III. Crimina mixti fori nella Repubblica di Venezia
2. Bestemmia e oltraggio a immagini sacre
L‟oltraggio inflitto alle immagini sacre, spesso accompagnato da espressioni ir- reverenti nei confronti di Dio, della Vergine o dei santi, se non da vere e pro- prie bestemmie, era una di quelle manifestazioni di miscredenza, nel senso di «comunicazione dell‟incredulità o del non conformismo in genere», fra le più comuni. La gestualità, infatti, accompagnava spesso le parole e costituiva uno di quei canali espressivi nei quali si manifestava il dissenso; non ci è dato sapere in quale misura l‟eterodossia fosse miscelata ad altre componenti quali la voglia di prendersi gioco delle autorità o dei compaesani, certo è che si trattava di «at- teggiamenti iconoclasti piuttosto diffusi che spesso costituivano solo la rappre- sentazione scenica di un generico rifiuto delle norme e dell‟autorità». Le parti criminali del Consiglio dei Dieci sono ricche di denunce contro coloro che in qualche modo avevano deriso, rovinato o offeso immagini sacre, come scrive Federico Barbierato: «simili episodi di “sprezzo delle immagini sacre” furono numerosissimi soprattutto nelle città e nelle campagne di terraferma, pur es- sendo in generale isolati gesti di rabbia ed espressioni di ribellione non mediate e per lo più in direzione anticlericale».22
Dal punto di vista giuridico la materia si trovava esposta, congiuntamente alle considerazioni sulla blasfemia, nel capo ventunesimo del consulto Sopra l‟Officio dell‟Inquisizione, il quale recita:
gli eccessi di biastema ordinaria non doveranno esser lasciati all‟Ufficio dell‟inquisizione ma giudicati al foro secolare, conforme alla disposizione della legge ed uso di tutto il cristianesimo. Fu confermato in Senato del 1599, 15 maggio c. 4, 23
22 F.BARBIERATO, Politici e ateisti. Percorsi della miscredenza a Venezia tra Sei e Settecento, Milano, U-
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e 44. Le biasteme chiamate ereticali, che rendono indicio e suspicione spettano all‟Ufficio dell‟Inquisizione, ma quanto alla sceleratezza della biastema sono del foro secolare; ed ambidoi doveranno far la parte sua, espedendo il suo processo; prima quello che sarà stato il primo ad incomminciarlo; e fatte ambedue le sentenzie, si da- rà l‟esecuzione a ambedue, conforme alle deliberazioni del Senato 1595, 12 agosto c. 38, 39; 11 novembre, c. 39 ecc. il che si osserverà contra chi dasse ferite o tirasse pie- tre nell‟immagini di Cristo nostro Signore o delli santi. Disse il Senato, 1599, 15 maggio c. 42 ecc. Il simile sarà delle biasteme publiche ditte per irrisione, come can- tando salmi contraffatti o litanie obscene ed impie. Così deliberò il Senato sotto li 8 maggio 1599, c. 42.23
L‟episodio che ebbe per protagonista Antonio Gianezio detto Gianesin è uno di quei casi in cui l‟azione del Senato integrò quella giudiziaria già promossa dal Consiglio dei Dieci. Il 15 maggio 1708 Giovanni Duodo, podestà di Vicenza, scrisse al Senato descrivendo l‟occorso; il tutto era partito dalle denunce porta- te al decano di Schio: esse si riferivano all‟oltraggio inflitto a un‟immagine della Vergine che si trovava in un capitello, in una contrada poco distante. Data la gravità del delitto, il podestà di Vicenza aveva informato i Capi del Consiglio dei Dieci che avevano delegando in loco lo svolgimento di un processo col rito. Pochi giorni dopo il vicario pretorio, impegnato ad assistere l‟inquisitore, aveva avuto modo di ascoltare una denuncia estremamente interessante per la risolu- zione dello stesso caso sul quale stava indagando anche il foro secolare. A pre- sentarsi nelle aule del sacro tribunale, scrisse il podestà, era stato un giovane il quale aveva affermato di aver assistito, alcuni giorni prima, a una sparatoria av- venuta in un‟osteria. Il testimone disse di aver sentito degli spari e di aver visto Gianesin, evidentemente ubriaco, imbracciare un fucile e vantarsi «verso diver- se putte […] d‟haver ammazzato la Madona» affermando di non aver fatto al- cun male (a suo dire era caduto «solamente del calzinazzo»). Il podestà, con- cludendo il dispaccio, chiedeva lumi al Senato riguardo al processo inquisitoria- le: il giudice di fede voleva continuare il procedimento sull‟error intellecti, il so- spetto d‟eresia che poteva aver spinto Gianezio a compiere un atto tanto scon- siderato e, tuttavia, aggiunse il rettore, si trattava di un crimine punibile anche dalle autorità secolari. Domandava quindi se fosse lecito che il vicario pretorio continuasse a prestare l‟assistenza al giudice di fede.24
Il Senato rimise la questione ai Consultori in iure che redassero un parere in merito; secondo fra Odoardo Maria Valsecchi e il conte Antonio Sabini nel ca- so presente, erano state rispettate le norme del Senato (9 agosto 1603 e 5 set- tembre 1609) in materia di avvio dei procedimenti inquisitoriali: la denuncia, in
