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19.3. Conoscenza e classificazione delle lingue del mondo. 19.4. Definizione linguistica di dialetto. 19.5. Classificazione dei dialetti italiani.

Quando la fenomenologia linguistica si caratterizza come variazione arealmente determinata, possiamo parlare di varietà diatopica della lingua (è il caso del continuum varietistico del mondo neolatino, appena esaminato nelle sue linee generali). Il correlato umano di questo fenomeno è di tipo etnolinguistico: in altri termini la variazione linguistica nello spazio ha sempre una serie di referenti etnici, cioè piccol e o grandi comunità di parlanti, che spesso trovano nella lingua specifica che usano uno dei più potenti criteri di autoidentificazione. Alla varietà diatopica corrispondono gli etnoletti (comunemente noti come dialetti, ma tale termine è un iperonimo e va riservato per indicare collettivamente tutte le forme di varietà linguistica), cioè le forme peculiari di lingua arealmente e microetnicamente determinate, e tra questi etnoletti capita spesso che uno assurga, per ragioni di prestigio politico e culturale dei suoi parlanti, a forma di comunicazione interdialettale con un correlato umano macroetnico. In questo caso parliamo di lingua, magari di lingua nazionale, secondo un modello eurocentrico che si afferma a partire dalle guerre napoleoniche. Bisogna guar darsi tuttavia dall'applicare sic et simpliciter questo modello alla situazione etnolinguistica mondiale. La lingua nazionale è una dimensione culturale europea, riprodotta -magari con vari compromessi- in varie zone ex-coloniali in Africa e in Asia; altrove potrà capitare di riscontrare l'affermazione di lingue veicolari interetniche o forme di plurilinguismo diffuso, le une e le altre sganciate da pretese nazionalistiche ed etnocentriche.

19.2. Etnocentrismi linguistici nel mondo antico

Queste ultime, in particolare, hanno spesso prepotentemente agito nell'antichità fino al paradosso di negare ogni forma di alterità linguistica, anzi di negare lo statuto di lingua alle varietà diverse dalla propria. Riconsideriamo, in tal senso, il mito biblico della "t orre di Babele". In una piccola porzione del Vicino Oriente Antico, compresa tra i due celebri fiumi Tigri ed Eufrate, la Bibbia ambienta il racconto della punizione divina dell'atto di superbia di coloro che avevano deciso di innalzare una torre altissima e di raggiungere così il cielo. La punizione consiste, in modo molto sintomatico, nella "confusione delle lingue" delle persone impegnate nella costruzione. In realtà questo mito adombra una precisa esperienza storica del popolo ebreo, giunto (come altri popoli nomadi del deserto) nelle fertili pianure mesopotamiche e venuto in tal modo in contatto con una civiltà superiore ed assai più complessa. Se la "torre di Babele" altro non è che la ziqqurat, cioè il tempio mesopotamico a molti piani ricostruito con grande precisione dagli scavi archeologici, la "confusione delle lingue" è il segno dello stupore e del disagio degli Ebrei, piccolo popolo estremamente chiuso agli apporti esterni, di fronte alla varietà ed alla coesistenza delle lingue dell'antica Mesop otamia (accadico, sumerico, elamico, currito, cassito, etc.). D'altra parte le civiltà antiche, meno aperte di quelle moderne al confronto internazionale, mostrano di essere restie ad accettare il dato di fatto della pluralità delle lingue: abbiamo visto o ra il caso degli Ebrei, che nella pluralità delle lingue scorgono addirittura la conseguenza dell'intervento del loro dio vendicatore; ma analogo comportamento xenofobo ebbero gli antichi Greci, per i quali tutti coloro che non parlassero la loro lingua erano bárbaroi "balbuzienti", cioè in pratica produttori di suoni senza senso, persone incapaci di parlare (ma il termine non è di coniazione greca, anzi è

prestito dell'accadico barbaru, a sua volta prestito di sumerico b a r . b a r, termini questi con cui già si allude -in contesti etnocentrici- al preteso "balbettio" dello straniero). In realtà la conoscenza delle lingue del mondo era assai imperfetta e limitata nel mondo antico: la civiltà greco-romana infatti è stata sempre assai poco rispettosa dell e lingue dei popoli vinti e fin dove ha potuto ha realizzato un vero e proprio livellamento linguistico sotto il segno della sua cultura egemone. Diverso era stato il comportamento dei grandi imperi dell'Oriente Antico (egiziano, assiro -babilonese, persiano), nei quali coesistevano popolazioni diverse per lingua e civiltà senza che una tentasse di annullare la realtà etnica e linguistica delle altre (un chiaro esempio di ciò ci viene dalle iscrizioni dei re persiani della dinastia achemenide, redatte in tre lingue: accadico, antico persiano e neoelamico).

