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Una caso particolare di variazione sociale della lingua è rappresentato dall' italiano

popolare. Manlio Cortelazzo (1972), occupandosi specificamente del problema, ha

denunciato il carattere "equivoco e polivalente" dell'aggettivo, facendo notare che di fatto siamo in presenza di un calco di "français populaire". In effetti il termine "popolare" ha un senso che, per quanto concerne il suo impiego linguistico, sembra venire da molto lontano ed alludere genericamente alle differenze tra lingua delle persone colte e lingua degli indotti o addirittura degli analfabeti. Basti pensare al valore che ha il termine "volgare" in Dante (cfr. il lat. vulgus "popolo" e vulgaris "popolare") come designazione della lingua del popolo per opposizione al latino (la gramatica), lingua dei dotti. Allo stesso modo, in documenti medievali germanici, theodisca lingua designa la lingua popolare (cfr. antico tedesco theoda "popolo") sempre per opposizione alla lingua dei dotti, cioè il latino, ed il termine assume una tale importanza che finisce per diventare l'aggettivo etnico tedesco impiegato per designare l'intero popolo. Il fenomeno dell'italiano popolare, se si tiene conto di antecedenti storici così ragguardevoli, merita pertanto un attento esame. Manlio Cortelazzo ne ha fissato così i caratteri essenziali: l' oralità (con ciò non si vuol dire che l'italiano popolare non può per definizione manifestarsi in forma scritta , ma piuttosto si vuole sottolineare che il suo contesto pragmatico è quello colloquiale); la

caratterizzazione sociale (i suoi utenti ne riconoscono il carattere dimesso e persino

volgare e lo collocano ai gradini più bassi di una scala che al vertice ha il linguaggio della borghesia colta); la localizzazione (prevalentemente urbana, in una situazione di compromesso tra lingua nazionale e dialetto in persone provenienti dalle zone rurali). Un

altro fatto caratterizzante è il seguente: la lingua colta è le gata alla "normatività", tipico contrassegno del suo contesto istituzionale; quella popolare si riconosce nella "spontaneità", che non è tuttavia sinonimo di anarchia. Si potrebbe dire, mutuando espressioni in uso nella semiologia delle culture, che la pri ma è espressione di una civiltà essenzialmente grammaticale, che costruisce le sue manifestazioni a partire da un insieme definito di regole comunicative; la seconda invece si manifesta in una civiltà essenzialmente testuale, creatrice immediata di messaggi epico-narrativi, da cui semmai in un secondo momento si possono inferire le regole di una "grammatica" comunicativa. Se teniamo nel debito conto le condizioni sociolinguistiche del nostro paese, che è stato per lunghissimo tempo un coacervo tutt'altro ch e omogeneo di culture rurali linguisticamente manifestate dai dialetti, e che soltanto da poco più di un secolo cerca, attraverso equivoci nazionalistici e compromessi qualunquistici, di conseguire un'effettiva unità anche linguistica, la definizione ovviamente provvisoria perché contingente di "italiano popolare" potrebbe essere la seguente: "... il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto" (Cortelazzo). Per quanto concerne l'uso di "popolare", su cui si è già discusso, bisogna dire che i sensi attribuibili a questo aggettivo sono molti ed in rapporto ad assai diversi punti di vista (sociali, politici, culturali, tradizionali, etc.). Ma per noi è importante constatare che l'italiano popolare è sostanzialmente unitario in quanto, sebbene sorto dalla matrice multiforme di svariatissimi dialetti, ha trovato nell'istruzione obbligatoria e nei mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, stampa, televisione) due potenti fattori di unificazione.

20.2.1. Il lessico dell'italiano popolare

In questa sede è nostro compito precipuo quello di individuare i caratteri linguistici dell'italiano popolare in modo da offrire alla problematica della varietà sociolinguistica il riscontro di fatti puntualmente verificabili.

