III. Crimina mixti fori nella Repubblica di Venezia
3. Sollecitatio ad turpia e reati a sfondo sessuale
Per quanto concerne i reati a sfondo sessuale come lo stupro, l‟incesto, la so- domia, solitamente erano giudicati dalle magistrature secolari, qualora vi fosse connessa la «mala credenza», espressa nella maggior parte dei casi dalle propo- sizioni ereticali che accompagnavano l‟azione, allora il caso sarebbe potuto spettare anche al foro delegato. Eccetto i casi di sollecitatio ad turpia e alcuni casi di “seduzione” compiuti da alcuni preti nei confronti delle fedeli o penitenti, si è ritrovato un solo caso di reato a sfondo sessuale in cui fosse stato coinvolto anche il Sant‟Uffizio; l‟episodio, rinvenuto fra le raccolte di pareri giuridici re- datti dai Consultori in iure, si riferisce al caso di Marco Todesco denunciato per aver deflorato «con forza» una sua cugina.
Secondo la ricostruzione resa dal consultore in iure, fra Paolo Celotti, era stato il padre della donna a denunciare l‟accaduto, come spesso avveniva nei casi in cui il reato avesse toccato la sfera familiare, con gli uomini che si ergevano a difensori dell‟onore femminile. In seguito alla presunta violenza, commessa col proferire massime ereticali («avendo egli per ridurla alla continuazione delle sue disoneste e criminose compiacenze detto, che il commercio carnale tra parenti non sia peccato, e che perciò non era tenuta a confessarsene», specificò il con- sultore) la cugina di Marco Todesco era rimasta incinta. Il consultore pertanto concluse la scrittura suggerendo la formazione di due processi distinti, il primo delegato dal Consiglio dei Dieci al Reggimento di Brescia, il secondo, circa le proposizioni ereticali proferite dall‟imputato, al Sant‟Uffizio della stessa città
essendo dottrina fondata nelle leggi ecclesiastiche e anco per consenso de‟ prencipi ricevuta in prattica, che se nel processo di un reo soggetto al foro secolare si scuopre qualche cosa pertinente alla religione, sono obbligati i giudici e lo consentono i pren- cipi, che spedita la causa spettante al loro foro si trasmetta quel particolare o quei particolari di religione al tribunal dell‟Inquisizione.36
Intorno al 1711 padre Lorenzo Rodari (o Rodaro) era stato inquisito dal Sant‟Uffizio di Verona; nell‟occasione si era trovato a dover rispondere alle ac- cuse di abuso di benedizioni e oggetti sacri e di «falsa dottrina in materia vene- rea»; a processo avviato fra Lorenzo si era allontanato dalla città lasciando pen- dente il procedimento. Furono Giorgio Contarini e Alvise Mocenigo III – rispettivamente podestà e capitano di Verona – a riportare l‟aneddoto in un di- spaccio diretto al Senato (17 marzo 1718). Erano passati ben sette anni dalla fuga di padre Lorenzo, solo ora però, scrissero i rettori, l‟inquisitore di Verona era venuto a conoscenza dell‟attuale residenza del frate che si trovava a Lendi-
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nara. L‟inquisitore aveva quindi chiesto ai rappresentanti se fosse possibile tra- sferire gli atti processuali, rimasti sino ad allora sospesi, al collega di Rovigo in modo tale da continuare il processo. I rettori avevano rimesso il caso al Senato che, come di prassi, rigirò la questione ai consultori in iure, i quali diedero re- sponso favorevole. Il conte Antonio Sabini e fra Paolo Celotti, infatti, spiega- rono che – secondo le norme del capitolare e le leggi in materia – i processi in- quisitoriali non potevano essere trasmessi fuori dallo stato; se gli atti rimaneva- no entro i confini però non vi erano problemi di sorta, ragione per cui, secon- do i giuristi, non vi erano obiezioni da opporre alla richiesta dell‟inquisitore di Verona: i rettori potevano dare via libera al trasferimento del processo a Rovi- go.37
Il 28 gennaio 1718 fu Michiel Pisani, podestà di Rovigo, a comunicare al Se- nato l‟avvenuta assunzione del caso da parte della locale sede del Sant‟Uffizio; nelle prime sessioni del tribunale il rappresentante e il suo vicario pretorio ave- vano alternato la loro presenza prestando la debita assistenza all‟inquisitore. Il podestà riportò i capi d‟accusa imputati a fra Lorenzo, essi erano concentrati soprattutto sui tentativi di seduzione dal chiaro sapore sacrilego che il frate a- veva intentato nei confronti di alcune donne. A Bussolengo, riferì il rappresen- tante, frate Lorenzo aveva benedetto alcune contadine «con forma licenziosa», dicendo loro che le avrebbe liberate da «mallie e altri mali naturali, insinuando pure a tall‟une con le robbe che benediva di far profumi alla natura a motivo di provocazione de‟ mestrui». Sulle deposizioni raccolte nelle aule del Sant‟Uffizio Michiel Pisani aggiunse:
venivano gli atti delle unzioni e benedizioni pratticate dal padre con la stola al collo col riponere agnus et involti nel seno delle donne toccandole le mamelle, ungendole per il più segnando con la croce sotto la sinistra e nell‟ombelico, passando anco tal volta al buco della natura, nella quale pratica, introducono le denunciate compiacen- ze veneree del medesimo; ricerche inoneste dove e come usavano li mariti, e se da se stessi si compiacessero, bacci, tocchi et espressioni amorose, senza pollucioni però, a riserva d‟una maritata ch‟asserisce haver consentito una sol volta alla copula dell‟inquisito.