19.3. Conoscenza e classificazione delle lingue del mondo

Nel medioevo i contatti con lingue extra-europee si limitano al mondo semitico penetrato profondamente nello spazio mediterraneo attraverso la gra nde espansione della civiltà islamica e della lingua araba in particolare. Scarsa, in tal senso, è l'incidenza di altre esperienze, come quelle dei viaggiatori che si spingono avventurosamente verso terre più lontane. Ma dopo la scoperta dell'America ed i grandi viaggi di circumnavigazione del globo l'attenzione alla realtà linguistica extra -europea si fa sempre più forte: entra così in crisi, anche se la maturazione della medesima è ancora molto lontana, l'eurocentrismo inteso come destino planetario anche linguistico; si dispiega, davanti alla curiosità ed alla meraviglia di mercanti, missionari ed eruditi, l'immensa varietà delle lingue del mondo. Non è questa la sede per tracciare una storia, sia pure sommaria, dell'accrescersi delle conoscenze poliglotte. Basterà dire che oggi abbiamo una conoscenza abbastanza soddisfacente di tutte le lingue e i dialetti del mondo, sia quelli attualmente parlati sia quelli estinti e noti solo attraverso la documentazione scritta. Il quadro linguistico mondiale può essere in questo modo brevemente riassunto (in larga parte seguendo la recentissima classificazione [1991] di Merrit Ruhlen).

In Africa si riconoscono quattro grandi famiglie, da sud a nord la Khoisan (lingue di ottentotti [khoi] e boscimani [san]), la Niger-Kordofaniana ( tra le altre le lingue bantu e in particolare quella swahili, importante lingua veicolare centro-africana), la

Nilo-Sahariana (estremamente frammentata: circa 160 lingue!) e l' Afro-Asiatica. Quest'ultima

(nota anche come Camito-Semitica) è a cavallo tra Africa ed Asia e comprende le lingue

cuscitiche (nel Corno d'Africa e tra queste la lingua somali), le lingue ciadiche (nella

regione subsahariana e tra queste la lingua hausa), le lingue camitiche (importantissimo è l' egiziano antico, poi continuato nel copto, e non si dimentichino le attuali lingue

berbere), le lingue semitiche (con grandi lingue di cultura nell'antichità, ad es. accadico, aramaico, fenicio, ebraico; e con l'arabo, lingua di rilievo mondiale a partire

dall'espansione islamica).

Tra l'Europa e l'Asia o, se si preferisce, dall'Atlantico al Pacifico si riconoscono, a parte il

basco nella penisola iberica non aggregabile a nessuna famiglia, innanzi tutto tre grandi

famiglie, la Indo-Europea (già illustrata),l'Uralica (tra le sottofamiglie si ricordino la

finnica con il finlandese, la ugrica con l'ungherese, e quella samoieda), e l'Altaica,

continentale settentrionale e si spinge forse fino a comprendere il coreano e il giapponese (tra le lingue turche si ricordi almeno il turco anatolico con oltre cinquanta milioni di parlanti). Minori entità sono, lungo il corso dello Ienissei, il ket e,nell'estremo lembo nordorientale dell'Asia e nelle isole adiacenti,le lingue paleoasiatiche (si ricorderanno il

ciukci, il camciádalo e, più isolati, l'ainu e il ghilíaco). Nell'Asia continentale

meridionale troviamo tra Mar Nero e Mar Caspio l'area linguistica Caucasica (con tre famiglie: la cartvelica o caucasica meridionale, con il georgiano come lingua culturalmente più rilevante, la caucasica nordoccidentale e la caucasica nordorientale). Non aggregabili alle macrofamiglie sono poi il burusciaschi nell'area del Karakorum e la lingua nahali a nor-ovest dell'India. Nel subcontinente indiano, oltre alle lingue indoarie della famiglia indeuropea ed alcune lingue munda della famiglia auustroasiatica (v. avanti), va segnalata l'importante famiglia Dravidica (con il tamil come più significativo rappresentante). Nel sud-est asiatico si ricorderanno la famiglie Sino-Tibetana (lingua più importante, il cinese, con oltre un miliardo di parlanti ed un prestigio culturale altissimo),

Miao-Yao (molto frammentata in territorio cinese), Daica (Tailandia) e Austroasiatica

(specialmente Vietnam e Cambogia).

