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Vizi procedurali in un processo per «molinismo» e affettata santità.

IV. Controversie sulle procedure Inquisitori ammoniti, cacciati e derisi

2. Vizi procedurali in un processo per «molinismo» e affettata santità.

2. 1. Il processo contro fra Antonio Maria Monza, don Antonio Contini e Francesca Mo- denese

Il 24 settembre 1710 il podestà di Crema, Lelio Martinengo, scrisse ai Capi del Consiglio dei Dieci: l‟inquisitore l‟aveva informato di come alcuni confessori avessero sparso, nei conventi femminili «et altri luochi pii di donne», «massime ereticali appoggiate sulla dannata dottrina di Michiel Molinos». Il giudice di fe- de, fra Andrea Reali, aveva espresso la volontà di avviare un procedimento contro gli imputati e per ottenere l‟assistenza laicale aveva presentato una scrit- tura al podestà. In essa erano elencati all‟incirca quindici capi d‟accusa a carico degli stessi incriminati. Il giudice di fede, inoltre, aveva chiesto di poterli incar- cerare prima che si spargesse la notizia dell‟avvio del procedimento, in modo tale che non potessero darsi alla fuga, un punto quest‟ultimo sul quale Lelio Martinengo aveva dei dubbi che preferiva far sciogliere alle autorità della Do- minante.16

Per quanto concerne più strettamente le imputazioni addossate ai confessori, si deve fare riferimento alla già citata scrittura che – intitolata «raguaglio distin- to de gl‟errori che erano seminati ne ridotti delle demesse, retirate, zitelle e monasteri di monache da vent‟anni in qua, respetivamente dal padre Antonio Maria Monza e da don Francesco Contini nella città di Crema» – sarà riportata sinteticamente in seguito. La prima accusa riguardava l‟insegnamento dell‟orazione di quiete instillata nella mente delle penitenti, che con tali «princi- pii mal intesi» erano esortate a comunicarsi quotidianamente (questo capo era avallato da «varie lettere» che le stesse penitenti avevano inviato a fra Monza). Altre imputazioni riguardavano l‟obbedienza che, «rigorosissima e pregiudicia- le», i confessori pretendevano dalle religiose e soprattutto il divieto di confes- sarsi da altri e di utilizzare, per le loro devozioni, le sacre immagini. Secondo il resoconto dell‟inquisitore, i religiosi avevano fatto fare «un quarto voto» alle monache e dei voti di castità ad alcune donne («et alcune ne fanno spose di Maria»). Vi era poi il sospetto che fra Antonio Maria Monza, «quello che no- mina[va], propone[va] et elegge[va] tutti li confessori di monache», violasse il

16 ASVe, Consiglio dei Dieci, lettere di rettori e altre cariche ai Capi, Crema, b. 71, cc. n. n., dispaccio di

Lelio Martinengo, podestà di Crema ai Capi del Consiglio dei dieci, sub data 24 settembre 1710. Una copia dello stesso fu inviata anche al Senato, v. ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis

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sigillo sacramentale facendosi rivelare il contenuto delle confessioni. La lista dell‟inquisitore prosegue: «hanno una discepola per nome Francesca Mondane- sa, della quale si dice che sii santa»; tale fama era dovuta a una serie di voci: si diceva che avesse «la piaga di Christo nel petto», che predicesse la sorte ultra- terrena delle persone («chi va al paradiso, chi all‟inferno»), che avesse sudato sangue sporcando «una camicia e un cordoncino», oggetti che poi erano stati venerati come reliquie. Nell‟informativa l‟inquisitore aveva scritto che fra Mon- za aveva appreso «questi dogmi e dottrine» vent‟anni prima, da un tale don Fe- derico Benelli; quest‟ultimo possedeva una casa nella quale si tenevano conven- ticole «e ridotti». I due avevano distribuito i testi di Molinos in diversi monaste- ri femminili dove fra Monza era riuscito a ottenere il monopolio nell‟esercizio del sacramento della penitenza che veniva praticato, in via esclusiva, da religiosi da lui designati; l‟inquisitore concluse precisando che era solo grazie all‟appoggio del vescovo e di alcuni influenti patrizi se i disseminatori di tali dottrine erano riusciti, almeno sino a quel momento, a evitare un processo in- quisitoriale.17