23 PAOLO SARPI,Consulto sopra l‟Officio dell‟Inquisizione, cit., p. 125, capo XXI.
24 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 20, cc. n. n., dispaccio del podestà di Vi-
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rispetto delle leggi, era stata assunta dal tribunale riunito, presente l‟assistente secolare. Per quanto riguardava il reato commesso da Gianezio i consultori ri- solsero la questione citando il capitolare: come per la bestemmia anche per i casi di oltraggio di immagini sacre era prevista la duplice giurisdizione, come si è già ricordato. Il foro ecclesiastico avrebbe indagato il sospetto d‟eresia e quello se- colare si sarebbe occupato del crimine in sé e dello scandalo ad esso legato. Pertanto i consultori consigliarono di far proseguire il processo all‟autorità che aveva prevenuto, in questo caso il podestà e la corte pretoria con delega da par- te del Consiglio dei Dieci, dopodiché avrebbe proceduto – solo sul sospetto d‟eresia – il Sant‟Uffizio; una volta espediti entrambi i processi, avrebbero avu- to luogo tutte e due le sentenze.25 Il 19 luglio il Senato deliberò a favore delle
soluzioni suggerite dai consultori in iure, stabilendo anche di inviare una copia del parere al podestà di Vicenza affinché potesse riceverne maggior «lume».26
Un altro episodio imperniato, almeno in parte, su un caso di offesa arrecata a immagini sacre ebbe come protagonista Ugo Ughi d‟Isola d‟Istria; il caso fu se- gnalato dal podestà di Capodistria al Senato (con un dispaccio datato 15 luglio 1711). Questa volta la denuncia era stata assunta nel tribunale del Sant‟Uffizio, alla presenza del podestà; nelle aule del tribunale si era presentato Iseppo Ughi, padre di Ugo, il quale aveva denunziato il figlio per «vari atti e sentimenti suoi» che lo rendevano, agli occhi del genitore, «gravemente sospetto di prava inten- zione». Secondo quanto scritto dal podestà a Ugo Ughi erano imputati diversi crimini: bestemmie contro Dio e la Vergine e i santi,
freggi da lui fatti con coltello e con spada in immagini della stessa beata vergine Ma- ria e de‟ santi, lordure, dileggi et ingiurie usate con fatti e con parole ad immagini si- mili, espressioni che Dio non sia giusto, né onnipotente e che lo ammazzerebbe se potesse anco in cielo con aggiunta che possa più il diavolo che Dio; abuso del cibo di carne in giorno di sabbato, beffandosi di tutti li sabbati della Quaresima e di chi l‟ha fatta, come pure delle benedizioni solite darsi col venerabile.
Inoltre Ughi aveva rifiutato di insegnare le orazioni a suo figlio «acciò diven- tasse luterano come lui» e aveva proferito diverse massime ereticali dicendo «di voler communicarsi senza confessione, ridendosi del paradiso come fosse ricet- to di gente solo villona». Ugo Ughi, a detta del rettore, si era macchiato di un delitto che lo stesso podestà riteneva di esclusiva competenza del foro secolare: la spoliazione dei gioielli che adornavano l‟immagine di una Vergine. Il rettore concluse il suo dispaccio chiedendo come dovessero essere districate le compe-
25 Ivi, consulto di Odoardo Maria Valsecchi e del conte Antonio Sabini, sub data 4 luglio 1708.
Copia del consulto si trova anche in ASVe, Consultori in iure, fz. 164, cc. n. n., sub data 4 luglio 1708.
