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IV. Controversie sulle procedure Inquisitori ammoniti, cacciati e derisi

4. Controversie sugli editti

Nel corso del Settecento si radicò la consuetudine di richiamare, pubblicamen- te o per mezzo dei rappresentanti secolari che prestavano loro assistenza, gli inquisitori e soprattutto quelli che avessero trasgredito le norme sulle procedu- re. L‟esempio più eclatante vide come protagonista l‟inquisitore di Udine, fra Carlippolito Baratti, il quale – intorno alla metà del secolo - fu ammonito per ben tre volte dalle pubbliche autorità, come si illustrerà meglio in seguito.45

Il controllo sulle procedure adottate dai giudici di fede fu sempre minuzioso, soprattutto quando le trasgressioni erano strettamente intrecciate a quelli che erano ritenuti abusi giurisdizionali. Rappresentativo è l‟esame puntuale del testo dell‟editto che l‟inquisitore di Brescia intendeva pubblicare al momento del proprio ingresso in carica, un‟analisi redatta dal servita fra Odoardo Maria Val- secchi. Il 15 febbraio 1706 dedicò una lunga scrittura alla spiegazione degli er- rori che aveva rinvenuto durante l‟analisi del testo. Innanzitutto, chiarì il giuri- sta, la materia era stata riordinata e fissata nel capitolare per mano del suo illustre predecessore, fra Paolo Sarpi. Il primo vizio rilevato dal giurista si riferiva a un‟espressione relativa alle pene comminate dal sacro tribunale: «oltre l‟altre pene da decreti, costituzioni e bolle de sommi pontefici imposte». Essa risulta- va pregiudizievole, come spiegò Valsecchi:

nel capo 28 del suddetto capitolare si ha che dalli assistenti al tribunale non sia per- messo che venghi pubblicata bolla pontificia overo ordine alcuno delle congregazio- ni di Roma, né nuovo, né vecchio, senza darne conto prima al principe come fu de- terminato dall‟eccelentissimo Collegio li 2 agosto 1607. Hora egli è certo, che quan- do la serenità vostra lasciasse vedere che si stampasse questa particola acconsenti- rebbe che s‟introducesse pia piano l‟osservanza di mote bollo, di Paolo IV di Pio V di Clemente VIII e di altri romani pontefici che per le loro esorbitanze e rigori non sono mai state accettate da vostra serenità, né si potrebbero porre in uso senza l‟evidente pericolo di conseguenze infelici.

curata la concordia a quei confini et esser pienamente portato il senato a far cessar le precau- zioni et assistenze a quella parte disposte nel che vi valerete di pubblici sentimenti espressi nell‟ufficio stesso et nel precedente con le instruzioni in essi prescritte come ben saprà essegui- re il vostro noto talento». Ivi, cc. n. n., deliberazione del Senato, sub data 20 agosto 1740.

45 Nel corso del Settecento, il primo inquisitore a essere richiamato in loco per ordine del Senato

fu il giudice di Rovigo: aveva delegato alcuni vicari foranei, senza che la Repubblica ne avesse approvata la nomina. Sulla questione dei vicari foranei si ritornerà successivamente. Relativa- mente al caso di Rovigo si deve aggiungere che nel 1708 un vicario della locale sede del Sant‟Uffizio aveva sottoscritto una fede a favore di un testo prodotto dall‟Accademia dei Composti di Lendinara, ciò era stato considerato come una grave trasgressione nei confronti delle leggi della Repubblica. La documentazione sul caso specifico si trova conservata in ASVe,

Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 21, cc. n. n. (in particolare il consulto del conte

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Il capo relativo alla magia, negromanzia, incantesimi e sortilegi era espresso in modo tale da contemplare anche quelle operazioni che fossero state eseguite «senza l‟abuso di cose sacre», il che – aggiunse Valsecchi – avrebbe comportato «grave intacco dell‟ordinaria laica podestà e contro il tenore del capitolare me- desimo alli capi 19 e 20». Dovevano essere modificati anche i capi relativi a chi offendeva il Sant‟Uffizio e ai detentori di libri proibiti: la loro formula non era corretta e lasciava trasparire maggiore autorità da parte del Sant‟Uffizio, rispet- to a quella che realmente poteva esercitare. In ultima analisi – rilevò Valsecchi – vi era una postilla relativa alle «pene arbitrarie» comminate dal sacro tribunale contro i parroci e i «superiori ecclesiastici» che si fossero rifiutati di far pubbli- care l‟editto o di tenerlo affisso. Questa nota doveva essere tolta, come spiegò il servita: «tale particola non può intendersi che di pene temporali e perché tra esse v‟è la pecuniaria quando questa fosse posta in uso saria non solo con pre- giudizio della laica potestà con gravamento del suddito […] Per ciò né meno questa […] può tollerarsi».46

