II. I linguaggi della giustizia, le istituzioni e i filtri
3. Le procedure delle magistrature secolari (Consiglio dei Dieci, Senato)
Nel corso della presente ricerca si è dovuto fare i conti con le diverse magi- strature secolari che si occuparono di reprimere determinati crimini per i quali era concorrente anche il Sant‟Uffizio. Per quanto concerne l‟Inquisizione una prima distinzione di massima può essere la seguente: per gli aspetti ammini- strativi quali l‟approvazione delle nomine dei giudici di fede, le questioni rela- tive ai vicari foranei i rappresentanti secolari, si rivolgevano al Senato. A quest‟ultimo nell‟arco di un secolo si appellarono anche per circa venticinque episodi riferiti all‟amministrazione della giustizia penale o a casi di misto foro, controversie, conflitti di competenza con gli inquisitori. Nella maggior parte dei casi imperniati sui crimina mixti fori, tuttavia, i rappresentanti secolari scel- sero di rivolgersi al massimo organo penale e amministrativo della Repubblica di Venezia, il Consiglio dei Dieci. In terra ferma quest‟ultimo era competente per tutti quei reati che la magistratura degli Esecutori contro la Bestemmia perseguiva a Venezia e nel Dogato (come la blasfemia, i comportamenti dis- soluti, lo sfregio di immagini sacre e, in generale, i comportamenti ritenuti de- vianti in quanto lesivi della pubblica tranquillità).
Come scrive Claudio Povolo il governo della Repubblica aveva organizzato capillarmente il controllo dell‟amministrazione politica, amministrativa e giu- diziaria delle città sottoposte al proprio dominio. Per ogni città, almeno per quelle ritenute più importanti (come Padova, Brescia, Verona, Vicenza e Ber- gamo) il Maggior Consiglio nominava due rappresentanti, un capitano e un podestà: il primo rivestiva competenze in campo militare e finanziario, il se- condo in campo civile e amministrativo anche se le funzioni potevano essere ripartite in modo più flessibile. Di norma i centri meno importanti erano retti da un solo rappresentante che poteva rivestire la carica di podestà, di capitano o di provveditore (come a Pordenone e a Cividale); «i rappresentanti durava- no in carica sedici mesi, ma tale periodo venne spesso superato, soprattutto negli ultimi due secoli di vita della Repubblica, per la notevole riduzione nu- merica del patriziato dirigente veneziano». Per l‟antica patria del Friuli dove persistevano antichi e radicati privilegi feudali era, invece, nominato un luogo- tenente. I rettori erano assistiti da tre o quattro assessori e da due camerlenghi accompagnati ciascuno da un cancelliere – a capo della rispettiva cancelleria – incaricato di sbrogliare le pratiche amministrative.
In periferia l‟amministrazione della giustizia da parte del governo veneziano, dopo la conquista dello stato territoriale, si inserì in un sostrato di norme lo- cali facenti parte degli antichi statuti cittadini che, nella maggior parte dei casi,
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risalivano al XIII secolo; si trattava di leggi che si erano consolidate «ponen- dosi in funzione preminente rispetto al diritto comune». Per tale motivo il governo veneziano dovette rapportarsi alle differenti realtà locali che scelse di mantenere inalterate, pur emanando numerose leggi e ordinanze, di carattere generale, per rendere più omogenea la situazione (di per sé piuttosto fram- mentaria, come si è già detto). Furono mantenuti anche gli organismi buro- cratico-giudiziari locali come l‟antico ufficio del maleficio che aveva compe- tenza solo per le cause criminali, anche se i suoi poteri furono lentamente ri- dimensionati in seguito all‟azione accentratrice operata dalla Repubblica. L‟amministrazione della giustizia penale era «quasi del tutto competenza del podestà e della corte pretoria, che procedevano insieme con eguale potere de- liberativo». In assenza del podestà che doveva prestare assistenza all‟inquisitore nelle riunioni del Sant‟Uffizio, il vicario pretorio – l‟assessore più importante, il quale solitamente aveva competenza in materia civile – po- teva sostituirlo in questa incombenza;38 un compito, quello di assistere e sor-
vegliare l‟operato dell‟inquisitore che spesso, sempre in sostituzione del pode- stà, era svolto anche dal giudice al maleficio.39
Per quanto concerne più strettamente la giurisdizione penale, essa poteva essere ordinaria o straordinaria (delegata); la prima aveva luogo quando la corte pretoria e il podestà «procedevano con l‟autorità ordinaria del reggimen- to, prevista e regolata dagli statuti cittadini, e in tal caso i processi erano for- mati quasi esclusivamente nell‟ufficio del maleficio dai notai locali, sotto la
