IV. Controversie sulle procedure Inquisitori ammoniti, cacciati e derisi
1. Le controversie sugli avvii dei procedimenti inquisitoriali
Come ha osservato Pierroberto Scaramella «ogni nuovo inquisitore all‟inizio dell‟attività doveva familiarizzare con la sua storia precedente e le caratteristi- che peculiari della propria sede per conoscere i comportamenti e lo stile ai quali si doveva conformare».1 Nello specifico gli inquisitori designati nelle sedi dei
territori della Repubblica di Venezia dovevano fare i conti con una legislazione che li limitava notevolmente (fissando rigidamente le procedure cui si sarebbe- ro dovuti adeguare); si dovevano, inoltre, rapportare con un‟attenzione presso- ché costante dei rappresentanti secolari che ne controllavano l‟operato per con- to delle autorità centrali. Per agire in conformità delle leggi veneziane gli inqui- sitori avrebbero dovuto ricercare l‟assistenza del rettore ogni qualvolta avessero avuto l‟intenzione di avviare un procedimento, come si è già ricordato. Il rap- presentante avrebbe potuto concederla o, qualora avesse avuto dei dubbi, ne- garla sino a che non fossero giunte istruzioni più precise dalla Dominante. Com‟è noto le norme in materia erano state raccolte nel capitolare di Paolo Sar- pi.
E tuttavia le leggi potevano suscitare una certa confusione, specialmente qua- lora il giudice di fede non avesse dimestichezza con le peculiari procedure in uso nei territori della Repubblica. In una lettera inviata dall‟inquisitore di Cone-
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gliano alla Congregazione del Sant‟Uffizio (datata 19 agosto 1784), fra France- sco Ponte ammise - quasi candidamente - di aver ricevuto sempre «da solo a solo» gli sponte comparentes, senza sottoporli ad alcun giuramento. L‟inquisitore era solito ratificare il tutto al momento dell‟«assoluzione», solo allora faceva comparire i testimoni, inclusi il cancelliere dell‟ufficio e il rappresentante seco- lare. A proposito di un caso specifico, lo stesso giudice di fede scrisse: «quando dall‟eccellenze vostre reverendissime sarò onorato della facoltà d‟assolverlo chiamarò il cancelliere e con qualche timore chiamarò li testimoni, dico con qualche timore perché mi viene supposto che fuori del tribunale formale, cioè fatto coll‟assistenza del laico, non venga permesso».2
Il 28 novembre 1763 il vescovo di Ceneda scrisse una lettera all‟arciprete di Motta di Livenza, don Vincenzo Castelli; il vescovo deprecava le procedure scorrette adottate dall‟inquisitore di Conegliano. Quest‟ultimo si era recato a Motta per interrogare alcune donne al fine di verificare la veridicità di alcune accuse mosse contro lo stesso Castelli. L‟inquisitore aveva raccolto le testimo- nianze in modo del tutto informale, senza verbalizzare nulla, né far giurare le testi. Il vescovo aggiunse: «rilevo la maniera imprudente, suffurea, impropria, con cui si diportò il padre Inquisitore per la Motta e senza alcun riflesso alle conseguenze e non posso, se non condannarlo». Il vescovo assicurò il destina- tario: avrebbe parlato con l‟inquisitore per «usar seco lui quelli più giusti lamen- ti che merita il caso».3 Non si sa per quali vie questa lettera, che ha il tenore di
una comunicazione confidenziale tra il vescovo e l‟arciprete, sia finita fra le mani del podestà di Motta, il quale ne inviò una copia alle autorità centrali. Cer- to è che il rettore non risparmiò aspre critiche all‟inquisitore, sul quale scrisse: «non mi si presentò con credenziali, non ricercò laica potestà alla sua assisten- za, sovertindo così le pubbliche provide leggi, ecco il mottivo per cui m‟attrovo astretto di umigliar alla Serenità Vostra emergente per tutti quei riguardi di principato che dalla sapienza vostra fossero da considerarsi».4
L‟intera vicenda fu rimessa alla penna di fra Enrico Fanzio che chiarì la que- stione dal punto di vista giuridico: non richiedendo l‟assistenza del podestà, l‟inquisitore aveva «commesso un trascorso contrario ai concordati tra la Santa Sede e la Serenissima Repubblica come pure alle pubbliche leggi, ed alla natura del tribunale del Sant‟Offizio». Il servita ricordò che i processi inquisitoriali do- vevano essere «trattati e spediti nel luogo ove l‟Inquisizione è stabilita, coll‟assistenza di quel pubblico rappresentante». Non appartenendo al distretto
2 ACDF, St. St. GG 3-d (varie Inquisizioni tra cui Conegliano), c. n. n., lettera dell‟inquisitore di Co-
negliano, fra Francesco Ponte, alla Congregazione del Sant‟Uffizio, sub data 19 agosto 1784.