37 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 29, cc. n. n., dispaccio del podestà e del
capitano di Verona (Giorgio Contarini e Alvise Mocenigo III) al Senato, sub data 17 marzo 1718. La decisione di trasferire il processo a Rovigo divenne esecutiva grazie a una deliberazio- ne del Senato, v. ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 11 giugno 1718. Successivamen- te con un‟altra deliberazione datata 25 gennaio 1718 il Senato decretò che il Sant‟Uffizio di Ro- vigo potesse proseguire il procedimento relativo a fra Lorenzo, i rappresentanti avrebbero do- vuto vigilare affinché il Sant‟Uffizio si ingerisse solo nelle materie di sua stretta competenza; ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 25 gennaio 1719. Il primo febbraio dello stesso anno la Congregazione del Sant'Uffizio prese atto dell‟avvenuto spostamento del processo da Verona a Rovigo, cfr. ACDF, Decreta S. O. (1719), c. 43r, 1 febbraio 1719.
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Le donne molestate da padre Lorenzo avevano espresso più volte il dubbio di aver peccato; il frate, tuttavia, le aveva confortate dicendo loro che queste a- zioni erano prescritte in un libro che possedeva – del quale però nessuna seppe indicare il titolo – e che pertanto non vi era alcun male nel compierle.
Durante le confessioni il religioso aveva chiesto a diverse penitenti se avesse- ro compiuto atti impuri in gioventù, le aveva poi consolate dicendo che non si trattava di peccati ma di semplici «atti puerili». Concludendo la comunicazione il podestà chiese in quale modo dovesse comportarsi circa i reati imputati al re- ligioso. Il rettore aveva cercato di capirci qualcosa consultando il capitolare di Sarpi, e dall‟esame del testo gli risultava chiaro che non tutti i malefici e le malie fossero di competenza del Sant‟Uffizio. Quest‟ultimo avrebbe potuto procede- re solo su quelli che comportavano un manifesto sospetto d‟eresia o degli abusi sacramentali; secondo il suo parere, invece, nel caso di fra Lorenzo Rodari non era avvenuto un abuso sacramentale ma, al limite, di benedizioni utilizzate per sollecitare ad turpia le sventurate contadine. Riguardo alle «licenziosità», specifi- cò il rappresentante, esse erano state commesse nei confronti di diciassette donne, una nubile, due vedove e quattordici sposate; nove di queste erano state molestate con la scusa di benedirle e per far ciò il prete aveva proferito dei dogmi ereticali. Infine il rettore informò il Senato sulle intenzioni dell‟inquisitore, il quale voleva emanare un ordine di carcerazione nei confronti del frate sebbene, al presente, il religioso avesse già compiuto sessant‟anni. Il vicario pretorio, nel frattempo, aveva deciso di temporeggiare: non era convin- to (nemmeno lui come il podestà) che tutte le imputazioni addebitate al frate fossero ascrivibili alla sfera giurisdizionale del Sant‟Uffizio, pertanto – sino a che non fossero giunti nuovi ordini da parte del Senato – gli assistenti avevano deciso di non presenziare alle sessioni del tribunale di fede; nei territori della Repubblica di Venezia questo continuava a essere il modo più valido con cui arrestare la macchina inquisitoriale.38
Fra Paolo Celotti fu chiamato a dare il proprio parere. Il servita, in un testo breve e asciutto affermò che il Sant‟Uffizio aveva il diritto di proseguire il pro- cedimento: fra Lorenzo era chiaramente sospetto d‟eresia e l‟inquisitore non avrebbe commesso nessun illecito facendolo arrestare.39 Fra Odoardo Maria
Valsecchi si mostrò, tuttavia, in disaccordo col collega: in un altro parere giuri- dico, di poco successivo, scrisse che non valeva la pena di procedere ulterior- mente contro il religioso. I delitti per i quali era processato risalivano a quasi dieci anni prima, da allora in poi – secondo Valsecchi – fra Lorenzo aveva vis- suto rettamente; le imputazioni ascritte al frate, inoltre, rientravano nella sfera
38 Ivi, cc. n. n., dispaccio del podestà di Rovigo, Michiel Pisani, al Senato, sub data 28 gennaio
1719.