Tra l'Oceano Indiano e quello Pacifico ritroviamo le famiglie linguistiche insulari: in primo luogo quella Australiana (con lingue molto importanti da un punto di vista tipologico), poi quella Austronesiana (con una enorme dispersione areale, che va dal

malgascio, nella grande isola africana del Madagascar, attraverso l'importante lingua indonesiana, fino alle lingue delle Hawai e dell'isola di Pasqua), infine la Indo-Pacifica

(tra le altre lingue di questa famiglia si ri corderanno quelle delle isole Andamane, della Nuova Guinea e della Tasmania).

Infine nel continente americano l'enorme pluralità delle lingue precolombiane è raggruppabile, secondo una recentissima e contestatissima proposta di Greenberg, in tre grandi macrofamiglie: l' Eschimo-Aleutina, nelle zone artiche, la Na-Dene, nella parte nordoccidentale dell'America settentrionale, l' Amerindia, in tutto lo spazio residuale fino alla Terra del Fuoco ed all'area antartica.

19.4. Definizione linguistica di dialetto

I gruppi linguistici qui enumerati corrispondono a dimensioni macroetniche. I dialetti, invece, si riferiscono a dimensioni microetniche, sia pure di assai diversa consistenza numerica (il termine, che marca in modo esplicito la nozione di "differenza li nguistica", è stato coniato nella Grecia antica, in rapporto all'accentuata variazione diatopica del suo territorio). Qui interessa rintracciare una definizione linguisticamente valida del termine "dialetto". Da un punto di vista formale (fonologia, morfol ogia, sintassi) è evidente che un dialetto non si differenzia tipologicamente da ciò che chiamiamo "lingua letteraria". Converrà perciò ricercare una definizione di dialetto in un'altra direzione, che è poi quella seguita dal fondatore della dialettologia italiana, lo studioso goriziano Graziadio Isaia

Ascoli (1829-1907), il quale, indagando la storia dei fenomeni linguistici attraverso la loro

espansione spaziale, giunse a determinare tipi dialettali costituiti non da fenomeni riscontrabili singolarmente in una regione, ma dalla loro combinazione (in senso cartografico il dialetto non è una "serie", bensì una "rete" di isoglosse o, altrimenti detto,

un'area di aree di diffusione di specifici fenomeni linguistici). Proprio quest'ultima circostanza risulta caratterizzante: infatti una certa peculiarità linguistica, riscontrabile in un'area dialettale, può ripresentarsi identica in un'area dialettale confinante, ma non per questo motivo questo o quel dialetto perde la sua individualità, che è data appunto dalla

presenza simultanea in una certa regione di caratteri linguistici che possono riapparire

separatamente anche altrove. Da quanto abbiamo detto si ricava pure che tra dialetto e dialetto non possono sussistere confini rigidi ma fasce di transizione in quant o uno stesso fenomeno linguistico può essere comune a più aree dialettali.

19.5. Classificazione dei dialetti italiani

Una classificazione moderna dei dialetti italiani deve pertanto tener conto esclusivamente di dati linguistici (isoglosse e "reti di isoglosse", secondo percezioni micro- e macrodialettali) con riferimento ai criteri fondamentali indicati da Ascoli ed applicati alla situazione linguistica italiana da Clemente Merlo (1879-1960). In tal senso, proprio in base alla compresenza in determinate zone di serie coerenti di caratteri linguistici comuni, possiamo parlare di: 1) Dialetti settentrionali (comprendono i dialetti a sostrato celtico o

celtoligure del Piemonte, della Liguria, della Lombardia e dell'Emilia -Romagna; a parte

vanno considerati i dialetti veneti, che non condividono lo stesso sostrato, in quanto si impiantano su un sostrato venetico); 2) Dialetti toscani ( a sostrato etrusco: comprendono una sezione centrale o fiorentina alla quale si oppongono da una parte i dialetti occidentali di Pisa, Lucca e Pistoia, dall'altra quelli orientali di Siena, Arezzo e della Valdichiana); 3) Dialetti centro-meridionali ( comprendono sottogruppi, caratterizzati da specifiche reti di isoglosse: a) marchigiano -umbro-romanesco con

sostrato sabino, b) abruzzese-pugliese settentrionale con sostrato messapico, c)

molisano-campano-basilisco con sostrato osco, salentino-calabro-siculo con sostrato

mediterraneo).

