di Goethe, per citare solo i momenti più importanti). Anche Lutero scrive una "epistola sulla traduzione" nella quale insiste sulla necessità di cogliere il senso del testo, senza fermarsi alle parole latine, che non possono "insegnare come si può parlare il tedesco". Come si vede, l'operazione del tradurre rientra in una strategia sociale ed educativa più ampia (e non è un caso che la traduzione di Lutero è diventata la base per la definizione linguistica del tedesco di tipo nazionale). Le "belle infedeli" di cui parla Voltaire sono invece quelle traduzioni letterarie che si allontanano molto dal testo originario (per lo più greco o latino), puntando ad una resa estetica che sia in linea con i canoni del presente (in particolare in base al presupposto etnocentrico che il francese letterario rappresenti il più