Il 4 maggio 1756 anche fra Enrico Fanzio dedicò una scrittura agli errori con- tenuti in un editto pubblicato dall‟inquisitore di Bergamo. Il podestà aveva tra- smesso il testo al Senato esponendo i propri dubbi a proposito, dopodiché, come di prassi, il foglio era stato consegnato nelle mani del consultore al quale spettava valutarne il contenuto. Il metro di paragone era lo standard fissato dalle rigide normative in materia: l‟editto doveva essere costituto dai consueti sette punti, i quali corrispondevano ad altrettante trasgressioni, come si è già avuto modo di spiegare. Il testo esaminato – sentenziò il servita – differiva dal mo- dello; fra Enrico spiegò che alcuni capi dell‟editto facevano riferimento sia ai delitti compiuti in tempi recenti, sia a quelli che erano stati compiuti nel passa- to. Il servita riportò un esempio per chiarire meglio il concetto: «nell‟editto si comanda di notificar non solo quelli che le celebrano attualmente [le conventi- cole], ma ancor quelli che le avranno celebrate in passato». Questo era un pun- to che doveva essere corretto: «imperciocché la presunzione che chi fu una vol- ta cattivo sia sempre cattivo […] è soltanto una dubbia congettura e non mai una prova convincente che ciò sia vero, anzi un lungo ritegno dal delitto com- messo è una prova della emendazione del delinquente e che questi abbia can- cellato la colpa con un giusto dolore». Un altro passo sul quale il consultore dissentiva era quello relativo al reato di sollecitatio ad turpia: nell‟editto si faceva obbligo alle donne di denunciare i propri confessori, qualora si fossero mac- chiati di tale crimine. Il che, a detta del servita, poteva apparire come una vio-

46 ASVe, Consultori in iure, fz. 162, cc. n. n., sub data 15 febbraio 1706. Un paio di giorni dopo il

Senato ordinò al podestà di Brescia di bloccare la stampa dell‟editto per le «varie alterazioni» in esso contenute. Una copia del consulto sarebbe stata inviata in loco al fine di evitare nuovi erro- ri. Ivi, c. n. n., sub data 17 febbraio 1706.

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lenza nei confronti delle stesse penitenti, le quali avrebbero potuto compro- mettere il proprio onore denunciando le molestie subite in confessionale. Con- cludendo il consulto fra Enrico suggerì: «sarebbe bene che vostra serenità fa- cesse intendere al padre inquisitore di Bergamo, per via di quell‟eccellentissimo pubblico rappresentante, esser volontà sua che l‟editto sia pienamente confor- me alla regola stabilita nel capitolare, la quale ha di servire di formola a tutti gli editti dell‟Inquisizione da promulgarsi nel Serenissimo Dominio».47

Uno dei casi più clamorosi di trasgressione delle norme relative agli editti ri- guardò l‟inquisitore di Rovigo, fra Giulio Antonio Sangallo. Il 2 maggio 1770 il già citato giudice di fede indirizzò una lettera al rettore della stessa città. L‟inquisitore si mostrava particolarmente preoccupato: vi era una certa persona (non nominata) che andava spargendo «nel pubblico, anche con ementite e condannabili stampe […] certi libercoli» che offendevano la religione scanda- lizzando, a suo dire, «le menti dell‟idioto volgo». In particolare, fra questi libri, ve n‟era uno che l‟inquisitore definiva così: «tanto picciolo nella mole, altrettan- to malvagio per la dottrina pestifera che contiene ed è simile all‟aspide, il mini- mo tra i serpenti ma che nel veleno gl‟altri tutti a gran doppi supera». Il testo si intitolava Tre quesiti accademici trattati in tre separate lettere da un filosofo critico e se- condo il giudice di fede, chi l‟andava disseminando professava anche di esserne l‟autore.48 Nell‟informativa indirizzata al podestà, fra Giulio Antonio Sangallo

analizzò minuziosamente le parti del testo che lo rendevano, secondo il suo pa- rere, «malvagio»; in sintesi queste comprendevano esplicite simpatie nei con- fronti della poligamia per com‟era praticata dai mussulmani, e diverse critiche mosse ai padri della chiesa e al tribunale del Sant‟Uffizio (definito dall‟autore come «un pesantissimo giogo»). Nel testo i membri del sacro tribunale erano