3 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 86, cc. n. n., lettera di Lorenzo Ponte ve-
scovo di Ceneda all‟arciprete di Motta di Livenza, Vincenzo Castelli, sub data 28 novembre 1763.
4 Ivi, cc. n. n., dispaccio di Giuseppe Maria Barbaro, podestà di Motta di Livenza, al Senato, sub
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di Ceneda-Treviso l‟inquisitore di Conegliano non avrebbe avuto il diritto di intervenire in una causa per la quale non era competente dal punto di vista ter- ritoriale. Fra Enrico scrisse:
ogni qual volta è venuto a notizia della Serenità Vostra che i padri inquisitori abbian fatto alcun‟atto discordante dai concordati e dalle leggi è sempre occorsa al riparo col far intender agl‟Inquisitori medesimi per via de suoi pubblici rappresentanti che ha per nullo l‟operato da essi e che non debbano mai far uso degl‟atti non men irregola- ri che ingiusti da loro pratticati proibendo loro ciò alle volte anche sotto pena della disgrazia della Serenissima Repubblica. Crederessimo rispettosamente che la Serenità vostra volesse servirsene d‟un simile rimedio anco rispetto al padre inquisitore da Conegliano.5
Il 12 gennaio 1764 il Senato deliberò di scrivere al podestà di Conegliano af- finché questi ordinasse all‟inquisitore, fra Stefano Giacomazzi, di recarsi nella Dominante: «vi commette di far sapere ad esso inquisitore esser intenzione sua, ch‟egli si trasferisca immediate a Venezia e si presenti alle porte del Collegio nostro per intendere la pubblica volontà». In pratica l‟inquisitore avrebbe subi- to un‟ammonizione, una sorta di strigliata pubblica nella quale gli sarebbe stato ribadito l‟obbligo di conformarsi alle leggi (pena la pubblica indignazione).6
Il 21 gennaio fu lo stesso fra Stefano Giacomazzi a rendere la propria versio- ne dei fatti alla Congregazione del Sant‟Uffizio. «Mi nasce una emergenza che mi tiene in qualche agitazione e che devo umiliare all‟eminenze vostre», comu- nicò agli inquisitori generali. Si giustificava scrivendo che era stato lo stesso ve- scovo a mandarlo a Motta di Livenza per raccogliere alcune testimonianze sull‟arciprete del paese. «Ritornato a Conegliano», proseguì, «mi venne una let- tera dal mio vicario del suddetto luogo, come quel podestà che è nobile veneto si lagnava di me perché aveva tenuto tribunale senza la di lui assistenza contro le leggi del principe». Fra Stefano aveva risposto che non si era trattato di una vera e propria riduzione del tribunale, ma piuttosto di «una extragiudiciale in- formazione senza cancelliere, senza giuramento, senza scrivere una parola». Pensava che il tutto fosse finito lì, dato che aveva ricevuto una lettera rassicu- rante dal rettore; e tuttavia la sorpresa era giunta alcuni giorni dopo: «l‟altro giorno ritornando dalla visita del convento di Padova per la carica di provincia- le, ritrovo essersi per tal affare il Senato determinato di chiamarmi alle porte del Collegio. Questa risoluzione mi riuscì impensata. Mi sono stretto con sua