Il 26 ottobre i Consultori in iure furono chiamati a vergare un parere sul caso, nello specifico – dopo aver riassunto le circostanze dell‟arresto dei due religiosi – si impegnarono a denunciare i vizi procedurali e a districare le competenze relativamente ai reati loro imputati. Il parere esordisce in questo modo:

doppo che riuscì alla corte di Roma sotto titolo della spiritualità della materia di tirar a sé tutta la giudicatura di questo tribunale e di ridurre la parte del prencipe ad una pura assistenza, avvertì il maestro Paolo e dopo di lui […] Fulgenzio che fatto quel si gran passo non cessò, né cessarà mai essa corte di procurar con tutte l‟arti di diminu- ire e ridurre al niente anco l‟assistenza, massime nel più importante degli atti giudi- ciali cioè nella denonzia, in cui per il maggiore pericolo di oppressione e di dove alli assistenti nasce la necessità maggiore d‟avvisare il prencipe dell‟occorrenze di stato.

«Il caso presente fa vedere a vostra serenità che quelli due grand‟huomeni non si sono ingannati», proseguiva fra Odoardo Maria Valsecchi. Il già citato foglio presentato dall‟inquisitore al rettore di Crema – per ottenere la carcera- zione di Contini e Monza, come si è già ricordato – ne era la prova evidente: l‟inquisitore aveva fondato l‟accusa su alcune lettere che le penitenti avevano inviato «privatamente» ai loro confessori; inoltre, il giudice di fede aveva chie- sto il braccio secolare affinché i due religiosi fossero incarcerati prima che fosse

17 ASVe, Consiglio dei Dieci, lettere dei rettori e altre cariche ai Capi, Crema, b. 71, cc. n. n., «Raguaglio

distinto de gl‟errori che erano seminati ne ridotti delle demesse, retirate, zitelle e monasteri di monache da vent‟anni in qua, respetivamente dal padre Antonio Maria Monza e di Francesco Contini nella città di Cre- ma», scrittura di fra Andrea Reali, inquisitore di Crema («presentata a sua eccellenza podestà e

capitano […] instando le fosse concesso il bracio secolare per la carcerazione degl‟autori delle sopradette massime ereticali prima traspirassero la formazione del processo ch‟incaminassi»),

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giunto a termine il processo informativo. Si trattava di procedure precluse agli inquisitori che operavano nella Repubblica di Venezia, come si è già avuto mo- do di ricordare. Grazie all‟attenzione del rettore, tuttavia, il procedimento era stato rimandato sino a quando nelle aule del sacro tribunale – legalmente riunito – le denunce non erano state presentate formalmente.

Altra cosa erano le competenze, su questo punto il giurista si dilungò spen- dendo molte parole condite di ricchi riferimenti eruditi (per lo più tratti dalla tradizione del diritto canonico). In sintesi fra Odoardo Maria Valsecchi scrisse che l‟Inquisizione poteva procedere sulle dottrine eterodosse e contro «l‟orazione di quiete», la quale rientrava pienamente nella definizione. Vi erano però altri aspetti sui quali il rettore avrebbe dovuto vigilare attentamente affin- ché il sacro tribunale non valicasse i limiti giurisdizionali che gli erano stati im- posti: prescrivere la comunione quotidiana non implicava il sospetto di mala credenza e in qualche caso era concesso comunicarsi pur non essendosi pre- ventivamente confessati. Vietare la contemplazione d'immagini sacre e spargere massime ereticali nei conventi femminili rientrava nell‟orbita di competenze del Sant‟Uffizio, proclamare la santità di una giovane, invece, non necessariamente comportava indizi d‟eresia. La violazione del segreto sacramentale era un reato grave, ma doveva essere perseguito dal foro ordinario. «L‟Inquisizione tirareb- be a sé tutti li casi» – proseguì il giurista, citando Paolo Sarpi – ma il dissenso non era l‟unico motivo che poteva determinare il peccato, vi erano altri ele- menti come «la fragilità» e la «malizia», i quali non potevano essere giudicati dal Sant‟Uffizio. Valsecchi concluse la scrittura raccomandando che il rappresen- tante vigilasse l‟operato dell‟inquisitore: «rissultando per tanto da questo pro- cesso, come s‟è detto, alcuni indizi di miscredenza potrà la Serenità Vostra così piaccendole decretare che li ritenti siano rimessi al Sant‟Offizio, acciò dentro la restrizione e riserve accennate et a norma sempre delle pubbliche leggi possa contro d‟essi procedere per quello che riguarda la qualità dell‟indizio, o il so- spetto dell‟eresia».18