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di competenze dell‟autorità secolare, pertanto non vi era motivo che il Sant‟Uffizio terminasse il procedimento.40
Il Senato scelse di applicare la risoluzione prospettava da fra Paolo Celotti. Tale notizia si evince da un dispaccio con il quale il rettore aggiornava le autori- tà sullo stato di avanzamento del processo inquisitoriale. Michele Pisani scrisse che avevano già avuto luogo alcuni interrogatori in cui erano state confermate le accuse ai danni del religioso. A queste, si opponeva la ferma posizione dell‟imputato, il quale continuava a professarsi innocente chiedendo anche di essere sottoposto a tortura per dimostrare la propria estraneità ai fatti (vi erano però delle remore nell‟accettare la proposta: sia per l‟età dell‟inquisito, sia per- ché era «strupio ad un braccio», specificò il rappresentante). Tutto si era svolto regolarmente sino a quel momento, dopodiché l‟inquisitore aveva cominciato a porre domande su temi che, secondo l‟assistente laicale, poco avevano a che fare con le competenze inquisitoriali. In particolare il giudice di fede aveva chiesto a fra Lorenzo perché avesse tolto il rosario dal collo di una donna e a- vesse offerto particole non consacrate a un‟altra e ancora come giustificasse le malie e le stregarie attuate col pretesto di toccare le fedeli. Secondo il vicario pre- torio si trattava di domande non pertinenti all‟indagine sul mero sospetto d‟eresia e sugli abusi sacramentali, pertanto aveva deciso nuovamente di so- spendere il processo (negando la propria assistenza nelle prossime sedute del tribunale) sebbene l‟inquisitore si fosse opposto.41
Spettava ancora una volta ai consultori in iure ridisegnare i confini delle com- petenze al fine che tutto si svolgesse con regolarità, soprattutto per evitare che il foro ecclesiastico valicasse i confini giurisdizionali imposti dalle norme dello stato. Il 14 giugno 1721 fra Paolo Celotti e Piero Marini, dopo aver riassunto le vicende relative all‟iter processuale, divisero il parere da loro sottoscritto in cin- que punti. I consultori stabilirono la competenza del Sant‟Uffizio sul sospetto d‟eresia connesso ai crimini ascritti a fra Lorenzo Rodari mentre i reati in sé e
40 Ivi, c. n. n., consulto di fra Odoardo Maria Valsecchi, sub data 27 marzo 1719. Il consultore
scrisse: «conviene per tanto all‟uffizio del principe impedire un atto esorbitante dall‟ordine legi- timo e giudiziario; essendo appunto questo uno de‟ fini per cui è introdotta nell‟Inquisizione l‟assistenza del pubblico rappresentante. Né qui deve esclamarsi essere ciò un proteggere le la- scivie e gl‟inganni perché quel tribunale non può conoscere se non dal semplice sospetto di he- resia toccando il punire le azioni cattive al solo magistrato laico a cui deve ricorrere chi ha zelo di giustizia e della pubblica honestà commandando le leggi ed essendo stato così praticato in altri casi». A riprova delle sue tesi fra Odoardo Maria Valsecchi riportò il capo diciottesimo del
capitolare: «gli assistenti non concederanno retenzione contra qualsi voglia persona se non sarà
prima fabricato il processo informativo con la loro assistenza, dal quale appaia che la imputa- zione sia espressamente di heresia o di caso spettante all‟Officio dell‟Inquisizione. È decreto del Senato del 1597 5 luglio […] e l‟istesso anno 23 agosto». Ibidem. Copia del consulto si trova anche in ASVe, Consultori in iure, fz. 171, cc. 1r-2r, consulto di fra Odoardo Maria Valsecchi, 27
marzo 1719.