5 Ivi, cc. n. n., consulto di fra Enrico Fanzio, sub data 17 dicembre 1763.
6 Ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 12 gennaio 1764. Fra Stefano Giacomazzi era
stato nominato inquisitore di Conegliano con una patente datata 19 novembre 1759; cfr. ASVe,
Sant‟Uffizio, b. 155, nella quale sono raccolte diverse patenti di inquisitori assegnati alle sedi lo-
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eccellenza savio di settimana per proroga acciò sieno intese le mie ragioni, non avendo neppur in pensiero trasgredite le leggi del principato».7
Le stesse norme dovevano essere rispettate anche dai vescovi chiamati a svol- gere le funzioni dei giudici delegati, situazione che, come si è già avuto modo di esporre, si verificava nelle zone scoperte dai distretti inquisitoriali; a proposito appare particolarmente rappresentativo l‟episodio che segue. Il 29 aprile 1739 fra Paolo Celotti fu interpellato in merito alle vicende giudiziarie relative a Feli- ce Nicoli. Come da prassi il consultore riassunse i fatti per come li aveva ap- presi da un dispaccio proveniente da Rovigno: il vescovo di Parenzo aveva fat- to arrestare Felice Nicoli accusandolo di apostasia; dall‟ebraismo, infatti, si era convertito alla fede cattolica e ciononostante, pur accostandosi spesso ai sa- cramenti, di nascosto aveva continuato a celebrare i riti ebraici. Per quanto e- merge dalla scrittura, Nicoli aveva obbligato sua moglie, «nativa dell‟Istria spo- sata secondo il rito di santa chiesa, a professar l‟ebraismo» e i due figli della coppia erano stati battezzati e poi circoncisi. L‟apostasia, proseguì Celotti, senz‟ombra di dubbio era un reato di competenza dell‟Inquisizione e quindi il vescovo di Parenzo avrebbe dovuto assumere le veci di un giudice delegato; nel far ciò si sarebbe dovuto adeguare alle norme statali relative all‟avvio dei pro- cedimenti inquisitoriali (che si trovavano prescritte nel capitolare).
Queste non erano state rispettate: il vescovo non aveva richiesto la debita as- sistenza secolare e la denuncia non era stata formalmente presentata al tribuna- le riunito. La soluzione migliore, consigliò il giurista, era quella di far iniziare ex novo il processo: gli atti raccolti sino a quel momento – non essendo conformi alle leggi – dovevano essere cassati. Per quanto riguardava il reato imputato a Felice Nicoli vi erano i presupposti per l‟applicazione della dottrina del misto foro: il Reggimento di Capodistria avrebbe proceduto sul grave crimine di lesa maestà divina commesso dall‟imputato (per aver obbligato la moglie e i figli a celebrare i riti ebraici pur essendo cattolici). La «pubblica pietà e giustizia», inol- tre, avrebbe proceduto a separare la moglie dal marito: il matrimonio doveva essere annullato per «disparità di culto»; i figli, al pari della consorte dovevano essere allontanati dal padre per essere educati al cattolicesimo.8
Il 15 novembre 1736 il priore del Carmine di Vicenza inviò un lungo reso- conto ai Provveditori sopra i Monasteri.9 Vi si riassumevano le vicende relative
a fra Ignazio Favré, un carmelitano cacciato dal convento per le sue «scandalo-
7 ACDF, St. St. GG 3-d, cc. n. n., lettera dell‟inquisitore di Conegliano, fra Stefano Giacomazzi
alla Congregazione del Sant‟Uffizio, sub data 21 gennaio 1764.
8 ASVe, Consultori in iure, fz. 208, cc. 222r-224r, consulto di fra Paolo Celotti, 29 aprile 1739. 9 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 47, cc. n. n., copia della lettera inviata dal
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se procedure».10 A fra Ignazio era stato ordinato di tornare a Tolosa, la propria
città natale (l‟ordine era divenuto esecutivo attraverso una deliberazione del Senato); il religioso, tuttavia, aveva trasgredito la prescrizione e – come riferì il priore – era stato visto soggiornare in casa di alcuni nobili vicentini e veneziani. Nel frattempo si era sparsa la voce che fra Ignazio non fosse un vero frate e ciò aveva attirato l‟attenzione dell‟inquisitore di Vicenza, il quale aveva convo- cato il vescovo nelle aule del sacro tribunale. Si trattava di una riunione illegale: il vicario pretorio – che nell‟occasione avrebbe dovuto sostituire il podestà – non si era presentato e ciononostante erano state prese misure cautelative con- tro il frate; il giudice di fede, infatti, aveva ordinato al priore di richiamare e trattenere nel proprio convento fra Ignazio Favré (se il superiore dei carmelita- ni si fosse rifiutato avrebbe dovuto rendere conto direttamente al Sant‟Uffizio). Il frate francese era rientrato fra le mura del monastero vicentino; al cospetto del priore aveva subito messo in chiaro la propria posizione dichiarando di es- sere un vero religioso, e giustificando il ritardo della partenza per Tolosa con la necessità di raccogliere i soldi necessari per poter affrontare il viaggio.11