38 C.POVOLO, Aspetti e problemi dell‟amministrazione della giustizia penale, cit., pp. 155-258, in part.
le pp. 156-161. Nel Cinquecento i giudici assessori erano giuristi di terraferma chiamati a svolgere l‟incarico dai rappresentanti locali «anche se il rapporto di tipo clientelare e persona- le era mitigato dal prestigio e dall‟esperienza dei vari reggimenti». Quella dell‟assessore era quindi una carriera svincolata dalle nomine del potere centrale, basata essenzialmente sull‟intraprendenza del singolo, «al reticolo di conoscenze che egli aveva nel mondo dei giuri- sti e in quello più importante del patriziato veneziano». A decorrere dal Seicento, data l‟importanza dell‟incarico, Venezia intervenne – attraverso norme ad hoc che continuarono ad essere emanate anche nel secolo successivo – affinché il loro reclutamento fosse regolato «formalizzandone i requisiti richiesti. Solo allora l‟assessore si sarebbe avvicinato ad una legit- timazione istituzionale di ceto, anche se i legami clientelari con il potere politico sarebbero rimasti preponderanti sino alla caduta della Repubblica». IDEM, Il giudice assessore nella Terrafer-
ma veneta in L‟assessore discorso del sign. Giovanni Bonifacio in Rovigo MDCXXVII, Claudio Povolo
(a cura di), Pordenone, Tipografia Sartor, 1991, pp. 5-38, le citazioni sono alle pp. 29, 30.
39 Paolo Sarpi aveva inserito questa norma nel capo II del consulto Sopra l‟Officio
dell‟Inquisizione: «in caso che alcuna volta, per necessario impedimento, nissun delli rettori po-
tesse intervenire, debba ritrovarsi il vicario del podestà. Così fu deliberato dal medesimo Conseglio nel 1548, 29 novembre, carta 26; overo quando questo ancora fosse occupato per causa legitima, un altro delli curiali od altra persona mandata particolarmente dal rettore», PAOLO SARPI, Consulto sopra l‟Officio dell‟Inquisizione, cit., p. 120. Per quanto concerne
l‟organizzazione politica, amministrativa e giuridica dello stato da terra nella prima età mo- derna v. A.VIGGIANO,Governanti e governati. Legittimità del potere ed esercizio dell‟autorità sovrana nello Stato veneto della prima età moderna, Treviso, Edizioni Canova, 1993.
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direzione e il controllo del giudice del maleficio, l‟unico tra gli assessori del podestà che avesse competenze nel penale». Il Senato, il Consiglio dei Dieci e la Serenissima Signoria avevano poi la facoltà di delegare dei processi penali al rettore e alla corte pretoria; ciò avveniva per le cause di particolare gravità che avessero richiesto più ampi poteri decisionali da parte delle sedi periferiche. I rettori erano tenuti a informare il Senato o il Consiglio dei Dieci quando si verificassero casi di una certa importanza, per esempio in occasione di delitti efferati, o nei confronti dei crimini che avessero implicate delle particolari ag- gravanti; solitamente queste cause erano già state assunte dal giudice al male- ficio che doveva, data la gravità degli episodi, consegnare la documentazione al podestà e alla corte pretoria che, a decorrere da quel momento, avrebbe as- sunto il caso. Dopodiché il rettore avrebbe informato la magistratura di rife- rimento, nella maggior parte dei casi il Consiglio dei Dieci (che dal XVI seco- lo aveva visto aumentare le proprie competenze su tutti i delitti «che avessero assunto connotati politici o che comunque avessero intaccato la vita, l‟onore e i beni dei sudditi»). Gli organismi centrali, una volta analizzata la documenta- zione proveniente dalla periferia, potevano decidere se assumere il caso o de- legarlo, o ancora se rimetterlo al reggimento che aveva avviato il processo; in questo caso il procedimento sarebbe proseguito nella cancelleria pretoria o nell‟ufficio del maleficio, tale eventualità si avverava nei casi di minore impor- tanza (quelli che non avessero implicato un aumento di potere da parte della corte locale).40 A differenza del Sant‟Uffizio che non poteva, almeno nei terri-
tori della Repubblica di Venezia, avviare un procedimento ex officio, le magi- strature secolari ricorrevano all‟arma delle delazioni segrete, anche se la pro- cedura più invalsa continuò a essere quella mista che prevedeva l‟avvio del processo in seguito alla denuncia effettuata dai capi contrada delle città, i dega- ni o i merighi (e spesso anche dai chirurghi).41
La delega presupponeva l‟avvio del processo da parte della corte pretoria e del podestà con le particolari facoltà che erano concesse dal centro; qualora il procedimento fosse già stato avviato dall‟ufficio del maleficio, gli atti doveva- no essere trasmessi alla cancelleria pretoria (dove «la formazione dei processi era affidata al cancelliere pretorio e ai suoi coadiutori assistiti dal giudice del maleficio»): i due rettori e gli assessori avrebbero continuato il procedimento sino all‟espedizione della causa, senza l‟ingerenza dei notai cittadini che non potevano intervenire nelle cause delegate.