41 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 30, cc. n. n., dispaccio del podestà di
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nella fattispecie l‟inganno di donne «semplici», le «operazioni» e i «fatti», dove- vano essere perseguiti in via esclusiva dal foro laicale. Implicitamente quindi davano ragione al vicario pretorio che aveva preferito bloccare nuovamente il procedimento inquisitoriale ravvisando dei vizi relativi alle competenze. Ri- guardo la possibilità di sottoporre a tortura l‟imputato, i consultori si dimostra- rono favorevoli, sempre che ciò fosse realmente necessario all‟inquisitore per meglio comprendere la posizione di fra Lorenzo. Infine, i giuristi consigliarono di applicare la dottrina di misto foro al caso specifico, a proposito scrissero:
è dottrina canonica, legale e insegnata dai giureconsulti che in un istesso caso ponno procedere tutti due li fori, cioè l‟ecclesiastico e secolare ancora […] cioè a dire che tutti due riguardano la stessa cosa, ma con diverso fine. La bestemia ereticale ne somministra l‟esempio, in questo delitto vi procede così il Sant‟Offizio, come il ma- gistrato secolare, ma il Sant‟Offizio non essamina se non per l‟indizio e il sospetto di eresia del bestemiatore, dove il magistrato considera solamente il fatto e la scelera- tezza della bestemia e però il medesimo reo può essere assolto dal Sant‟Offizio come innocente nell‟opinione, e condannato dal magistrato come convinto di quel be- stemmiatore. Li processi poi si formano da tutti due i fori con spedirsi prima il pro- cesso da quello che sarà stato il primo ad incominziarlo, e fatte ambidue le sentenze si devono l‟una e l‟altra mandar all‟essecuzione.42
Il 12 agosto il Senato deliberò quanto suggerito dai consultori: terminato il processo da parte del Sant‟Uffizio, il podestà – coadiuvato dalla corte pretoria – ne avrebbe avviato un altro e al termine di entrambi sarebbero state applicate tutte e due le sentenze.43 È possibile seguire le tracce di fra Lorenzo grazie a un
altro parere giuridico datato 19 novembre 1724: il religioso aveva appena finito di scontare tre anni di prigionia, la pena che era stata comminata dal Sant‟Uffizio. Il foro secolare, al pari di quello ecclesiastico, aveva già processato il religioso e ne attendeva il rilascio da parte del tribunale di fede per poter dare esecuzione alla propria sentenza (l‟istanza di scarcerazione per altro era già sta- ta firmata dall‟inquisitore). Il testo non fa riferimento alla pena inflitta dalla cor- te secolare, i consultori si limitano a consigliarne la pronta applicazione;44 per il
frate si stava aprendo la strada verso una nuova agonia, la seconda punizione per i reati già scontati in parte, nelle carceri del Sant‟Uffizio.
Nei due episodi che seguono, le autorità secolari fecero riferimento al cosiddet- to «beccarellismo», quella che era considerata una particolare forma di dissenso legata alla diffusione di correnti quietiste, d‟impronta pelagina («il distacco dal
42 Ivi, cc. n. n., parere dei Consultori in iure, fra Paolo Celotti e don Pietro Marini, sub data 14
giugno 1721.
43 Ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 30 agosto 1721. 44 ASVe, Consultori in iure, fz. 192, c. 253r, 19 novembre 1724.
