III. Crimina mixti fori nella Repubblica di Venezia
4. Abusi di sacramento, «stregherie» e furti sacrileghi
Nei primi anni del Settecento il giurista Giovanni Maria Bertolli dovette occu- parsi di episodi legati a furti sacrileghi, sortilegi, «stregherie» e «malie»; in alcuni casi, per risolvere i dubbi provenienti dalla periferia, il consultore suggerì di lapplicare la dottrina di misto foro, linea che fu seguita dai suoi successori nel corso del secolo. Nel gennaio del 1701 Bertolli si occupò del caso di un furto sacrilego messo a segno da un galeotto, denunciato ai Savi all‟Eresia dal vesco- vo di Lesina. L‟uomo, del quale non si precisa l‟identità, si era tolto una parti- cola dalla bocca durante la comunione, tenendola «appresso di sé sino che dall‟eccellentissimo capitanio in golfo gli fu addosso per ritrovarla». Secondo il giurista il reato poteva essere scisso in due componenti che considerò separa- tamente:
59 Ivi, cc. n. n., consulto di fra Enrico Fanzio, sub data 18 febbraio 1768. Il Senato deliberò
quanto consigliato da fra Enrico Fanzio: sui dogmi ereticali avrebbe proceduto il Sant‟Uffizio, della bestemmia e della sollecitatio (avvenuta, come si è già detto, fuori dal confessionale) si sa- rebbe occupato il rettore, avviando un processo col rito del Senato. Ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 12 marzo 1768.
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quanto all‟estrensico se lui si ha levato il communichino con sentimento di vilipen- derlo e strapazzarlo con l‟offesa del corpo di Christo o pure servirsene di qualche sortileggio, come pare, che l‟indichino le lettere di monsignor vescovo o di qualche stregaria con fine di dannificare alcuna persona in questa parte che concerne un fatto esterno ancorché grave et enorme apetta la punizione et il castigo alla giustizia seco- lare, […] ma perché e passiamo alla seconda parte da tale atto estrinseco dall‟abuso di un tanto sacramento viene nell‟intrinseco a rendersi sospetta la credenza del gale- otto e perciò resta vehementemente indiziato di heresia per questo si è terminato e spedito il processo dall‟eccellentissimo provveditor generale doverà il reo esser ri- messo al tribunal della santa Inquisizione per espurgarsi da tale indizio et consiste in error dell‟intelletto e per render conto della sua fede e di ciò che tiene all‟animo suo.
I due elementi quindi presupponevano una suddivisione delle competenze circa la parte estrinseca e intrinseca considerate da Bertolli; il consultore consigliò di applicare la dottrina del misto foro: il Consiglio dei Dieci avrebbe potuto de- legare un procedimento al provveditore generale, dopodiché lo stesso caso sa- rebbe stato rimesso al Sant‟Uffizio, in modo tale che l‟inquisitore potesse inda- gare il sospetto d‟eresia.60 Lo stesso principio fu adottato anche per risolvere i
dubbi concernenti il caso di una presunta strega, Lucia Casotta; la donna era stata accusata «per pubblica voce e fama» di aver provocato la morte di alcune creaturine. Qualora vi fosse stata concorrenza nel reprimere determinati crimi- ni, suggeriva Bertolli, dovevano essere avviati due procedimenti, uno da parte del foro secolare e l‟altro da parte di quello ecclesiastico, nella fattispecie il Sant‟Uffizio.61
La stessa risoluzione fu suggerita anche in merito all‟episodio di una madre che aveva sciolto una particola consacrata nel brodo al fine di provocare l‟aborto della figlia nubile (i dubbi riguardanti la vicenda erano stati avanzati dal podestà di Chioggia). La donna non aveva ottenuto l‟effetto sperato: vi era sta- to un aborto sì, ma dell‟altra figlia che, regolarmente sposata, aveva bevuto il brodo per errore.62 La manipolazione di particole o altri oggetti sacri, come ha
scritto Claudio Povolo, era «una pratica sociale che apparteneva all‟indistinto mondo della cultura popolare e che tradizionalmente era di competenza del Sant‟Ufficio».63 Per quanto concerne l‟aborto, invece, si trattava di un crimine
di esclusiva competenza dell‟autorità secolare: esso era considerato un delitto pubblico «contro la vita dei cittadini» al pari dell‟infanticidio, del parricidio, «del parto esposto», dei duelli e delle varie tipologie di omicidio («colposo, casuale e
60 ASVe, Consultori in iure, fz. 154, cc. 3r-4r, consulto di Giovanni Maria Bertolli, 22 gennaio
1702.