Nel lessico si nota una scarsa incidenza di forme dialettali, evidentemente a causa del loro minimo prestigio sociale e culturale: l'attacco ai dialetti è partito, soprattutto per il passato, dalla scuola con punte di così accesa e viscerale fobia da far rifiutare al discente termini autenticamente italiani solo perché esistono col medesimo valore anche nel dialetto. Valga un esempio per tutti: la preferenza, nell'italiano popolare, di babbo (ritenuto "più italiano"), a papà, che per altro è diffusissimo in Italia e ben presente anche in Toscana, solo perché esso è largamente presente anche nei dialetti. In conseguenza di questo fenomeno di "rimozione linguistica" notiamo altresì un'oggettiva carenza nella lingua popolare di termini adeguati ad esprimere realtà ed es perienze specifiche connesse con l'agricoltura, le attività casalinghe, la gastronomia e le usanze locali. La ragione di ciò risiede nel timore di non essere compresi, se si usano gli appropriati termini dialettali, a meno che questi non siano collegati a realtà di assoluto successo: è il caso di voci come panettone, grissino e pizza, di cui nessuno più avverte l'origine settentrionale (lombarda e piemontese, rispettivamente) o meridionale. Ma in altri casi sarà necessario un compromesso con risultati di desolante genericità, come sarebbe quella di un napoletano inurbato a Milano che, parlando italiano popolare al fine specifico di farsi comprendere, dicesse biscotto o biscottino per designare la "fresella" o si contentasse di designare con il

termine ciambella il ben distinto ed inconfondibile "tarallo". Bisogna poi tener conto di un blocco istituzionale, una sorta di generalizzato tabù linguistico, che affligge l'utente della lingua popolare: la scuola gli ha fornito di solito corrispondenze lessicali "di aletto-italiano" solo per i concetti "lirici" della vita, nel quadro di quell'inveterato petrarchismo e di quella sempre verdeggiante arcadia che in modo plurisecolare hanno colonizzato le cosiddette "belle lettere". Si può esser certi che, messo alle stre tte, egli dirà sempre mucca o giovenca e mai vacca, oppure, come nel caso di un piemontese, ricorrerà all'eufemistico va' (con troncamento della seconda parte della parola) o al dialettale vaché, pur di non pronunciare il disdicevole termine vaccaio (del resto l'ultra-americano cowboy, immortalato in chilometri e chilometri di pellicole cinematografiche, non è altro che un'ulteriore risposta eufemistica al molto contestato concetto di "guardiano delle vacche"). Infine, sempre nel quadro dei compromessi tra lingua e dialetto tipici dell'italiano popolare, vanno registrati i frequenti casi di prestito semantico, cioè l'uso di parole che, italiane per forma, assumono un significato proprio del loro corrispondente dialettale. E' interessante notare che in questi casi il parlante non ha più alcuna coscienza della matrice dialettale del suo comportamento linguistico: i piemontesi, ad esempio, parlando l'italiano popolare, usano il verbo chiamare in luogo di domandare, chiedere, giacché nei loro dialetti questi tre verbi hanno un solo corrispondente nella forma dialettale ciamé; i meridionali, a loro volta, in situazione di italiano popolare, usano imparare in luogo di insegnare o cacciare (ad es. in cacciare le carte "produrre documenti") in luogo di "metter fuori, procurare" (cacciare originariamente significa solo "andare ad una battuta di caccia", che consiste appunto nello "scacciare" la selvaggina dal bosco per poi colpirla o catturarla).

20.2.2. Morfologia e sintassi dell'italiano popolare

Molto articolato è anche il panorama che offrono la morfologia e la sintassi dell'italiano popolare. Qui citeremo solo i fatti più importanti: in primo luogo il gran numero di concordanze logiche del tipo la gente muoiono, spia di un modo di parlare spontaneo e comunque poco sorvegliato. Casi di concordanza abnorme vanno invece spiegati con riferimento ad usi radicati nel dialetto: tipico è scusi, siete forestiero voi di qui?, in cui si incrociano una formula di cortesia della lingua standard, propria di ceti socialmente elevati, ed il ricorso al "voi" di rispetto che è tipicamente meridionale). Altro fatto notevole è la ridondanza pronominale (es. a me mi piace): in questo caso, anche se il fenomeno è presente pure nei dialetti, la causa della ridondanza va ricercata nella normatività scolastica, che ammette entrambi i costrutti separati (cioè: a me piace, mi piace) e si dovrà anche tenere presente il carattere ripetitivo ed enfatico, che è proprio del linguaggio parlato. Caratteristiche sono poi le neutralizzazioni pronomina li: ad es. ci piace? in luogo di le/gli/a loro piace? è un fatto più facilmente riscontrabile nell'area settentrionale, ma presente anche nel resto della penisola; panitaliano, a livello sempre popolare, è invece gli in luogo di le/a loro piace. In questo caso siamo in presenza di un fenomeno di economia linguistica, cioè la tendenza a neutralizzare nel caso del pronome di terza persona le opposizioni morfologiche di numero e di genere. Altro fatto è la comparazione analogica (es. più migliore, che nasce dalla circostanza che non è più avvertito il carattere già comparativo dell'aggettivo migliore, per cui si verifica in effetti