40 Ivi, pp. 162-164. Sulla figura del cancelliere pretorio v. S.MARIN, L‟anima del giudice. Il cancel-
liere pretorio e l‟amministrazione della giustizia nello Stato di terraferma (secoli XVI-XVIII), in Gio-
vanni Chiodi, Claudio Povolo (a cura di) L‟amministrazione della giustizia penale, cit., vol. II, pp. 171-257.
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Le delegazioni che giungevano ai tribunali di terraferma erano provviste di clausole diverse a seconda dell‟importanza e del tipo di delitto, nonché delle persone che vi erano coinvolte. Il Senato delegava con il proprio rito ed in tal caso il processo, che veniva istruito nella cancelleria pretoria o ivi proseguito dopo essere stato sottratto all‟ufficio del maleficio era affidato a uno dei coadiutori pretori.42
Nello specifico la delega col rito del Senato prevedeva un processo aperto – con la pubblicità dei testi d‟accusa e delle loro deposizioni – «rigidamente pre- fissato da norme ben definite che contemplavano, tra l‟altro, la presenza di avvocati difensori».43 Si tratta della modalità meno utilizzata per risolvere, per
conto delle magistrature secolari, i casi di misto foro che venivano segnalati dalla periferia; spesso, infatti, in concorrenza era coinvolto anche il Consiglio dei Dieci, lo stesso Senato pertanto, in molti casi, stabilì che fossero proprio i Dieci a procedere su determinate materie, a favore di questa magistratura probabilmente giocavano la segretezza del rito e la rapidità di procedura.
La delegazione «col rito e l‟auttorità dell‟eccellentissimo Senato» fu utilizzata in un caso di misto foro che vide come protagonisti un gruppo di uomini che aveva mangiato carne in Quaresima, violando i precetti ecclesiastici. Il 29 marzo 1711 il podestà di Treviso comunicò al Senato un fatto occorso nelle aule del Sant‟Uffizio durante una riunione del tribunale cui aveva presenziato il suo vicario pretorio (che nell‟occasione sostituiva il rettore). Un testimone aveva detto di aver assistito a un fatto scandaloso, avvenuto nell‟osteria delle Due Chiavi della stessa città; il teste aveva additato, in qualità di responsabili Domenico Zuccaredda, Bartolomeo Milani, Medoco detto Sordino, il conte Vecchia e un tale Tessarotto. Questi ultimi, secondo la denuncia presentata al Sant‟Uffizio, erano entrati nell‟osteria chiedendo della carne e, al diniego del locandiere (il quale aveva detto loro che non era possibile mangiarla in Qua- resima) erano entrati in cucina – ostentando una falsa licenza – e rovistando nelle credenze si erano serviti da soli, mangiando i cibi proibiti dai precetti. Il
42 Sui diversi tipi di avvio di un procedimento v. ivi, p. 213. Sin dal medioevo era previsto an-
che il sistema procedurale per accusa – in cui erano le parti a prendere l‟iniziativa «e al giudice non rimaneva che la decisione finale - sostituito nell‟età moderna a favore del tipo inquisito- rio. Ibidem. A Venezia e nelle città di terra ferma vi erano delle apposite «bocche di pietra» (leoni, maschere, semplici cassette) all‟interno delle quale venivano riposte le denunce segrete. In tal modo le autorità avrebbero raccolto notizie sugli illeciti commessi, ed eventualmente, avrebbero potuto – dopo aver accertato la veridicità delle accuse – formare un processo con- tro le persone denunciate segretamente. Spesso i raccoglitori per le denunce si differenziava- no a seconda del reato; molti di essi furono distrutti dai francesi all‟arrivo di Napoleone, in disprezzo per quella che consideravano la rappresentazione di una giustizia arcaica. Sulle de- nunce anonime e sulle bocche di pietra utilizzate per infilarle (con una raccolta di immagini che ritrae quelle tutt‟oggi esistenti) v. P.PRETO, Persona per hora secreta. Accusa e delazione nella
Repubblica di Venezia, Milano, il Saggiatore, 2003.