Fra Antonio Maria Monza e don Francesco Contini furono incarcerati, le loro stanze furono perquisite affinché fossero sequestrati tutti i testi in loro posses- so. Il Consiglio dei Dieci ordinò al podestà di inviare un inventario completo di tutte le carte rinvenute.19 Per Francesca Mondenese, invece, al momento della

ritenzione dei due religiosi, si erano aperte le porte del carcere: era stata rimessa in libertà (anche se l‟inquisitore continuava a esercitare pressioni affinché fosse nuovamente arrestata).20

18 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 22, cc. n. n., consulto di fra Odoardo

Maria Valsecchi, sub data 26 ottobre 1710.

19 Ivi, cc. n. n., dispaccio di Lelio Martinengo, podestà di Crema, al Senato, sub data 8 ottobre

1710 e copia della deliberazione del Consiglio dei Dieci, in ivi, c. n. n., sub data 29 ottobre 1710.

20 Ivi, c. n. n., copia del dispaccio di Lelio Martinengo, podestà di Crema, al Consiglio dei Die-

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Man mano che il processo inquisitoriale procedeva, emergevano nuovi indizi a carico degli imputati, l‟intreccio di competenze si infittiva e proporzional- mente si alzava la soglia di attenzione del podestà nei confronti del giudice di fede. Il rettore continuava a mandare le consuete informazioni alle magistrature competenti e queste a rigirarle ai Consultori in iure; il 4 dicembre fra Odoardo Maria Valsecchi e il conte Antonio Sabini dovettero sciogliere nuovi nodi rela- tivi al procedimento in corso. Per i dottori la frase pronunziata da fra Antonio Maria Monza: «che havesse la scienza infusa da Dio nel dirigere le anime peni- tenti», non era una proposizione ereticale («è verità cattolica che Dio può in- fondere il dono della scienza», precisarono i giuristi; si trattava quindi di «un peccato di presonzione» e non tanto di eresia). Allo stesso modo l‟abitudine di chiudere gli occhi quando il sacerdote elevava il calice e l‟ostia, non era un‟espressione di dissenso come, invece, pretendeva il giudice di fede; del re- sto, precisarono i consultori, «se l‟uso di questo rito fosse indizio di perversa fede, potrebbero questi frati inquisitori travagliare innumerevoli persone e massime donne con confusione e con scandalo». La conventicola promossa dai frati, per entrare nella quale era necessario prestare un giuramento al cospetto di un crocefisso, era, invece, di stretta competenza dell‟autorità secolare.

gnate rispettivamente A e C – la prima faceva riferimento a quanto era emerso durante il pro- cesso inquisitoriale, la seconda contiene le imputazioni a carico di Francesca Mondenese («in- dizi contro Francesca Mondanesa putta bergamasca diretta e penitente del padre Monza e Con- tini e da questi approvata nello spirito»); probabilmente si tratta di una carta vergata dall‟inquisitore elencava i capi d‟accusa a carico della ragazza: «1. che la fanciulla de poch‟anni si fosse incastrata una crocetta nel petto e poi levata vi fosse rimasta la piagha come regalo d‟Iddio 2. che una volta nettandosi la fronte bagnasse un fazzoletto di sangue per accreditarsi che sudava sangue 3. che ne‟ giorni di venerdì pativa i dolori della passione di Christo e compa- riva smorta e sfigurata 4. che era dottata, massime nell‟hore oscure, da lume e chiarezza grande 5. che riprendeva certe persone d‟alcuni riflessi de quali una dice che non li sapeva altri che la persona ripresa è Dio 6. che fosse restata morta tre hore e ricevute le stigmate 7. che patisse dolori eccessivi di capo e ciò per certa corona di spine ricevute 8. che fosse maltrattata e battu- ta da demoni per haverli levata un‟anima dalle mani 9. che parlando di due religiose morte, d‟una disse che era andata presto al paradiso e che l‟altra era stata in pericolo di salvarsi per ha- ver dispensate certe cose come se fossero state proprie, ma che però anche questa s‟era salvata 10. che tanto havea pregato per l‟anima d‟un marchiese morto ch‟ebbe rivellazione essersi sal- vato e che havesse havuto un atto di contrizione nel punto del suo transito 11. che doppo qualche hora di riposo per la voce d‟Iddio che la chiamava nella notte, ella postasi in orazione dallo stesso Iddio era sollevata a vedere la triade sagrosanta, la bellezza delle piaghe dell‟humanità di Giesù Christo e la gloria de santi 12. che Iddio nella stessa orazione gli faceva vedere le pene attroci che pativano nell‟inferno i religiosi inosservanti e tutti li sacerdoti che celebravano indegnamente 13. che una notte gli fece vedere tutte l‟anime che erano passate all‟altra vita, fra le quali cinque sono andarono in purgatorio e tre in paradiso 14. che Iddio gli havesse addossato tutte le pene che dovea patir l‟anima del signor padre d‟una religione per liberarlo dal purgatorio come fece e nel detto tempo fu veduta la detta Mondanesa havere nella vita varie scottature salvo che nelle mani, nel collo e nella faccia 15. che nell‟atto dell‟orazione havea veduto andar in paraddiso […] gloriosa la suddetta anima purgante, con piegarsi in atto di ringraziarla per le pene sofferte». Ivi, cc. n. n., allegato C, s. d.