61 ASVe, Consultori in iure, fz. 153, cc. 359r,v, consulto di Giovanni Maria Bertolli, 14 dicembre
1701.
62 ASVe, Consultori in iure, fz. 155, cc. 71r-72r, consulto di Giovanni Maria Bertolli, 12 maggio
1703.
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a necessaria difesa»).64 Per districare le competenze in merito a un aborto pro-
vocato con mezzi occulti, il consultore si era basato sul capitolare, lo strumento più valido per risolvere determinate questioni: secondo i capi diciannovesimo e ventesimo le erbarie, le stregherie, le malie e le divinazioni dovevano essere punite dal Sant‟Uffizio solo nei casi in cui fosse chiaro il sospetto d‟eresia. Questo e- lemento dovette apparire fondato a proposito del caso sopra esposto: il giurista suggerì, una volta terminato il processo da parte del podestà di Chioggia, di tra- smettere la donna anche al giudice di fede.65
L‟8 novembre 1708 la Congregazione del Sant‟Uffizio discusse il caso di fra Antonio Padersani, minore conventuale e maestro di grammatica a Lendinara, denunciato al Sant‟Uffizio di Rovigo con l‟accusa di aver commesso sortilegi; gli inquisitori generali stabilirono che il locale giudice di fede dovesse consulta- re, scrivendogli, il collega veneziano. A Rovigo, nel frattempo, il processo sa- rebbe proseguito con l‟interrogatorio di eventuali testi.66
All‟incirca una decina di giorni dopo il rettore di Rovigo riferì al Senato circa una sessione del tribunale del Sant‟Uffizio cui aveva assistito il proprio vicario pretorio. Nell‟occasione si era presentato un giovane che aveva denunciato An- tonio Padersani. Secondo il teste, il frate aveva commesso alcuni sortilegi uti- lizzando particole consacrate, alcune delle quali erano «state involte […] in mo- lica di pane e date da mangiare a un cane con rinnegare la santissima trinità», lo accusava, inoltre, di aver mangiato una carta sottoscritta col proprio sangue e di essersi dedicato a “tracciare” circoli magici, invocando gli spiriti per ottenere l‟invisibilità. Allo stesso scopo aveva compiuto un sortilegio con una testa di morto e con una candela, altri riti erano stati messi in atto per «non cascar da cavallo». Inoltre, riportò il rettore, a Padersani erano imputate tutta una serie di massime ereticali che il religioso avrebbe proferito: dubbi sulla verginità di Ma- ria, aver detto che la «polluzione» non fosse peccato e che non vigesse l‟obbligo di confessare i peccati di gioventù e aver espresso l‟inutilità di svolge- re le penitenze assegnate in confessionale; fra le colpe addossate a Padersani vi
64 Su questo proposito cfr. lo schema dei delitti compilato in occasione del riordino della mate-
ria penalistica veneziana, v. ASVe, Consultori in iure, fz. 476, cc. n. n., schema dei Delitti pubblici. Sullo stesso caso stesso Bertolli scrisse: «per il secondo dell‟aborto il caso è del foro secolare a riguardo che quella malefica operazione ha causato la morte di una creaturina prima del suo nascere e perciò contro il reo si deve procieder criminalmente col parlar a quel castigo che seco porta una tale delinquenza», ASVe, Consultori in iure, fz. 155, c. 71v, 12 maggio 1703.
65 Ivi, c. 72r.
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era anche il possesso di un libro proibito, si trattava di uno dei più diffusi e noti manuali di magia, la Clavicola di Salomone.67
Il rettore aveva dei dubbi sulle competenze: se le proposizioni ereticali erano più facilmente ascrivibili alla sfera giurisdizionale del Sant‟Uffizio, la questione dei sortilegi era più complicata. Il podestà e il vicario pretorio avevano deciso di sospendere il processo in attesa di ordini più precisi da parte del Senato. Il rappresentante ne aveva parlato anche con il giudice di fede, il quale «con mo- destia» aveva fatto le proprie osservazioni in merito, sostenendo che tale reato, al pari delle massime ereticali e del possesso di libri proibiti, rientrava fra quelli perseguibili dal Sant‟Uffizio.68 Antonio Sabini e Celso Viccioni sottoscrissero il
parere giuridico che avrebbe avuto lo scopo di soccorrere il rettore di Rovigo; le imputazioni ascritte a Padersani, esposero i consultori in iure, dovevano esse- re divise in due categorie: «opinioni» e «operazioni». Sulla prima, era competen- te il Sant‟Uffizio che aveva la facoltà di procedere contro le infrazioni del dog- ma fissate dai «concili, dai santi padri e dai sommi pontefici».