Caratteristiche fonetiche comuni a tutti i dialetti settentrionali (secondo una percezione macrodialettale) sono: lo scempiamento delle consonanti lunghe o geminate (es. [ll] > [l]: latino tardo caballu(m) > piem., lomb., emil. kaval, ven. kavalo, ma it. cavallo); la lenizione, cioè la sonorizzazione delle occlusive sorde o il dileguo delle sonore, entrambe in posizione intervocalica (es.[-t-] > [-d-]: latino tardo di(gi)tu(m) > lomb. ant. dido, pav. did (con sincope di sillaba postonica), piem. piöcc, ven. peocio "pidocchio" da latino tardo peduc(u)lu(m), ma it. dito, pidocchio); la palatalizzazione dei gruppi consonantici [cl] e [gl] (es. lat. clamare > piem. ciamé, emil. ciamér, ven. ciamár (con diverso trattamento della vocale di sillaba tonica) ma it. chiamare, lat. tardo glacia,-o > piem., lig. giasa, lomb., emil. giatz, ven. giaso ma it. ghiaccio). Nel vocalismo assistiamo alla palatalizzazione di [a] in [e] quando tale vocale sia in sillaba tonica aperta (cfr. gli esiti già discussi con esclusione dei dialetti veneti) e in modo più sporadico alla palatalizzazione della [u] lunga latina, per cu i in vari dialetti settentrionali si riscontra una pronuncia analoga a quella della [u] in francese (questi ultimi due fenomeni sono stati ripetutamente attribuiti al sostrato celtico).

Caratteristiche fonetiche comuni ai dialetti toscani (secondo una perc ezione macrodialettale) sono: il passaggio del nesso latino [r] + [i semivocalica] ad una [i

semivocalica] (es. lat. area, attraverso il lat. tardo *aria, dà nei dialetti toscani e quindi in italiano aia, mentre altrove, per es. in zone centro-meridionali, abbiamo ara; per un caso analogo, cfr. toscano e italiano Gennaio, ma nap. Gennaro, entrambi da lat. Ianuarius). Altri fatti fonetici, tipicamente toscani, non si sono affermati nell'italiano: tra questi una particolare pronuncia della affricata prepalat ale (es. la [-c-] di [noce]) che, in posizione intervocalica, viene resa come una fricativa (il fenomeno è graficamente espresso già dal 1427, in un documento in cui si legge "la via del nosce" e dove l'ultima parola è un tentativo di resa grafica della pronuncia toscana corrispondente a quella della parola italiana noce). Molto più vistoso è il fenomeno della spirantizzazione di [ -t-], [-p-] e soprattutto di [-k-] intervocaliche (la cosiddetta "gorgia" con allusione alla pronuncia spirante o "di gola") per effetto del sostrato etrusco: possiamo indicare le pronuncie toscane facendo seguire alla grafia delle consonanti in questione quella di una [h] (per es. amicho, scopha, ditho), ma in ogni caso dobbiamo avvertire che in certe zone [ -k-] e [-t-] arrivano al dileguo (amío = amico, prao = prato).

Caratteristiche fonetiche comuni a tutti i dialetti centro -meridionali (secondo una percezione macrodialettale) sono: assimilazione progressiva dei gruppi consonantici [nd] e [mb] in [n] intensa ed [m] intensa (es. l at. mundus > rom. monno, nap. munnë, ma it. mondo; lat. plumbum > nap. chiummë, ma it. piombo) per effetto del sostrato osco e sabino (i due sostrati rappresentano tradizioni linguistiche vicinissime); passaggio di [b -] iniziale (ma anche dei nessi [br-] e [-rb-]) a [v] (es. lat. bucca, basiare > nap. vocca, vasare, ma it. bocca, baciare); riduzione del gruppo consonantico [pl-] all'inizio di parola ad articolazione occlusiva palatale (es. lat. plus, plumbum > nap.kkiú, kkiummë, ma it. piú, piombo). Il limite settentrionale dei fenomeni fonetici di tipo prettamente meridionale è costituito da una linea ideale che, partendo da poco a sud di Ancona, raggiunge il Tirreno immediatamente a sud di Roma. In questi fenomeni rientrano anche quelli già trattati in precedenza, quali la metafonesi e la presenza di una vocale indistinta [ë] in sillaba atona o debolmente accentata. Un tratto abruzzese -pugliese settentrionale caratteristico (dove per "abruzzese" si deve intendere l'Abruzzo adriatico, perché quello interno r ientra a nord nell'area marchigiano-umbro-romanesca e a sud in quella molisano-campano-basilisca) è la pronuncia palatale di [a] tonica (il notissimo [Bèri] per Bari). Un tratto salentino-calabro-siculo caratteristico è la pronuncia invertita o cacuminale della [ll] intensa (es. [stedda, padda] per [stella, palla]). In questi ultimi due casi il richiamo al sostrato (messapico e mediterraneo, rispettivamente) è assai più incerto a causa dell'insufficienza o dell'elusività della documentazione antica.

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