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Per quanto concerneva le accuse mosse nei confronti di don Francesco Con- tini: era evidente che si fosse servito della fama di santità di Francesca Monde- nese e l‟avesse alimentata; si trattava però, secondo i consultori, più di un im- broglio che non di un errore di fede. Più specificatamente, nei confronti di Francesca, i giuristi evidenziarono dei vizi procedurali: l‟inquisitore non avreb- be potuto far arrestare la donna se non al termine del processo informativo, se- condo quanto stabilivano le norme in materia. I consultori aggiunsero che l‟affettata santità non era un reato contemplato negli editti inquisitoriali. Era quindi difficile stabilire se si trattasse o meno di eresia, per questi motivi i giuri- sti consigliarono di lasciare libera Francesca, ammonendola a non adottare più simili comportamenti («facendo poi ricercare il parroco suo, che o per sé stesso o col mezzo d‟altri direttori spirituali vegga di ridurla con buoni lumi ad amma- estramenti nella strada della sincera e soda divozione», aggiunsero i giuristi).21

Non era dello stesso parere fra Celso Viccioni; secondo il giurista Francesca Mondenese doveva essere inquisita e rimessa in carcere. La donna, infatti, po- teva aver avuto commerci col demonio che, «affine di captivarsi la stima de popoli per qualche suo comodo et interesse corporale», poteva averla resa in odore di santità. Celso quindi consigliava di procedere nei confronti della gio- vane per indagarne la coscienza. A tal proposito il consultore riportò un aned- doto che aveva letto in un testo di Jean Gerson: una donna (creduta santa) era stata sottoposta ai tormenti. In questo modo era stato possibile accertare che, quelle in cui cadeva, non erano estasi mistiche, ma piuttosto attacchi di «morbo caduco», dei quali approffittava per ingannare la gente e provvedere così al proprio sostentamento.22 Si innescò un gioco di consulte, fra Odoardo Maria

Valsecchi e il conte Sabini risposero al collega, lo fecero pubblicamente con un altro parere, all‟interno del quale moderavano le posizioni assunte in preceden- za: era loro compito difendere e far rispettare le leggi dello stato e far sì che l‟Inquisizione non procedesse sulle materie per le quali non era competente; e, tuttavia, elogiando l‟opera del «maestro Celso dignissimo teologo e consultore» i suoi colleghi scelsero di uniformarsi al suo parere. Conclusero la scrittura consigliando di inquisire Francesca Mondenese (il rettore avrebbe comunicato qualsiasi – sebben minima – novità al Senato).23

21 Ivi, cc. n. n., consulto di fra Odoardo Maria Valsecchi e del conte Antonio Sabini, sub data 4

dicembre 1710.