Per quanto riguardava le operazioni – i sortilegi, le divinazioni, «mallie e strega- rie», alcune commesse con abuso di sacramenti, altri «per esercizio di altre pe- stifere sue abominazioni» – le considerazioni da farsi erano altre: «tutte queste […] hanno l‟attrocità intrinseca che le rende pericolose alla società humana et odiose a principi, i quali la governano», specificarono i giuristi. Contro questi reati la Repubblica aveva sempre fulminato leggi molto severe e punizioni al- trettanto esemplari. Il tribunale della fede quindi avrebbe potuto procedere so- lo sui cosiddetti sortilegi qualificati: quelli che contemplavano qualche abuso sa- cramentale. Gli altri, quelli semplici, dovevano rimanere una materia per la quale era competente solo il foro laicale. L‟intreccio delle competenze fu risolto con l‟applicazione della dottrina del misto foro: l‟Inquisizione aveva diritto di ter- minare il processo già avviato (in applicazione della preventio), dopodiché l‟autorità secolare – alla quale spettava comunque vigilare sull‟operato dell‟inquisitore – si sarebbe occupata di perseguire i crimini a essa spettanti.69
67 Sulle molteplici tradizioni del testo e la sua circolazione clandestina v. F.BARBIERATO, Nella
stanza dei circoli. Clavicola Salomonis e libri di magia a Venezia nei secoli XVII e XVIII, Milano, Edi-
zioni Sylvestre Bonnard, 2002.
68 ASVe, Senato Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 20, dispaccio del podestà di Rovigo al
Senato, sub data 17 novembre 1708.
69 Ivi, cc. n. n., consulto di Antonio Sabini e di Celso Viccioni, sub data 12 dicembre 1708. Per
maggiore chiarezza i consultori riportarono in copia i capi diciannovesimo e ventesimo del capi-
tolare. Il 22 dicembre il Senato deliberò che, in conformità di quanto suggerito dai consultori,
dovesse proseguire il procedimento avviato dal Sant‟Uffizio (il rettore avrebbe vigilato atten- tamente affinché il giudice di fede non sconfinasse i limiti delle proprie competenze). Termina- to il processo di fede, il rettore avrebbe avviato un altro procedimento sulle malie, «stregarie» e sui sortilegi non qualificati. Al termine di entrambi i procedimenti avrebbero trovato applicazione le sentenze. Ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 22 dicembre 1708.
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Il percorso circolare costituito dal dispaccio del rappresentante, dal parere dei Consultori in iure e dalla deliberazione del Senato che approvava quanto stabili- to dai giuristi – a proposito dello stesso caso – si ripropose tra il gennaio e il giugno del 1709. Il podestà scrisse al Senato sia per informarlo sullo svolgersi del procedimento inquisitoriale, sia per riproporgli i propri dubbi riguardo le competenze. Dal dispaccio si evince che era avvenuta una perquisizione a casa dell‟imputato, senza che fosse stato rinvenuto nulla a carico di Padersani; a Lendinara erano stati interrogati alcuni testimoni che a causa «delle strade e dei fiumi agghiacciati» non avevano potuto recarsi in tribunale. Ciò era avvenuto in conformità delle leggi: le testimonianze erano state raccolte alla presenza di un rappresentante secolare. Tuttavia, al podestà era parso che l‟inquisitore volesse procedere anche sui sortilegi semplici e sulle altre materie su cui non era com- petente. Il problema si ripresentava nuovamente, ciononostante il rettore aveva deciso di lasciar proseguire il procedimento: avrebbe adottato la sospensione dell‟assistenza qualora vi fossero state altre controversie, per ora si era limitato a richiamare l‟inquisitore.70
Naturalmente le tipologie di sortilegi erano amplissime e ogni volta che non fossero incorsi soprusi o vizi procedurali particolarmente gravi da parte del
70 ASVe, Senato Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 21, cc. n. n., dispaccio del podestà di Ro-
vigo, Giacomo Morosini, al Senato, sub data 26 gennaio 1709. I consultori in iure chiamati dal Senato a vergare un parere giuridico sul caso specifico, ritennero fondati i dubbi del podestà che avrebbe dovuto, secondo il loro suggerimento, vigilare attentamente sull‟operato del giudi- ce di fede, ricordandogli di procedere solo sul sospetto d‟eresia. Ivi, c. n. n., consulto di fra Odoardo Maria Valsecchi e del conte Antonio Sabini, sub data 5 giugno 1709. Segue la parte del Senato con la quale si deliberava di richiamare l‟inquisitore a indagare solo sull‟error intellecti la- sciando il resto all‟autorità secolare. Ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 20 giugno 1709. I decreta del Sant‟Uffizio forniscono notizie concernenti le fasi del processo contro fra Antonio Padersani; il 6 febbraio 1709 la Congregazione del Sant‟Uffizio stabilì che si dovesse proseguire il procedimento contro il frate, il sommario del processo sarebbe stato poi inviato a Roma. Il 17 aprile gli inquisitori generali stabilirono che fra Antonio fosse interrogato sull‟intenzione con la quale aveva commesso i sortilegi che gli erano stati imputati: qualora a- vesse risposto cattolicamente il religioso sarebbe stato asoggettato all‟abiura de vehementi. Gli sarebbero state inflitte solo penitenze salutari, come se il frate si fosse presentato spontanea- mente nelle aule del tribunale, e «cum acri admonitione» sarebbe stato licenziato dal Sant‟Uffizio. Lo stesso sarebbe avvenuto anche per Giuseppe Clerici che nel corso del proce- dimento era stato riconosciuto come complice di Padersani (la Congregazione del Sant‟Uffizio stabilì anche per lui l‟abiura de vehementi e le penitenze salutari, specificando che anche lui do- vesse essere trattato alla stregua di uno sponte comparso). Probabilmente l‟inquisitore di Rovigo, in seguito al richiamo del podestà, chiese lumi alla Congregazione, la quale lo invitò a comuni- care con l‟inquisitore di Venezia, sollecitandolo a inviargli gli atti processuali, affinché assieme potessero pervenire alla migliore risoluzione. Della causa di fra Antonio Padersani la Congre- gazione del Sant‟Uffizio discusse anche il 18 giugno e il 28 agosto 1709, senza, tuttavia, che fosse presa nessuna decisione, la discussione fu semplicemente rimandata per due volte; dopo- diché non se ne trova più traccia fra le carte dei Decreta. Cfr. ACDF, Decreta S. O. (1709), cc. 54r, 95r, 162v, 242r, 288r, 439r,v, decreti del 6 e 28 febbraio, 17 aprile, 29 maggio, 18 giugno, 28
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Sant‟Uffizio i consultori erano concordi nel consigliare l‟applicazione della dot- trina del misto foro. Così avvenne anche nel caso segnalato dal provveditore generale di Dalmazia, sul quale fra Paolo Celotti fu chiamato a esprimere un parere giuridico. Il rappresentante aveva segnalato al Consiglio dei Dieci i delit- ti commessi da Alfonso Torme, Pietro Tondo, Giovanni Francesco Dimer e Giacomo Borbon (alcuni componenti di una soldatesca di stanza a Budva). «Nel qual caso» – precisò il servita – «esamineremo la qualità de delitti e la condizione de delinquenti, aggiongendo il modo legale da osservarsi dall‟una all‟altra podestà ecclesiastica e civile in punirli». I soldati, secondo la ricostru- zione resa dal giurista, avevano compiuto dei sortilegi per invocare il diavolo e per far ciò avevano dissotterrato una «testa battezzata»; avevano, inoltre, abusa- to del sacramento dell‟eucaristia dando da mangiare una particola a un cane che poi avevano scannato per offrirlo in sacrificio al demonio. «Il che», prosegue il consulto, «è una concepita e dissegnata sacrilega apostasia della religione» riser- vata alla giurisdizione del Sant‟Uffizio; le colpe che riguardavano le offese a Dio «et enorme ingiuria e strapazzo del corpo di Christo» rientravano nella sfe- ra di competenze dell‟autorità secolare. Il consultore quindi, in applicazione della dottrina del misto foro, stabilì che prima dovesse procedere il provvedito- re generale (consigliando anche la procedura: la delega col rito del Consiglio dei Dieci) dopodiché il foro ecclesiastico avrebbe avviato un procedimento sull‟intenzione.71
Intorno agli illeciti compiuti da un altro soldato dalmata, fra Enrico Fanzio costruì un parere giuridico intitolato: «in materia criminale di misto foro». Il soldato Domenico Zanona aveva rubato una particola consacrata per compiere un sortilegio che, detto comunemente «ingermadura», l‟avrebbe preservato dai colpi d‟arma da fuoco. Lo stesso Zanona era stato accusato anche di aver invo- cato il diavolo rinnegando la fede cattolica, dopo avergli promesso «servitù e amore». Durante l‟atto di apostasia l‟imputato aveva scagliato a terra l‟ostia «con formal disprezzo» allo scopo di ottenere denaro da Satana (si prevedeva- no anche in questo caso i due processi, con l‟applicazione – al loro termine – di entrambe le pene).72
Il caso riguardante Domenico Risi e un tale don Carlo di Brescia, risulta par- ticolare per le considerazioni di fra Paolo Celotti sul privilegio della spontanea comparizione al Sant‟Uffizio. I due, secondo il resoconto del consultore (basa- to sui dispacci inviati dal rettore di Bergamo al Consiglio dei Dieci), si erano presentati spontaneamente nelle aule del sacro tribunale confessando di aver invocato il demonio «con rinegar il battesimo, Iddio, la santissima trinità e Ma-
71 ASVe, Consultori in iure, fz. 187, cc. 427r- 428v, consulto di fra Paolo Celotti, 19 novembre
1717.