Il Senato, come da prassi, rigirò la questione ai Consultori in iure; fra Paolo Celotti rilevò i vizi procedurali commessi dall‟inquisitore di Vicenza; in primis il giudice di fede non avrebbe dovuto ordinare la reclusione di fra Ignazio Favré poiché lo stesso Senato aveva dato il beneplacito per la sua espulsione. In se- condo luogo, decretando il fermo del frate, l‟inquisitore aveva trasgredito le leggi statali in materia di avvio dei processi: il Sant‟Uffizio non avrebbe potuto procedere «sopra semplici diffamazioni» e per di più senza rispettare l‟obbligo dell‟assistenza laicale. Secondo il consultore era bene che il rettore di Vicenza convocasse il giudice di fede richiamandolo a una corretta osservanza della le- gislazione in materia; per maggior zelo poi suggerì d‟inviare una circolare a tutti i rettori affinché ponessero particolare attenzione alle norme concernenti l‟assistenza nei procedimenti inquisitoriali.12
10 Ivi, cc. n. n., copia lettera inviata dal generale dei carmelitani, fra Lodovico Benzoni, al priore
di Vicenza, sub data 15 agosto 1736. Nella lettera si ordinava l‟espulsione di fra Ignazio Favré dal convento. Ibidem.
11 Ivi, cc. n. n., lettera inviata dal priore del Carmine ai Provveditori sopra i Monasteri, sub data
15 novembre 1736.
12 Al rappresentante secolare, inoltre, sarebbe spettato il compito di revocare l‟ordine di fermo
che l‟inquisitore aveva emanato contro il camaldolese (nei confronti del quale, consigliò Celotti, era bene rinegoziare i termini della partenza verso Tolosa); ASVe, Consultori in iure, fz. 206, cc. 39r-41v, consulto di fra Paolo Celotti, 22 novembre 1736. Copia del consulto si trova anche in
ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 47, cc. n. n., sub data 22 novembre 1736. Le parole di Celotti furono riprese alla lettera in una deliberazione del Senato, v. ivi, c. n. n., sub
data 24 novembre 1736. Oltre a quanto suggerito dal consultore, il Senato prese dei provvedi-
menti nei confronti del vicario pretorio, il quale non aveva presenziato alla riunione tenuta dal vescovo e dall‟inquisitore (durante la quale, come si è già avuto modo di spiegare, era stato de- ciso il fermo cautelativo di fra Ignazio Favré). Considerata l‟inaffidabilità del vicario pretorio, il
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Non erano solamente i rettori a lamentare la non correttezza nell‟applicazione delle procedure inquisitoriali; in un caso esemplificativo fu l‟inquisitore di Vi- cenza a contestare la scarsa segretezza adottata dai tribunali secolari in merito a un processo avviato dal Consiglio dei Dieci per punire alcuni nobili che si era- no presi gioco del sacro tribunale. Il 12 gennaio 1745 il rettore di Vicenza ag- giornò il Senato in merito agli sviluppi sul processo inquisitoriale in corso con- tro don Stefano Lorenzoni. Si trattava – riferì il podestà – di un recidivo, già condannato dall‟Inquisizione per aver proferito diverse massime ereticali. Per quanto aveva appreso il rettore, il prete viveva da «libertino» in modo «scanda- loso e con abbandono total di religione».13
Dopo l‟abiura di Lorenzoni, l‟inquisitore di Vicenza, fra Angelo Gattelli, si era trovato a dover fare i conti con alcuni membri della nobiltà vicentina, i quali avevano mal digerito le risoluzioni prese nei confronti del prete. Il 16 agosto il giudice di fede scrisse una lettera ai propri superiori spiegando lo scherno del quale era stato oggetto; riferì che di notte un gruppo di giovani era passato sot- to le finestre del convento di Santa Corona (dove si tenevano anche le riunioni del sacro tribunale) e proprio sotto la cella del frate avevano intonato una can- zone, con un «coro pieno di numerose voci», accompagnato dal suono di corni da caccia e trombe; il ritornello recitava così: «Becchela Becchelon/ Ti si pur sta coion/ Di far l‟abiura al Lorenzon». L‟inquisitore, per quanto scrisse, sareb- be stato disposto a passare sopra l‟accaduto se le parole della satira avessero in- fangato solamente la sua persona; in realtà era lo stesso tribunale del Sant‟Uffizio ad averne pregiudizio poiché, a suo avviso, ne erano state derise le procedure.14 Pertanto aveva denunciato l‟occorso al Consiglio dei Dieci, al qua-
le aveva chiesto di intervenire col rito affinché fossero scoperti e puniti i colpe-
podestà l‟avrebbe sollevato dal compito di assistere ai processi inquisitoriali; da allora in poi al suo posto sarebbe intervenuto il giudice al maleficio. Ibidem.