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mondo in favore dell‟abbandono in Dio e una dottrina estatica»)45 cui si ac-
compagnavano spesso accuse di seduzione, se non propriamente di sollecitatio ad turpia.46 La vicenda relativa a Giuseppe Beccarelli è ben nota, in questo conte-
sto se ne ripercorreranno solo i tratti salienti. Nel 1710 il sacerdote fu condan- nato dal Sant‟Uffizio di Brescia per «eresia, affettata santità e pratiche oscene», anche se come ha scritto Marco Faini: «non fu un semplice episodio di dissen- so religioso, ma il punto d‟incontro di complesse dinamiche relative ai rapporti interni al patriziato bresciano» e veneziano. Beccarelli era un educatore, dirige- va un collegio divenuto presto ricettacolo di giovani patrizi, attirati dalla fama goduta dal sacerdote. La trama di accuse mosse contro Beccarelli, forse orche- strate dai suoi nemici o dovute alla particolare sensibilità politica nel controllare la diffusione di determinati fenomeni di dissenso (com‟era avvenuto recente- mente per i pelagini della Val Camonica), lo condussero alla rovina in pochi anni.47
Giuseppe Beccarelli aveva cercato, tramite una difesa orientata in questo sen- so, di ottenere lo spostamento del processo dalle aule del Sant‟Uffizio a quelle di una magistratura secolare, conscio di godere ancora delle protezioni di alcuni influenti patrizi. Paolo Celotti, interpellato a proposito, «non lo aiutò granché: il frate non aveva potuto che costatare che le imputazioni di carnalità, pur non essendo in sé spettanti al foro ecclesiastico, nel caso del Beccarelli erano ricon- ducibili a materia di fede, quindi doveva essere il Sant‟Uffizio ad occuparsene», almeno in prima istanza. Il 13 settembre 1710 il sacerdote fu condannato a set- te anni di galera, al termine del procedimento inquisitoriale fu comunque pro- cessato anche dal Consiglio dei Dieci che gli commutò la pena a vent‟anni di carcere (il 15 luglio 1711).48 Non vi sono elementi sufficienti per supporre
45 F.BARBIERATO, Politici e ateisti, cit., p. 199, (la definizione è riferita strettamente alle accuse
imputate a don Giuseppe Beccarelli); il patriziato veneziano e bresciano aveva «in qualche mo- do avallato le teorie moliniste, non poteva [quindi] rimanere indifferente agli insegnamenti di Beccarelli», ivi, p. 200. Le vicende giudiziarie del religioso ebbero una grande risonanza anche all‟epoca, la stampa non mancò di occuparsene, a proposito v. la nutrita ricostruzione della vi- cenda – effettuata anche su numerose cronache coeve – resa da M. FAINI,Eresia e società nella
Brescia del primo Settecento, la vicenda di Giuseppe Beccarelli, in «Studi Veneziani», N. S. XLVI (2003),
pp. 141-179. Su Giuseppe Beccarelli v. anche G.F.TORCELLAN, Beccarelli, Giuseppe in DBI, ad
vocem. Sul contesto nel quale si svolse la vicenda di Beccarelli cfr. anche G.V.SIGNOROTTO,
Inquisitori e mistici, cit., pp. 289 e ss.
46 Secondo la legislazione veneziana nella sollecitatio ad turpia rientravano i tentativi di seduzione
e adescamento effettuati dal confessore ai danni delle penitenti nel momento stesso della somministrazione del sacramento della penitenza (in questo caso si trattava di un reato di competenza inquisitoriale). Se questi erano effettuati prima o dopo la confessione, allora non era più possibile parlare di sollecitatio ma di semplice seduzione; quest‟ultima eventualità, per es- sere ascrivibile al Sant‟Uffizio, rendeva necessario l‟accertamento delle circostanze e nella fatti- specie se fossero state proferite delle proposizioni ereticali per sedurre le penitenti.
47 M. FAINI,Eresia e società nella Brescia del primo Settecento, cit. 48 F.BARBIERATO, Politici e ateisti, cit., p. 201.
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l‟applicazione della dottrina di misto foro anche in questo caso (probabilmente si trattò più di una questione di sovranità che non di giurisdizione), certo è che la sentenza inflitta dal Consiglio dei Dieci è sintomatica del fatto che «il pro- blema era […] tanto religioso quanto politico, e proprio in questa veste fu af- frontato dal governo della Repubblica, che cercò in ogni modo di ammortiz- zarne la potenziale carica eversiva, implicita peraltro in ogni manifestazione mi- stica, geneticamente incontrollabile».49
Il 2 giugno 1717 podestà di Bergamo, Antonio Maria Priuli, scrisse al Senato di aver assistito l‟inquisitore in una sessione del Sant‟Uffizio. Nelle aule del tri- bunale si era presentata una «povera» donna lamentando i comportamenti del curato di «Tevene», don Antonio Morsenti, il quale – secondo il resoconto del rettore – da qualche tempo andava «imprimendo che non sia peccato usar toc- camenti, baci e copula con esso lui»; per persuaderla, prosegue il testo, il prete