26 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 20, deliberazione del Senato, c. n. n., sub
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tenze a proposito dei delitti sopra esposti («così attendo io a tutto ciò che nell‟altre colpe dovesse separarsi dalla cognizione del Sant‟Officio perché non resti pregiudicata la temporal giurisdizione di vostra serenità», scrisse). Di que- sto problema, aggiunse, aveva parlato anche con l‟inquisitore di Capodistria - definito dallo stesso rettore come un «huomo assai discreto e ragionevole» - col quale, analizzando il capitolare, era giunto alla seguente risoluzione: le bestemmie e gli sfregi inflitti alle immagini sacre dovevano essere puniti dal foro laico, mentre il giudice di fede si sarebbe occupato dell‟intenzione con la quale erano state compiute le stesse azioni; nei confronti di Ugo Ughi, concluse il podestà, era stato emanato un decreto d‟arresto ma l‟uomo era riuscito a fuggire.27
In un dispaccio successivo, datato 30 settembre, il podestà di Capodistria in- formò il Senato dell‟avvenuto fermo di Ughi: quest‟ultimo era stato arrestato a Udine (dove, durante una perquisizione, gli erano state trovate addosso delle carte di segreti) e da lì era stato rimandato a Capodistria. L‟inquisitore aveva po- tuto continuare il processo dal quale erano emersi dati incontrovertibili a dan- no dell‟imputato: numerosi testimoni confermarono di averlo sentito bestem- miare pesantemente, offendendo anche l‟«infinita sapienza di Dio con la parola che sia un coglione».28 Fu richiesto, come da consuetudine, il parere ai Consul-
tori in iure che dopo aver speso parole benevole sull‟operato del rettore – ado- peratosi per «preservare nella separazione di esse la giurisdizione di vostra se- renità da quei pregiudizi che sotto il velo di religione gli vengono bene spesso preparati e tallora, ove manchi l‟attenzione, inferiti» – spiegarono come doves- sero essere trattati, dal punto di vista giuridico, i reati ascritti a Ugo Ughi. Lo fecero attraverso una scrittura molto lunga in cui, riassumendo, spiegarono che la bestemmia e le proposizioni ereticali, soprattutto quelle contro la verginità di Maria, erano crimini di lesa maestà divina che dovevano essere puniti dalle ma- gistrature secolari sia per la gravità del reato, sia per il grave scandalo arrecato alle «pie orecchie». Per i consultori lo sfregio d‟immagini sacre, al pari delle be- stemmie, rientrava nella sfera di competenze dell‟autorità secolare; in ogni caso per tutti i reati commessi, come aveva stabilito Sarpi nel capitolare, il Sant‟Uffizio aveva la facoltà di procedere sul sospetto d‟eresia.
I giuristi pertanto suggerirono di applicare la dottrina di misto foro al caso specifico: entrambi i tribunali avrebbero processato Ughi (a decorrere dal Sant‟Uffizio che aveva prevenuto) ciascuno secondo la propria competenza, dopodiché sarebbero state applicate cumulativamente le sentenze.29 Il parere
divenne esecutivo attraverso una deliberazione del Senato che riprendeva alla
27 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 23, cc. n. n., dispaccio del podestà di
Capodistria, Francesco Maria Malipiero, al Senato, sub data 15 luglio 1711.
28 Ivi, dispaccio del podestà di Capodistria, Francesco Maria Malipiero, al Senato sub data 30
settembre 1711.
29 Ivi, cc. n. n., parere dei Consultori in iure, sottoscritto da fra Odoardo Maria Valsecchi e il
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lettera il consulto (2 gennaio 1712); la magistratura decise di delegare il caso a Capodistria, il rettore avrebbe proceduto col rito del Senato.30 I Decreta del
Sant‟Uffizio ci trasmettono alcune informazioni sullo svolgimento del processo inquisitoriale; il 13 ottobre 1711 la Congregazione, dopo aver valutato il som- mario del processo, decretò di fornire un nuovo termine affinché Ughi rediges- se le proprie difese.31 A distanza di quasi due mesi gli inquisitori generali stabili-
rono che l‟uomo dovesse essere sottoposto a tortura; il suo destino era legato ai tormenti: se avesse superato la prova rispondendo rettamente riguardo alle proprie intenzioni, la sua pena sarebbe stata il carcere per un decennio altri- menti, previa abiura de vehementi, Ugo Ughi sarebbe stato condannato «ad carce- res perpetuos»; non si conosce la sorte di Ughi: da quel momento se ne perdo- no le tracce tra i fitti verbali della Congregazione del Sant‟Uffizio.