47 ASVe, Consultori in iure, fz. 226, cc. 177r-179r, consulto di fra Enrico Fanzio, 4 maggio 1756. 48 Una copia dell‟opera è conservata in BNM, l‟indicazione bibliografica completa è la seguente:

Tre quesiti accademici trattati in tre separate lettere da un filosofo critico, Goa, a spese del Capriccio nella

Stamperia della Moda, 1768. Sulla base del Melzi e del suo Dizionario di opere anonime il testo è ascrivibile alla penna di Antonio Maria Manfredini; l‟ipotesi è avallata dal titolo di un‟opera scritta in risposta ai Tre quesiti accademici: le Lettere di un francese all‟autore italiano dell‟indifferenza nel

secolo decimottavo sui tre quesiti accademici, ch‟esso autore tratta in qualità di filosofo critico […], Venezia,

presso Antonio Zatta, 1776 (attribuita dallo stesso Melzi a un tale Brunone Marti). Ad Antonio Maria Manfredini, infatti, è attribuita anche La indifferenza nel secolo decimottavo (un volumetto del quale non si conosce con certezza la data di pubblicazione). I Tre quesiti accademici […] fu messo all‟indice con un decreto datato 16 gennaio 1770; a proposito v. Index des livres interdits, Jesus Martinez de Bujanda (a cura di), Sherbrooke-Géneve, Centre d‟Études de la Renaissance- Librarie Droz, 1984-2002, XI voll., vol. XI, p. 579. Per quanto riguarda fra Giulio Antonio Sangallo: fu nominato inquisitore di Rovigo con una patente datata 20 maggio 1766. ASVe, Se-

nato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 90 cc. n. n.; lo stesso inquisitore fu autore del testo Dallo stato della chiesa e legittimità del romano pontefice del medesimo sostenuta […] Libro apologetico contro il nuovo sistema dato alla luce da Giustiniano Febronio […], Venezia, Tommaso Bettinelli, 1766. Il

libro di fra Giulio Sangallo fu molto apprezzato dal pontefice, a proposito v. F.VENTURI, Sette-

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considerati come «fanatici ministri spietati», i quali «obbligano con tormenti, persuadono colle prigioni, convincono con i patiboli gli uomini ad abbracciare la fede». Probabilmente l‟inquisitore si sentì punto sul vivo e scelse di risponde- re vigorosamente alle accuse mosse contro il Sant‟Uffizio; scrisse: «falla egli in tutto […], i tormenti, le prigioni, i patiboli che tanto esagera l‟autore, sono co- me ogn‟un sa assai rari, né si adoprano se non dopo moltissimi caritatevoli in- viti a penitenza».49

Il giorno stesso l‟inquisitore di Rovigo fece stampare un editto all‟interno del quale si condannava il libro incriminato:

Decreto del tribunale della Sant‟Inquisizione di Adria. Emanato coll‟assistenza dell‟illustrissimo ed eccellentissimo signor Anzolo Priuli podestà e capitanio di Rovi- go e provveditore generale di tutto il Polesine. Essendosi furtivamenre introdotto in questa cristianissima e religiosissima città di Rovigo un libro che porta questo titolo:

Tre Quesiti Accademici trattati in tre separate Lettere da un Filosofo critico, Goa, a spese del

Capriccio nella Stamperia della moda, 1768 il quale con false dottrine combatte aper- tamente la cattolica religione e con artifiziose e diaboliche maniere tenta di estirparla dal cuor de‟ fedeli: il tribunale della Santa Inquisizione di Adria, a cui egli fu deferito, premesso l‟esame de teologi e fattane de‟ loro voti e censure in Sant‟Offizio la rela- zione, col presente decreto lo condanna e proibisce come contenente proposizioni rispettivamente false, temerarie, scandalose, erronee, empie ed eretiche. Quindi ardi- sca in qualunque modo, o luogo di questa diocesi e sotto qualsivoglia colore o prete- sto, ed in qualunque versione, o linguaggio stampare, o far stampare, vendere, tene- re, o leggere la sunnominata opera, ma debba subito portarla e consegnarla a questo Sant‟Officio e ciò sotto le pene e censure delle più rigorose forme da‟ sagri canoni stabilite. Dato dal Tribunale del Sant‟Officio di Adria li 2 maggio 1770; frate France- sco Leandro Davì, cancelliere del Sant‟Officio Licenziato per la stampa per decreto fatto

nel Sant‟Officio il dì medesimo, coll‟assistenza del sopranominato illustrissimo, ed eccellentissimo si- gnor ANZOLOPRIULI Podestà, e capitanio di Rovigo, e Provveditor generale di tutto il Pole-

sine. In Rovigo, per Giovanni Giacomo Miazzi, Stampatore vescovile.

