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III. Crimina mixti fori nella Repubblica di Venezia

1. Le limitazioni di foro

Pur tenendo conto degli stereotipi e dei calchi che caratterizzavano la produ- zione diaristica del periodo, si deve ammettere che la descrizione di Charles de Brosses si basa su assunti reali. Nei territori della Repubblica di Venezia, l‟Inquisizione fu soggetta a un forte controllo da parte delle autorità statali, sin dal suo radicamento (ben inteso, dopo la proclamazione della Licet ab initio); del

1 CHARLES DE BROSSES,Viaggio in Italia, Roma – Bari, Laterza, 1973, p. 125. Charles de Bros-

ses - nato a Digione nel 1709 e morto a Parigi nel 1777 – fu prima consigliere e poi presidente a vita del Parlamento di Borgogna. Fu uno studioso versatile, appassionato di storia, arte, ar- cheologia, geografia, linguistica. Il suo viaggio in Italia, raccontato minuziosamente nelle Lettres, si prolungò per circa due anni, dal 1739 al 1740. Durante il tour de Brosses visitò Genova, To- rino, Milano, Verona, Vicenza, Mantova, Padova, Venezia, Modena, Bologna, Firenze, Livor- no, Siena, Roma e Napoli. Le lettere furono pubblicate per la prima volta nel 1799.

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resto si trattava dello stato più potente della penisola italiana, come ha osserva- to Andrea Del Col, pertanto poteva permettersi di non essere sempre così ac- condiscendente nei confronti della Santa Sede.2

Nei territori della Repubblica i tribunali del Sant‟Uffizio erano soggetti, per legge, a una serie di limitazioni di foro che caratterizzarono sempre, in modo peculiare, l‟azione dell‟Inquisizione veneziana. Il Minor Consiglio, con una de- liberazione datata 22 aprile 1547, stabilì che alle sessioni del sacro tribunale do- vessero presenziare anche degli assistenti laici, scelti «tra i senatori più ragguar- devoli» dello stato.3 Il 26 settembre 1551 il Consiglio dei Dieci e la Zonta – do-

po aver stipulato un concordato con Giulio III – stabilirono di estendere que- sto tipo di controllo anche alla terra ferma: alle sessioni del sacro tribunale do- veva partecipare il podestà o un sostituto, da lui delegato (solitamente il vicario pretorio o il giudice al maleficio, come si è già accennato). Tutti gli atti inquisi- toriali, dalla denuncia all‟eventuale emanazione della sentenza, dovevano essere assunti alla presenza del rappresentante secolare, pena la loro cassazione.4

Come specificò Paolo Sarpi, il compito degli assistenti non era quello «d‟intromettersi giudicialmente in alcuna espedizione ed azione che sia fatta in

2 A.DEL COL, L‟Inquisizione in Italia, cit., pp. 342 e ss. La Repubblica di Venezia, rispetto agli

altri, ospitò il numero più alto di sedi inquisitoriali (Belluno, Bergamo, Brescia, Ceneda, Capo- distria, Conegliano, Crema, Rovigo, Treviso, Udine, Venezia, Verona, Vicenza, Zara). A Vene- zia il tribunale del Sant‟Uffizio era composto dal nunzio, dal patriarca (accompagnati rispetti- vamente dal coadiutore e dal vicario) dall‟inquisitore, dal notaio e dal commissario. Il Sant‟Uffizio di Venezia divenne la sede centrale, «sovra diocesana, dell‟Inquisizione per tutto il Dominio, a prescindere dal fatto che l‟auditore del nunzio e l‟inquisitore avevano una giurisdi- zione su di esso».