«Mista» fu considerata anche la bestemmia proferita dal «dottor» Giovanni Simonceni, «medico del Cedegolo», che – a detta di fra Enrico Fanzio – aveva proferito un‟espressione «orridissima ed esacranda» dicendo che «Gesù Cristo era un puttaniere». Secondo il servita si trattava di un misto di «malvagità […] ch‟è di conoscenza del giudice laico» e d‟«indizio di eresia, che compete al tri- bunal del Sant‟Offizio». Pertanto, come negli altri casi sopra esposti consigliò di applicare la dottrina del misto foro.32 I consultori in iure consigliarono di ap-
plicarla anche nel caso di un carcerato, don Francesco Maria Riva, detenuto nelle prigioni laicali di Verona. Fra Paolo Celotti vergò una scrittura nella quale si riassumevano le modalità con le quali era stato denunciato il caso: il prete era stato sentito bestemmiare in carcere dopodiché il podestà di Verona aveva in- formato una non precisata magistratura secolare (probabilmente il Consiglio dei Dieci). Questa, a sua volta, seguendo il consueto percorso circolare, aveva rimesso il caso ai giusperiti della Repubblica, i quali stabilirono che le «colpe» commesse da Riva «sono di tal carattere che per le leggi non solamente sotto- pongono il reo alla vendetta del magistrato, ma eziandio alla censura del tribu-
30 La deliberazione del Senato recita: «il contenuto delle vostre lettere che nelle date de di 15
luglio e 30 settembre ultimi passati si sono pervenute esponenti le scandalose et empie imputa- zioni di Ugo Ughi d‟Isola inquisito e carcerato per cotesto Santo Officio che hanno altamente commossa la pietà degl‟animi nostri. Come è stata prudente la partecipazione che ce ne ha resa la commendabile vostra puntualità così restando divise […] quelle che spettano al foro secolare dall‟altro che ponno appartenere alla giudicatura del sant‟Officio nella informazione che ci han rassignata li consultori, crediamo medesimi di unirvela in copia per vostro lume. A norma può della medesima sua parte vostra il commettere una rigorosa formazion di processo coll‟auttorità e rito del Senato per questo caso che vi resta delegato impartindoci anco la facoltà di far assumere le deposizioni di quei sacerdoti che occorressero per giustificare li scandali e delitti dell‟accennato inquisito devenendo poi nell‟espedizione del processo. A quella sentenza che giudicarete per propria coscienza necessaria a correzione giusta delle sue enormi et empie colpe». Ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 2 gennaio 1712.
31 ACDF, Decreta S. O. (1711), c. 466r, 13 ottobre 1711.
32 ASVe, Consultori in iure, fz. 229, cc. 66r e seguenti, consulto di fra Enrico Fanzio, 1 dicembre
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nal della fede». I consultori specificarono che i casi di bestemmia, «come pure di derisione de devozioni, e divini misteri e profanazioni di cose sagre e sante», sommavano in sé due elementi: «il delitto e lo scandalo dato» e il «sospetto che ne risulta di qualche perversa opinione» celata «nell‟animo dell‟autore di tali de- litti». Pertanto, seguendo le prescrizioni del capitolare, ciascuna magistratura si sarebbe occupata della parte di delitto per la quale era competente. Per quanto concerne l‟episodio specifico, dal momento che la denuncia era stata assunta preventivamente dal magistrato secolare, il consultore suggerì di far proseguire il procedimento a quest‟ultimo, dopodiché sarebbe spettato al Sant‟Uffizio in- dagare sulla coscienza di Riva.33
La stessa risoluzione fu suggerita da fra Paolo Celotti in merito alle bestem- mie proferite da un altro carcerato, Vincenzo Bolzato da Lendinara. Quest‟ultimo, secondo il resoconto del consultore, si trovava da qualche tempo condannato in un «camerotto allo scuro» per aver bestemmiato e «per haver inveito contro l‟immagine di Maria Vergine». In carcere Bolzato aveva reiterato il crimine: aveva proferito bestemmie che erano state udite, con «orrore», dai guardiani. Secondo fra Paolo Celotti il reato di blasfemia commesso dal prigio- niero doveva essere giudicato congiuntamente dalla magistratura secolare, alla