Il 18 maggio il podestà di Rovigo, Angelo Priuli, informò il Senato di essere stato raggirato dall‟inquisitore. Il rettore non sapeva nulla dell‟editto, del quale – contrariamente a quanto vi si diceva – non aveva approvato la stampa. Rese quindi la propria versione dei fatti: il 2 maggio era stato convocato nel palazzo vescovile, dove usualmente si tenevano le riunioni del tribunale del Sant‟Uffizio. Il rettore vi aveva partecipato senza conoscere quale fosse l‟ordine del giorno; nell‟occasione fra Giulio Antonio Sangallo gli aveva parlato del testo incriminato e «doppo un‟esatta lettura del libro medesimo» gli aveva presentato «cinque giurate fedi di teologi» concordi nel condannare l‟opera. Il rappresentante, come ammise, era totalmente impreparato sul tema e preferen- do avere lumi dalla Dominante sciolse la sessione del tribunale, con la promes-

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sa di riaggiornarla non appena avesse avuto istruzioni in merito. «Ho poi con sorpresa penetrato», aggiunse Angelo Priuli, che l‟inquisitore non aveva perso tempo: la notte seguente al loro incontro aveva fatto stampare l‟editto che poi aveva distribuito piuttosto rapidamente ai parroci della diocesi affinché lo af- figgessero alle porte delle chiese. Appena appresa la notizia, il rettore aveva convocato fra Giulio Antonio Sangallo ordinandogli di ritirare gli editti, dispo- sizione alla quale il giudice di fede si era prestato dimessamente («lo ha anche prontamente eseguito», precisò il podestà). Angelo Priuli aggiunse: «mi sono indotto a quest‟atto per zelo e per dovere in una materia assai gelosa e delicata, pressidiata da sapientissime pubbliche massime che non devono andar soggette alla minima alterazione in offesa e pregiudizio di sacri riguardi del prencipa- to».50

In questo caso la questione fu rimessa alla Deputazione ad pias causas, – compo- sta da Gian Antonio da Riva, Andrea Querini e Alvise Vallaresso – la magistra- tura produsse una scrittura all‟interno della quale era strenuamente difesa la so- vranità della Repubblica in materia di stampa (rivendicata già attraverso il pre- cedente decreto 3 agosto 1765, di cui si parlerà più approfonditamente in se- guito). I deputati, dopo una disamina delle leggi relative alla censura, si dedica- rono all‟analisi del caso specifico. Le posizioni degli ecclesiastici, dell‟inquisitore e dei cinque teologi che avevano firmato la fede nella quale si condannava il testo in questione, erano severamente condannate. Questi ave- vano ingannato il rettore facendo stampare nottetempo un editto che non era stato autorizzato dall‟autorità secolare. I deputati deprecando il comportamen- to di fra Giulio Antonio Sangallo, e a proposito scrissero: «porta l‟autorità del pontefice romano sopra tutto temporale de‟ principi. In essa scrittura egli con- fonde ed unisce la figura di accusatore, di qualificatore, e di giudice, e porge i difetti del libro non quali in fatto sono, ma quali potrebbero dedursi con istro- mento incerto e pericoloso dei sillogismi, e sofismi delle scuole ripatetiche». Era quindi necessario che gli editti emessi dalla sede inquisitoriale di Adria- Rovigo fossero lacerati e che ne fosse cancellata «ogni memoria» dai registri dell‟Inquisizione. Il giudice di fede, a causa del suo comportamento poco ri- spettoso delle leggi della Repubblica, doveva necessariamente essere punito.