72 Su Domenico Zanona v. ASVe, Consultori in iure, fz. 227, cc. 308r e ss., 378r e ss., consulti di
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ria Vergine e con abusarsi di alcune particole consacrate». Domenico Risi aveva confessato di possedere alcuni «segreti», delle formule magiche per ottenere l‟amore, «per far morir e tormentar li propri nemici, per andar invisibile e per restar illesi dalle archibuggiate». Il sacerdote, poi, aveva detto di aver consegna- to cinque particole consacrate al socio. Analizzando la natura dei crimini de- nunciati al Sant‟Uffizio di Bergamo, fra Paolo Celotti affermò che sicuramente essi dovessero essere ascritti all‟orbita giurisdizionale del Sant‟Uffizio (i due e- rano «violentemente sospetti d‟eresia» nonché «apostati della cristiana religio- ne»). Tuttavia, precisò il giurista, per chi si presentava spontaneamente al Sant‟Uffizio confessando le proprie colpe era prevista l‟assoluzione, a patto che non fosse precedentemente incappato in un altro processo di fede. Se l‟inquisitore aveva assolto i due sponte comparentes altrettanto non avrebbero fatto le magistrature secolari, investite, secondo il capo ventesimo del capitolare, dell‟autorità di poter procedere contro «stregherie» e «mallie», svincolate dal so- spetto d‟eresia;73 si trattava di una questione che, come si vedrà meglio in segui-
to, impegnò anche l‟inquisitore di Udine a proposito delle presunte streghe di Buttrio, caso al quale si è dedicato un capitolo specifico all‟interno della tesi.
Celebrare una messa a onore del diavolo, questa era stata la motivazione che aveva spinto padre Tommaso a rubare la «pietra sacra» (la tavola di marmo che fungeva da altare) nella chiesa di San Carlo di Udine. Il frate aveva organizzato un rituale segreto per invocare il diavolo affinché questi gli portasse soldi; la messa era stata celebrata in un luogo poco distante da Tolmezzo, la chiesa di Santa Maria, e vi avevano assistito diverse persone invitate dal religioso. Nell‟occasione il frate aveva aggiunto «passi più misteriosi del sacrifizio» tratti da un «certo libro con cui scongiurava il demonio a portargli del danaro». Ana- lizzando l‟intera vicenda, fra Paolo Celotti scrisse:
73 ASVe, Consultori in iure, fz. 208, cc. 57r-58v, consulto di fra Paolo Celotti, 3 dicembre 1738.
Rappresentativo a proposito è il caso di Pietro Cler. «Dalle divine scritture è cosa chiara che la cura della religione è raccomandata soprattutto il resto alla protezione de principi della maestà divina, la quale promette tranquillità e prosperità […] siccome minaccia desolazione e distru- zione di quei governi, ove i principi abbandonano una simil cura». Così esordì Paolo Celotti in un consulto scritto sulle proposizioni ereticali proferite e disseminate da Pietro Cler che, se- condo il parere del consultore, doveva essere rimesso alla giurisdizione del Sant‟Uffizio, il tri- bunale che doveva occuparsi di tener «il popolo mondo dall‟eresia»; e, tuttavia, proseguì Celot- ti, l‟eresia non era solo di pregiudizio alla religione: «non solo offende la maestà divina, ma an- cora porta notabile turbazione della pubblica quiete e perciò il principe come a quello di cui la