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podestà chiedeva maggiori ragguagli sul tipo di delitto e su quale fosse la ma- gistratura preposta alla sua coercizione, a proposito scrisse:
come però il fatto seguì con una detestabile pubblicità, universale mormorazione e scandalo della città tutta, così cade in dubbio al mio umilissimo zelo se per tali ri- flessi habbiano li rei a soggiacere al foro ecclesiastico o al secolare massime che non si dessume esservi in essi alcuna sospizione d‟eresia, non essendo da testimoni aggravato di mala credenza ma bensì solamente della scandalosa loro operazione. Uniformandosi per tanto l‟umiltà mia a moltiplici inchinati decreti della serenità vostra in tale proposito e particolarmente quello dell‟anno 1597 23 agosto che pre- scrivono doversi presentare tali dubbi all‟infallibile sapienza dell‟eccellentissimo Senato, non ha potuto dispensarmi da rassegnazione del presente reverendissimo cenno per venerare il sovrano sentimento dell‟eccellenze vostre.44
Richiesto il parere ai Consultori in iure questi consigliarono, come si è già ac- cennato, che il Senato dovesse procedere col proprio rito; quanto suggerito diventò esecutivo con una deliberazione datata 16 aprile 1711.45 La medesima
risoluzione, la delega del processo al Senato in un caso di misto foro, fu presa anche nel caso di Bortolo Bonisolo che aveva rubato una particola consacrata nella chiesa di Bagnolo, diocesi di Brescia; i Consultori in iure, interpellati per districare il problema delle competenze riassunsero così i fatti: «ricevuto ch‟ebbe all‟altare di detta chiesa nel giorno primo dell‟anno corrente l‟ostia consacrata se la cavò di bocca, la ripose in una scarsella tenendovi dentro la mano, del che avvertito l‟arciprete gliela riprese ridotta in una baletta, e che arrestato dal commune fu dal medesimo condotto in quelle carceri». La parti- cola, ipotizzarono i consultori, sarebbe servita a compiere un sortilegio: si trattava di un grave crimine che doveva essere punito dal magistrato secolare per l‟offesa arrecata al corpo e al sangue di Cristo. Suggerivano pertanto di rimettere il caso al Senato che avrebbe delegato lo svolgimento di un proces- so col proprio rito. Una volta terminato il procedimento, il caso sarebbe stato
44 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 23, cc. n. n., dispaccio del podestà di
Treviso, Gaetano Andrea Giovanelli, al Senato, sub data 29 marzo 1711.
45 Ivi, cc. n. n., consulto di Odoardo Maria Valsecchi e del conte Sabini, sub data 9 aprile
1711; ivi, c. n. n., deliberazione del Senato, sub data 16 aprile 1711. Il Sant‟Uffizio, secondo i consultori, avrebbe dovuto limitarsi ad ammonire gli imputati se non fosse stata comprovata l‟aggravante della recidività: «ad ogni modo per non dar adito al tribunale di dilatarsi coll‟esempio in una materia ch‟è assai frequente, bensì rare volte così grave, crederessimo be- ne di non permettergli che possa obligare gl‟inquisiti se oltre all‟azione c‟hanno fatta, non re- sti rilevato in processo fabricato alcuna delle circostanze notate dal Carena, cioè c‟habbino mangiato più volte cibi prohibiti». Ibidem. Nel fondo dei Consultori in iure, nella raccolta di consulte attribuite a fra Paolo Celotti, si trova un altro parere sullo stesso caso (datato sempre 9 aprile 1711). In questo consulto, tuttavia, il consultore esprime maggiore diffidenza nei confronti del tribunale ecclesiastico che, secondo il giurista, non ha motivo di ingerirsi su questo reato (considerato di stretta competenza del foro secolare). Cfr. ASVe, Consultori in
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trasmesso al tribunale del Sant‟Uffizio che aveva facoltà di procedere sul so- spetto d‟eresia, sull‟intenzione con la quale Bortolo Bonisolo avesse commes- so il crimine.46
Per quanto concerne gli altri casi di misto foro, relativamente alla parte sulla quale era competente il foro secolare, come si è già detto, fu il Consiglio dei Dieci a intervenire nella quasi totalità dei casi. In terra ferma l‟Eccelso poteva delegare i processi con la clausola servatis servandis oppure con il proprio rito inquisitorio. Le locali corti pretorie potevano, attraverso la clausola servatis ser- vandis, comminare pene superiori rispetto a quelle di cui potevano avvalersi normalmente. Questa tipologia di delega, al pari di quella conferita dal Senato, fu una delle meno utilizzate per procedere sui crimini di misto foro analizzati nella presente ricerca.