13 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 57, cc. n. n., dispaccio del rettore di Vi-
cenza al Senato, sub data 12 gennaio 1745. In base al resoconto del rettore le proposizioni ereti- cali attribuite a don Stefano Lorenzoni erano le seguenti: «che Clemente duodecimo è stato l‟antichristo e che dal punto della lui assonzione è mancato il sacerdozio et il sacrifizio. Che il sacrifizio della messa non è di una falsa rapresentanza et una mera buffonaria. Che l‟adulterio perpetrato in pubblico sua più acetto a Dio […] Che scoprendo il pubblico le proprie vergogne la donna si rende imacolata [sic] e più pura della Vergine Maria. Che è meglio non udire che udire la messa. Che non è peccato mangiar la carne nei giorni prohibiti dalla chiesa. Che il con- gresso dell‟huomo con la donna fatto in pubblico non sia peccato, anzi debbasi riputare un atto meritorio. Che una vergine che si sottometta allo stupro in pubblico rimane più imacolata di Maria Vergine». Ibidem. L‟8 luglio, dopo aver richiesto un parere ai Consultori in iure, il Senato deliberò a favore dell‟abiura e della proclamazione della sentenza contro don Lorenzoni (rac- comandando la presenza del vicario pretorio). Ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 8 luglio 1745. Il parere giuridico si trova in ASVe, Consultori in iure, fz. 214, cc. 103r,v, consulto di
fra Paolo Celotti, 15 marzo 1745.
14 ACDF, St. St. GG 4-o (Inquisizione di Verona), cc. n. n., lettera dell‟inquisitore di Vicenza, fra
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voli attraverso un‟indagine riservata. La vicenda ebbe degli strascichi piuttosto lunghi se, a distanza di tre anni dalla conclusione del processo contro don Ste- fano Lorenzoni, l‟inquisitore continuava a chiedere che fosse fatta giustizia e che possibilmente il tutto restasse velato da un alone di segretezza. A proposito il giudice di fede riferì alla Congregazione del Sant‟Uffizio:
non le posso dir altro se non che le disposizioni e i mezzi che si prendono sono po- co buoni. Fu scritto […] e mandate le mie deposizioni del fatto seguito in Consiglio de Dieci a Venezia qual che fu ordinato che se ne faccia processo, ma fin‟ora senza rito e senza segretezza dal che ne nascono duoi mali e che i testimoni non sicuri d‟esser tenuti secreti non confessono la verità e la cosa si pubblica a tutta passata e già i rei sanno a quest‟ora tutti li passi che ho fatto e dicono contro di me quello che Iddio permette.
Secondo l‟inquisitore il problema stava nel fatto che alcuni consiglieri dei Dieci erano parenti stretti dei nobili vicentini che avevano partecipato alla bra- vata notturna. «Onde ben vede», aggiunse l‟inquisitore, «non si poterà rillevare il fatto com‟è, né farli quella ragione che merita ed io in tal caso, come mi dico- no il mio auditore e consultori, sarò costretto a darne parte in Congregazione ma nello stesso tempo a partire dallo stato perché standovi sarei il bersaglio dell‟odio de veneziani e vicentini». Con un tono rassegnato fra Angelo Gattelli chiese il permesso di potersi allontanare dalla propria sede inquisitoriale, al fine di «prendere quattro boccate d‟aria aperta» dato che – per usare una sua espres- sione - il tempo a Vicenza pareva farsi «assai cattivo».15
15 Ivi, cc. n. n., lettera di fra Angelo Gattelli alla Congregazione del Sant‟Uffizio, 25 settembre
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2. Vizi procedurali in un processo per «molinismo» e affettata santità. L‟inquisitore bandito