PARTE TERZA
51.4. Il problema traduttologico per eccellenza: l' equivalenza della traduzione
51.4. Il problema traduttologico per eccellenza: l' equivalenza della traduzione
Il misuratore della qualità (e -si potrebbe dire- della "quantità") di una traduzione è dato dal suo livello di equivalenza rispetto al testo della lingua di partenza. Si tratta di un'equivalenza semantica, tuttavia non separabile dalle opzioni formali alle quali il
traduttore ha fatto ricorso. In questa prospettiva due studiosi franco -canadesi Vinay e
Darbelnet hanno proposto un gradiente operativo assai interessante che va da un massimo
di fedeltà (il prestito) ad un minimo (l'adattamento).
Consideriamo il primo livello di equivalenz a, cioè il prestito, che di fatto è la rinuncia a tradurre, per cui si ricorre alla trasposizione completa del termine straniero ( whisky, blue jeans, etc.). Apparentemente si tratterebbe di una "non operazione", in realtà essa rispecchia una scelta di coerenza e di fedeltà estreme al contesto etnostorico della lingua di partenza. Nel prestito scatta per altro quell'effetto di straniamento, di cui si è già parlato, che ha forte funzione evocativa e permette una full immersion (questo è un esempio di prestito!) nella cultura "altra". Si consideri, infine, a sostegno dell'opportunità o della necessità del prestito nella prassi traduttologica, la scarsa equivalenza di una traduzione di whisky con il termine acquavite o il carattere grottesco della traduzione di epoca fascista spirito di avena (del resto chi se la sentirebbe oggi di tradurre Far West con "Occidente Lontano" e cowboy con "ragazzo delle vacche"?).
Il secondo livello è dato dal calco. In questo caso il termine straniere viene tradotto pezzo per pezzo: ad esempio, sottosviluppato rispetto all'inglese underdeveloped, retroterra rispetto al tedesco Hinterland. Si tratta di una fedeltà "sintagmatica", che tuttavia non è sempre in grado di rispettare l'ordine sequenziale dei "pezzi" linguistici: ad esempio , guerra lampo rispetto al tedesco Blitzkrieg (lett. "lampo-guerra") inverte i termini a causa delle costrizioni sintagmatiche della lingua di arrivo. Il calco consiste in definitiva in un modellamento sulla tecnica di espressione e sulla configurazione se mantica del termine da tradurre e crea neologismi fortemente correlati a mode culturali e linguistiche.
Il terzo livello è la traduzione letterale, solo apparentemente un massimo di fedeltà, in quanto si traduce parola per parola forzando in tal modo, a va ntaggio della significazione lessicale, il più ricco meccanismo della significazione frastica. Il fenomeno della traduzione letterale è possibile quando due lingue, per ragioni di parentela e per comunanza culturale, hanno termini semanticamente sovrapponi bili. Casi di traduzione letterale, con effetti di involontaria comicità, si verificano in testi di istruzione per certe operazioni tecniche (si pensi a chi traducesse letteralmente il tedesco Lebensmittel con "mezzi di vita" invece che con il molto più op portuno alimentari).
Il quarto livello consiste nella trasposizione. In questo caso si riesce a designare la stessa realtà designata nel testo da tradurre, tuttavia facendo ricorso a processi grammaticali del tutto diversi e realizzando pertanto significaz ioni diverse. Noi possiamo, ad esempio, tradurre con after he comes back (lett. "dopo che egli torni") l'espressione italiana al suo ritorno, ma è indubbio che siamo in presenza di una divaricazione semantica, la quale trova il suo fondamento in costrizioni tipologiche delle lingue (l'italiano preferisce l'espressione nominale astratta, l'inglese quella verbale concreta). La trasposizione si rivela frequente anche nelle traduzioni da lingue antiche: si pensi all'alto grado di espressioni sintetiche in latino, che la traduzione italiana rende facendo ricorso a procedimenti analitici.