Nella quasi totalità dei casi per indagare e reprimere determinati reati che portavano connaturata in sé una componente eretica e quindi risultavano le- sivi della lesa maestà divina il Consiglio dei Dieci fece ricorso al famigerato rito. Il tribunale locale che poteva avviare un procedimento con questa moda- lità diventava a tutti gli effetti l‟«alter ego» della magistratura che l‟aveva insi- gnito: godeva in questo modo di poteri eccezionali.47 Il rito, definito in questo
modo per «l‟alto grado di formalizzazione e di regolamentazione dei momenti in cui si articolava» era un‟estensione alla periferia del diritto veneto, estraneo alla tradizione del diritto comune in terra ferma; questa particolare modalità, «comune a molte procedure inquisitorie diffuse in Europa», era basata sulla segretezza e sulla rapidità dell‟azione giudiziaria.48 Oltre a delegarli, il Consi-
glio dei Dieci poteva avocare a sé i processi procedendo autonomamente su un caso di cui gli fosse giunta notizia, quando si verificava quest‟eventualità la magistratura faceva trasferire nella Dominante sia gli atti relativi al processo (se già avviato in periferia), sia l‟imputato; spesso questa risoluzione veniva presa nei casi in cui fossero stati commessi crimini particolarmente efferati. Si ripercorreranno brevemente le fasi processuali che caratterizzavano questa speciale procedura inquisitoria.
Il protagonista del processo avviato col rito era l‟imputato: attorno a lui ruo- tavano le varie fasi procedurali; «come nelle procedure inquisitorie diffuse in altri stati europei, il suo ruolo era quello di parlare, di dire la verità, ma soprat- tutto di confessare, liberamente o costretto dalla tortura». Quasi marginale era la figura della vittima che compariva nelle primissime fasi del processo: soli-
46 ASVe, Consultori in iure, fz. 202, cc. 115r,v, 22 gennaio 1723.
47 C.POVOLO, Aspetti e problemi dell‟amministrazione della giustizia penale, cit., p. 166.
48 S.GIRARDELLO, La procedura inquisitoria in uno stato repubblicano. Il rito del Consiglio dei dieci (sec.
XVIII), in Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, Claudio Povolo (a
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tamente era una delle prime persone a sfilare nelle aule del tribunale; non vi era un confronto diretto fra l‟imputato e la parte offesa.49 Dopo
l‟interrogatorio, se non era già stato arrestato, l‟imputato veniva tradotto in un carcere speciale, dove rimaneva a disposizione della giustizia. Dopodiché av- veniva l‟escussione dei testi che erano divisi in due categorie: coloro che giu- ravano de veritate e quelli che prestano il giuramento de silentio (consisteva nella promessa di non rilevare a nessuno la testimonianza resa). Quest‟ultimo era praticato da chi non erano ritenuto attendibile o da eventuali nemici dell‟imputato e aveva solo un valore indiziario (a differenza di quello de veritate che aveva, invece, un valore probatorio). L‟imputato era quindi sottoposto a interrogatorio – il cosiddetto costituto de plano – che lo rendeva passibile, qualo- ra le risposte non fossero ritenute soddisfacenti, di tortura. In linea teorica l‟inquisito non poteva essere assistito da un avvocato per questo motivo il giudice e il cancelliere gli leggevano più volte il riassunto del processo, il costi- tuto opposizionale.50 Dopo l‟escussione dei testi a difesa dell‟imputato, si chiede-
va a quest‟ultimo se avesse qualcosa da aggiungere nella formulazione delle proprie difese; una volta valutati tutti gli atti era formulata l‟inappellabile sen-