I deputati fornirono tre possibilità, già adottate nel passato per «frenare l‟eccedenze di questi padri»: «l‟uno, poco efficace, fu quello di farli ammonire col mezzo dei magistrati. L‟altro, ma di qualche attività, lo chiamarli nell‟eccellentissimo Collegio e far loro una grave reprensione, il terzo ma to- talmente sanatorio il levarli dal carico discacciandoli dallo Stato». La decisione era rimessa al voto del Senato che avrebbe dovuto considerare se il vescovo avesse prestato la propria complicità a fra Giulio Antonio Sangallo. Per quanto

50 Ivi, cc. n. n., dispaccio del podestà di Rovigo, Angelo Priuli, al Senato, sub data 18 maggio

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riguardava il testo, poiché non era possibile ignorare le accuse che gli erano sta- te mosse, era bene compiere un esame approfondito da parte di consultori e teologi «perché ne riferiscano dettagliatamente i difetti, e gli errori, inde in se- quela demandarne la proibizione al Sant‟Offizio di Venezia unito coll‟assistenza laica se l‟errore fosse in qualche punto del dogma cattolico, ovvero ai magistrati competenti, se fosse per altre materie».51

Il 25 agosto il Senato deliberò che la condotta dell‟inquisitore doveva essere «vendicata e corretta» richiamandolo alle porte del Collegio («sarà della pruden- za de‟ savi del medesimo di far rilevare dal savio, che sarà in settimana nelle forme altre volte tenutesi in somiglianti occasioni la disapprovazione meritata dalle irregolari dirrezioni tenute nell‟abbusiva proibizione del suindicato libro, con il di più, che serva a contenerlo nella dovuta suddita obbedienza delle leg- gi» precisava la delibera). Per quanto concerneva il testo de i Tre quesiti accademici trattati in tre separate lettere da un filosofo critico lo si rimetteva all‟esame dei Consul- tori in iure.52 Probabilmente la decisione di richiamare fra Giulio Antonio San-

gallo alle porte del Collegio era stata influenzata dal ricordo, ancora vivo nella memoria, dell‟ammonizione inflitta quattro anni prima all‟inquisitore di Vene- zia, Filippo Rosa Lanzi, accusato di aver trasgredito le nuove norme in materia censoria (sull‟argomento si ritornerà più approfonditamente nell‟ultimo capito- lo). Giannantonio da Riva – uno dei deputati ad pias causas che aveva redatto la relazione sui fatti occorsi a Rovigo nel 1770 – ne era stato uno dei promotori. All‟epoca, infatti, aveva ricoperto l‟incarico di Savio all‟Eresia, ed essendo il più anziano dei tre magistrati era spettato proprio a lui recitare le formule dell‟ammonizione al cospetto del giudice veneziano. La scena dell‟umiliazione cui era stato sottoposto fra Filippo Rosa Lanzi ci è stata trasmessa in una relazione vergata per il Senato. Il 26 aprile 1766 il religioso era stato convocato nella stanza in cui erano soliti riunirsi i magistrati sopra i monasteri, dove – come si precisa nel resoconto – «fu fatto stare sempre in piedi e col berettino in mano». Dopodiché Gian Antonio Riva aveva iniziato ad ammonirlo: «el Senato che nell‟autorizzarla graziosamente all‟esercizio del carico d‟inquisitor de Venezia l‟ha credesto che ella fosse per riconoscer doveri della sua sudditanza e che la se ricordasse d‟esser prima nato suddito, e de aver vestio dopo l‟abito religio- so». Dopo avergli elencato le leggi vigenti e quelle che lo stesso inquisitore ave- va trasghedito lo si richiamò a un contegno più consono e rispettoso delle norme della Repubblica; i Savi all‟Eresia, gli intimò Gian Antonio Riva, avreb- bero vigilato sul suo modo di procedere. Dopodiché, al termine dell‟ammonizione, l‟inquisitore era stato congedato con le seguenti parole: «sta- remo vigili sora ogni suo passo e la vada» (e nella relazione si aggiunge: «così fu

51 Ivi, cc. n. n., scrittura redatta dalla Deputazione ad pias causas, sub data 8 giugno 1770. 52 Ivi, cc. n. n., deliberazione del Senato, sub data 25 agosto 1770.

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licenziato e partì esso padre inquisitore senza aggiunger parola dopo aver fatta una profonda riverenza»).53

53 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 89, cc. n. n., relazione dell‟avvenuta

ammonizione di fra Filippo Maria Rosa Lanzi, inquisitore di Venezia, s. d. La trascrizione del testo si trova in M.INFELISE, L‟editoria veneziana, cit., p. 115.