22 Ivi, cc. n. n., consulto di fra Celso Viccioni, sub data 11 dicembre 1710.

23 Ivi, cc. n. n., consulto di fra Odoardo Maria Valsecchi e del conte Antonio Sabini, sub data 15

dicembre 1710. Come ha scritto Adelisa Malena fu nel corso del XVII secolo che l‟Inquisizione romana estese il «proprio raggio d‟azione su un terreno per sua natura difficilmente controllabi- le: quello della santità e delle vie alla cristiana perfezione. In un‟epoca di ridefinizione dei mo- delli di santità promossa dalla chiesa cattolica, l‟avanzata del Sant‟Uffizio su questo fronte ri- guardò diversi piani, dall‟attento esame degli scritti dei santi al disciplinamento dei culti e delle devozioni, dalla marginalizzazione della santità “viva” alla repressione di quella bollata come falsa». Il reato di affettata santità penetrò nelle aule del Sant‟Uffizio – configurandosi come «una

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È un altro parere giuridico a informarci sullo svolgimento del procedimento contro Francesca; l‟inquisitore – secondo il resoconto dei giuristi – aveva stila- to un elenco di quarantaquattro imputazioni ai danni della giovane resasi col- pevole, secondo il giudice di fede, di essersi prestata ai disegni di fra Antonio Maria Monza e don Francesco Contini, i quali si erano serviti di lei per «accre- ditarsi nel concetto e per avantagiarsi nell‟interesse». I consultori, tuttavia, non tornarono sul tema delle competenze e concentrarono la loro attenzione sui vi- zi procedurali che potevano aver contaminato il processo. Il rettore di Crema avrebbe dovuto informare le autorità sul modo con cui erano state raccolte le denunce, sulle circostanze di avvio del processo e sull‟arresto della giovane. Se dapprima le autorità, attraverso i loro giusperiti, si erano interessate in maniera preponderante delle competenze e del fatto che l‟Inquisizione non si ingerisse in terreni ad essa preclusi, da quel momento in poi l‟attenzione si concentrò sui vizi procedurali imputabili al giudice di fede.

2. 2. Il processo contro l‟inquisitore di Crema (fra Andrea Reali)

I rapporti tra l‟inquisitore di Crema, il già citato fra Andrea Reali, e le autorità della Repubblica iniziarono a essere segnati da un clima di sospetto, soprattutto dopo la perquisizione delle celle di fra Monza e don Contini: vi erano state tro- vate delle carte che il podestà non volle consegnare al giudice di fede (le rimise, invece, al Senato).24 Si trattava di scritture scottanti – per come ne parlano le

autorità – delle quali non si conosce il contenuto; una deliberazione del Senato ci dice che non includevano nulla di pertinente al Sant‟Uffizio e pertanto si specificava che non dovessero essere consegnate, per nessuna ragione, al giudi- ce di fede che le reclamava. Certo è che il Senato decise di inviare il giudice al malefizio di Bergamo a Crema, in modo tale che potesse avviare un procedi- mento (col rito del Senato) ai danni dell‟inquisitore, fra Andrea Reali.25 Di con-

tro lo stesso inquisitore si affrettò a inviare una lettera al podestà di Crema, nel- la quale supplicava le autorità affinché non gli fosse «imputata alcuna inobe- dienza».26

vera e propria eresia» – a decorrere dagli ultimi decennio del Cinquecento (prima di allora era considerato una colpa morale). A.MALENA, L‟eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze

mistiche nel Seicento italiano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, vıı - vııı.

24 Ivi, cc. n. n., consulto di fra Celso Viccioni e del conte Antonio Sabini, sub data 12 febbraio

1711

25 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 23, c. n. n., sub data 2 gennaio 1711. 26 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 22, c. n. n., supplica dell‟inquisitore di

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Ancora una volta sono i Consultori in iure a informarci sull‟andamento e sull‟esito del processo avviato contro fra Andrea Reali. Il loro resoconto è ba- sato sulla relazione resa dal giudice del malefizio di Bergamo, Giovanni Gui- dozzi, incaricato, come si è già detto, di condurre il procedimento. Dagli atti raccolti emerse chiaramente come il domenicano avesse violato gran parte delle norme sulle procedure inquisitoriali. Dopo l‟arresto di fra Monza e don Contini l‟inquisitore aveva scritto «di proprio pugno» a una monaca, «suggerendole» dieci capi d‟accusa contro i due religiosi. Fra Andrea Reali si era rivolto alla donna così: «veda di scavare la verità con tutta segretezza e darmene avviso con scrivermi che essendole sovvenuto qualche cosa per sgravio di conscienza me ne da parte, senza far apparire che sia stata sopra di ciò illuminata, ma come