Il quinto livello ci consegna la modulazione. La designazione è ancora conservata, ma le significazioni possono essere cambiate fino al rovesciamento (ad esempio: frase affermativa resa con frase negativa e viceversa). Si consideri il caso di inglese it is not difficult to show reso in italiano con è facile mostrare. In questo caso si può parlare di equivalenza logica ("facile" equivale alla negazione di "difficile"). In qualche altro caso si
dovrà riconoscere un'equivalenza fattuale, tipo qui non si tocca rispetto allo spagnolo aquí no cubre (lett. "qui [l'acqua] non copre") o dalla prima all'ultima pagina rispetto all'inglese from cover to cover (lett. "da copertina a copertina"). Le modulazioni sono spesso provocate dalla necessità di rendere frasi idiomatiche di una lingua con frasi idiomatiche corrispondenti nell'altra lingua.
Il sesto livello chiama in causa l'equivalenza. La traduzione, a questo punto, si sgancia sia dall'identità delle designazioni sia dal parallelismo delle significazioni e cerca una sorta di bilanciamento testuale: se devo tradurre il francese comme un chien dans un jeu de quilles (lett. "come un cane in un gioco di birilli", mentre il senso è "uno che si muove in modo maldestro e produce guai"), potrò ricorrere -se sono italiano- alla frase idiomatica come un cane in chiesa o -se sono inglese- alla frse altrettanto idiomatica like a bull in a china shop (lett. "come un toro in un negozio di porcellane"; p er il senso cfr. sopra). Quale delle due traduzioni sia più valida è assai difficile dire, in quanto entrano in gioco fatti lessicali e referenziali (cane vs bull, chiesa vs china shop) che chiamano in causa presupposizioni pragmatiche complesse per non parlare di eventuali implicature conversazionali tra emittenti e destinatari.
Il settimo ed ultimo livello consiste in un adattamento. E' ancora in gioco la ricerca di un'equivalenza plausibile, altrimenti non potremmo parlare di traduzione, ma il bilanciamento supera anche il livello testuale ed investe la dimensione pragmatica del contesto situazionale ("traduzione di situazioni", sia pure linguisticamente determinate). Un esempio potrebbe essere dato da italiano abbracciò teneramente la figlia per rendere he kissed his daughter on the mouth (lett. "baciò la figlia sulla bocca), che non si può tradurre in modo letterale perché il risultato urta contro certe presupposizioni dei destinatari del testo di traduzione. In ogni caso l'adattamento implica una sorta di equivalenza delle tassonomie culturali che stanno dietro alla lingua di partenza ed a quella di arrivo.
CAP.17
Incontri: etnologia, sociologia, psicologia
Lez.52: Etnologia
52.1. Orizzonti etnologici. 52.2. Linguaggio e visione del mondo. 52.3. Un caso particolare: lingue maschili e lingue femminili. 52.4. Le tassonomie come opzioni etnolinguistiche. 52.5. Antroponimi e pertinenze etnolinguistiche. 52.6. Il tabu come forma dell'interdizione etnolinguistica.
Chi opera linguisticamente in prospettiva etnologica sa molto bene che la lingua è uno dei più importanti contrassegni per l'identificazione etnica e che uno studio dei punti di incontro tra etnologia e linguistica risulta indispensabile per capire come ciascuno di noi sia una cellula di un tessuto etnolinguistico non solo nel proprio modo di pensare ma anche nel suo specifico agire linguistico. Naturalmente il punto di avvio di ogni discorso su questo argomento è ciò che G.R. Cardona, nella sua esemplare Introduzione all'etnolinguistica (Bologna 1976), chiama "l'utilizzazione del diverso", cioè la presa di coscienza che una comunità di parlanti non costituisce un unicum incommensurabile, ma si identifica in una rete di rapporti con altre comunità di parlanti secondo con trasti o convergenze. In questo modo si supera l'atteggiamento linguistico etnocentrico e la propria identità etnolinguistica si precisa e si arricchisce nell'incontro di culture diverse.