un fenomeno di rideterminazione morfologica). Nella prospettiva dell'economia linguistica vanno pure visti gli usi di meglio in luogo di migliore (es. questo libro è meglio), in cui assistiamo ad un caso di neutralizzazione lessicale. Ulteriori fatti caratterizzanti sono la polivalenza della congiunzione che in rapporto a frasi dichiarative, temporali, finali, consecutive e l'uso di che come pronome relativo o aggettivo interrogativo: del resto in un testo, sia scritto sia orale, di italiano popolare la frequenza dei che è uno dei fenomeni più vistosi. Frequente è pure l'analogia verbale (dasse e stasse, rifatti sulla prima coniugazione, in luogo di desse e stesse; ma si considerino pure i comunissimi vadi per vada, venghino per vengano, dissimo per dicemmo, dicano per dicono e così via). Nella frase io credo che lui sa in luogo di io credo che lui sappia assistiamo ad un fenomeno di incoerenza modale, che dipende dall'accentuata tendenza dell'italiano contemporaneo a sopprimere l'uso del congiuntivo. Infine particolarmente vistosa nell'italiano popolare è la varia soluzione dei periodi ipotetici, che denotano incertezza davanti ad un costrutto che sembra esigere modi verbali diversi dall'indicativo (es. se potessi, facessi; se potrei, farei; se potevo, facevo; se potevo, farei ). Il rifiuto di modi subordinanti come il congiuntivo e, in parte, il condizionale rientra nella generale tend enza della lingua d'oggi ad evitare l'ipotassi, cioè l'uso di proposizioni dipendenti, ed a privilegiare la paratassi, cioè l'uso di proposizioni indipendenti e coordinate l'una con l'altra.

20.3. Diglossia, italiani regionali e "morte dei dialetti"

Si è detto in precedenza che l'italiano popolare presuppone l'acquisizione di una lingua comune da parte di chi parla originariamente il dialetto. Prima di questa evento (o anche in modo alternativo ad esso) in un medesimo parlante possono coesistere due varie tà della medesima lingua, quali, ad esempio, il dialetto e la comune lingua nazionale, usati alternativamente a seconda dei contesti sociolinguistici. Tale fenomeno si definisce

diglossia e Il termine è stato introdotto da C.A. Ferguson (1959) per descrivere una

situazione piuttosto frequente: si pensi alla dhimotikí, lingua popolare, ed alla katharévusa, lingua dotta e puristica, in Grecia; o, in Norvegia, al landsmål, lingua popolare autenticamente norvegese ("lingua del paese") che coesiste col boksmål o riksmål ("lingua dei libri" o "lingua del regno"), che è una forma di danese importata attraverso la dominazione. D'altra parte anche nella Roma antica si distingueva tra sermo plebeius "lingua popolare" e sermo eruditus, urbanus, perpolitus "lingua dotta", per non parlare del sermo castrensis "lingua dei soldati", che ha lasciato comprensibilmente tracce in vari idiomi neolatini.

Nel caso della situazione linguistica italiana la prolungata diglossia ha favorito la formazione di un certo numero di italiani regionali, che si configurano come passaggi obbligati dai vari dialetti alla lingua nazionale. Possiamo quindi supporre che il comportamento linguistico del cittadino medio si organizzi in uno schema tripartito:

italiano (soprattutto come lingua scritta o lingua delle occasioni ufficiali), italiano regionale (a livello colloquiale e con carattere di spontaneità), dialetto (in particolari

situazioni, magari sotto la spinta di fattori emotivi o alla ricerca di particolari effetti stilistici). L'italiano regionale segna per altro la "morte del dialetto", proprio nella misura in cui piuttosto che contrastarlo ne dissolve l'identità e la peculiarità "municipali" in un contesto più vasto. Infatti un dialetto "muore" se la comunità che se ne serve diventa, da

chiusa, aperta e perde progressivamente la coscienza della sua originalità linguistica: i tratti linguistici più marcatamente municipali vengono abbandonati e sostituiti con varianti più vicine al tipo regionale e il punto di arrivo è appunto un italiano con mascheratura dialettale.

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