quale spettava punire la grave offesa arrecata alla maestà divina, e al Sant‟Uffizio che avrebbe dovuto occuparsi delle bestemmie ereticali. Per spie- gare più precisamente cosa si intendesse per bestemmie ereticali, il consultore citò Cesare Carena: «una locuzione falsa contro Dio, per modo di ingiuria cioè di derogare alla gloria divina aggiongendo tutto ciò ch‟è indecente, overo dimi- nuendo ciò ch‟è dovuto». Ancora una volta il consultore si appellava alle due componenti che costituivano lo stesso reato, la prima «certa e notoria, cioè l‟offesa e ingiuria della maestà divina», l‟altra – il sospetto «di mala credenza et error di mente» – «incerta e solamente presuntiva»; la bestemmia, sostenne Ce- lotti, poteva essere semplicemente una manifestazione di collera, di disperazio- ne o di «passione», motivazioni che allontanavano il sospetto d‟eresia e che fa- cevano ricadere il reato nell‟orbita della competenze laicali, e tuttavia, secondo il giurista, l‟episodio analizzato non rientrava in questa tipologia. Appellandosi ai già citati capo ventunesimo del Consulto sopra l‟officio dell‟Inquisizione e alle leggi cinquecentesche in materia di bestemmia (12 giugno 1595 e 15 maggio 1599) il consultore consigliò l‟applicazione della dottrina di misto foro.34
33 ASVe, Consultori in iure, fz. 172, cc. n. n., consulto di fra Paolo Celotti, sub data 12 settembre
1721. Su Riva v. anche ASVe, Consiglio dei Dieci, parti criminali, fz. 135, c. n. n., accettazione della denuncia, sub data 14 novembre 1721.
34 ASVe, Consultori in iure, fz. 187, cc. 164r,v, minuta di consulto di fra Paolo Celotti, s. d. Un
consulto analogo fu scritto anche per il caso di Antonio Battisti detto Biamin. Questi, già dete- nuto nelle prigioni laicali per il reato di blasfemia, era stato denunciato dal guardiano delle car- ceri al Sant‟Uffizio per le pesanti bestemmie da lui proferite mentre si trovava in cella. Fra Pao- lo Celotti – citando le fonti sopracitate – suggerì che fosse applicata la dottrina del misto foro.
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Succedeva spesso che bestemmie e proposizioni ereticali accompagnassero gesti di quotidiana violenza, soprattutto fra le mura domestiche. Il 21 agosto 1735 fra Paolo Celotti scrisse un parere giuridico in merito a un caso che gli stato trasmesso dal Consiglio dei Dieci. Era stato il capitano di Verona a in- formare i Capi: il rettore si era imbattuto in un episodio ambiguo dal punto di vista giuridico. Questo riguardava la denuncia presenta da alcuni membri della famiglia Corradini: la moglie, la sorella, i fratelli e il suocero erano tutti concor- di nel definire Giuseppe Corradini come un violento e un miscredente, nella fattispecie lo accusavano di aver proferito gravi massime ereticali. Il servita spese poche parole sulle violenze famigliari: queste rientravano nell‟ambito e- sclusivo della giurisdizione laicale («resteranno per oggetto della giustizia ven- dicatrice di vostre eccellenze», specificò Celotti). Il consultore si soffermò più a lungo sulle proposizioni imputate a Corradini: «Signor nostro non era morto in croce», «Maria vergine non era vergine», «che non vi erano né inferno, né para- diso, né purgatorio […] avendo anche insinuato alla moglie che i libri di divo- zione e massime la dottrina cristiana sono cose tutte false, e inventate solo per oggetto e vantaggio di chi ne faceva, di essi, la vendita». Si trattava di frasi dalle quali emergeva chiaramente la miscredenza di Corradini, che per tali ragioni doveva essere rimesso anche al Sant‟Uffizio; «essendo cosa chiara», affermò il consultore, «che per le stesse leggi le podestà, la secolare ed ecclesiastica hanno preciso debito di vicendevolmente coadiuvarsi nell‟amministrazione della giu- stizia e massime nella punizione dei delitti, e perciò sono chiamati bracci, per- ché siccome un braccio eccita l‟altro, così devono fare queste due podestà an- cora». Pertanto consigliava, al termine del processo da parte del reggimento di Verona, di rimettere l‟imputato anche al Sant‟Uffizio in modo tale che avessero