52.2. Linguaggio e visione del mondo
Una esperienza etnolinguistica fondamentale è la "scoperta" che il linguaggio (più esattamente: una lingua particolare) preordina e predetermina la "visione del mondo" di ciascun parlante. Questa circostanza è stata adeguatamente formulata per la prima volta dal grande pensatore tedesco Humboldt che riteneva che la lingua fosse "l'organo che forma il pensiero" ed è stata ripresa dal linguista americano Sapir, per cui il mondo è "in gran parte costruito a partire dalle abitudini linguistiche". Un'ulteriore elaborazione è poi venuta dall'antropologo e linguista Whorf, che insiste su l'effetto totalizzante della lingua sul nostro comportamento, per cui si usa ormai riferire questa concezione come "ipotesi Sapir-Whorf". Tale ipotesi è stata molto criticata, ma ci sembra da un certo punto di vista ancora valida, a patto che il rapporto lingua-cultura sia liberato da pericolosi determinismi unidirezionali e venga pertanto concepito in modo bidirezionale (dalla lingua alla cultura, ma anche dalla cultura alla lingua). Con questa riserva è p ossibile prendere in esame qualche caso specifico (genere grammaticale, terminologia dei colori, etc.).
Per il tedescofono, ad esempio, il "sole" è di genere grammaticale femminile ( die Sonne), la "luna" di genere grammaticale maschile ( der Mond), ma esiste pure la possibilità di designare una qualche realtà extra-linguistica facendo ricorso al genere grammaticale neutro (ad es. il "ragazzo" e la "ragazza" saranno ugualmente espressi dal neutro das Kind). L'anglofono azzera nel suo comportamento etnolinguis tico questa distinzione grammaticale: gli oggetti inanimati sono per lui privi di genere; per quelli animati il riferimento al sesso, in mancanza del genere grammaticale, avviene con marche pronominali (es. he-goat, she-goat) o con elementi lessicali (es. tom cat e pussycat). L'italofono, infine, esaspera in modo totalizzante (secondo la polarità esclusiva "maschile"-"femminile") questa procedura grammaticale. Una neutralità del pensiero di fronte a queste situazioni etnolinguistiche così particolari non è affatto certa, ma non bisogna per questo andare in cerca di fatti archetipici e di pseudo -universali. In italiano, ad esempio, albero è di genere maschile, ma il suo antecedente latino arbor è di genere femminile (quindi due diverse visioni del mondo secon do due distinte opzioni operative etnolinguistiche?). Ma, in ultima analisi, bisogna riconoscere che un "albero", in rapporto al suo genere grammaticale, può (non deve!) diventare simbolo, ad esempio, di maschilità
o di femminilità; in altri termini la lin gua può (non deve) condizionare la visione del mondo.
Con questa riserva ci si può accostare ad un altro fatto etnolinguistico assai studiato: la diversità tra le lingue nella terminologia dei colori ed il fatto incontestabile che "si vede" (culturalmente parlando) in modo diverso a seconda di parametri lessicali diversi. Esempi vistosi si hanno in latino con le coppie albus -candidus e ater - niger: infatti nei primi termini delle coppie il riferimento al "bianco" e al "nero" rispettivamente implica l'a ssenza di riflessione della luce (come dire un "bianco" e un "nero" opachi); nei secondi termini invece si marca semanticamente la presenza del fenomeno prima negato (come dire un "bianco" e un "nero" splendenti). Niente di simile è riscontrabile in italia no dove bianco e nero dominano lo standard (candido è solo un "bianco più intenso", atro è un recupero dotto con altre implicazioni semantiche). Ancora una volta dobbiamo ammettere che chi parla lingue diverse opera in modo diverso da un punto di vista etn olinguistico.