3 Sui Savi all‟Eresia v. P.F.GRENDLER, The tre Savii Sopra Eresia 1547-1605: a Prosophographical

Study in «Studi Veneziani», N. S. III (1979), pp. 283-342; il decreto relativo all‟istituzione dei tre

Savi sopra l‟Eresia recitava: «noi Francesco Donado, doge di Venezia, etc. Conoscendo niuna cosa esser più degna di Principe Christiano che l‟esser studioso della relligione e difensore della fede cattolica, il che etiam m‟è commesso per la Commissione Nostra Ducale, et è stato sem- pre istituito dalli maggiori nostri, e però ad honore della Santa Madre Chiesa havemo elletti in questi tempi, con nostro Minor Consiglio, voi dilettissimi nobili nostri Nicolò Tiepolo dottor, Francesco Contarini, e messer Antonio Venier dottor, come quelli che siete probi, discreti e cattolici uomini e diligenti in tutte le attioni vostre, e massimamente dove conoscete trattarsi dell‟honore di Signor Iddio; e vi commettiamo che dobbiate diligentemente inquirere contro gl‟eretici che si trovassero in questa città, et etiam admettere querele contro alcuno di loro che fossero date, et essere insieme col reverendissimo legato e ministri suoi, col reverendissimo pa- triarca nostro e ministri suoi e col venerabile inquisitore dell‟heretica pravità, sollecitando cada- uno di loro in ogni tempo et in ogni caso che occorrerà alla formazione dei processi; alla quale etiam sarete assistenti; et etiam procurando che siano fatte le sentenze debite contro quelli che saranno conosciuti rei; e di tempo in tempo ne avviserete tutto quello che occorrerà, perché non vi mancheremo d‟ogni aiuto e favore secondo la forma della promotione nostra, etc.»; il testo è riportato in ivi, alle pp. 283, 284.

4 PAOLO SARPI, Consulto sopra l‟Officio dell‟Inquisizione, cit., p. 122, capo X. Sul concordato tra la

Repubblica e Giulio III in materia di Inquisizione v. i documenti raccolti in P.PASCHINI, Vene-

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quel tribunale, né quanto alla cognizione, né quanto alla sentenzia». Essi dove- vano solo «star presenti ed attendere diligentemente a tutto quello che dalli giudici sarà fatto». I rettori dovevano vigilare attentamente affinché l‟inquisitore non valicasse i confini giurisdizionali e agisse nel rispetto delle norme sulle procedure. Qualora avessero ravvisato dei vizi o qualcosa di pre- giudizievole nei confronti dell‟autorità secolare, ai rappresentanti non restava che negare la propria assistenza: in tal modo avrebbero bloccato la macchina inquisitoriale sino a che non fossero giunte direttive più precise dalla Dominan- te.5 Si deve aggiungere che l‟incarico di “assistente al Sant‟Uffizio” non poteva

essere ricoperto dai patrizi «che si cacciano nelle cose di Roma» e cioè da quei nobili che avessero avuto un qualche legame con la Santa sede. La norma rela- tiva all‟assistenza secolare nei processi del Sant‟Uffizio trovò spazio nel primo punto della celebre e già citata scrittura Sopra l‟officio dell‟Inquisizione di Paolo Sarpi (1613): nei trentanove capi in cui si suddivideva la scrittura, furono ridefi- niti gli ambiti giurisdizionali del tribunale della fede. Non si trattava – come ammise lo stesso consultore – di norme redatte ex novo, quanto piuttosto di un riordinamento della materia sia per quanto riguardava la parte strettamente amministrativa (l‟assistenza, le nomine degli inquisitori ecc.), sia per quando concerneva le competenze su determinati crimini.

Il testo divenne un vero e proprio vademecum per i rappresentanti secolari ai quali fu distribuito: si trattava di un primo strumento normativo al quale acce- dere nei casi dubbi, quelli per cui era meglio, in caso d‟incertezza, rivolgersi alle autorità della Dominante. In una copia del consulto conservato alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia vi è un‟annotazione: si raccomandava che le di- sposizioni ivi contenute dovessero essere «eseguite in tutto il territorio»; si or- dinava, inoltre, che il testo dovesse essere copiato in forma di «libretto e man- datone uno di essi a ciascun delli rettori nostri dov‟è officio d‟Inquisizione». Ciascun rappresentante avrebbe avuto la cura di trasmettere il testo al succes- sore;6 tali disposizioni, anche sotto forma di deliberazioni del Senato, si ripro-

posero nel corso del Settecento e in particolare nel 1740 in occasione di una

5 Ivi, pp. 120, 121, capo IV. Un altro compito del rappresentante era quello di sollecitare gli

inquisitori qualora questi non procedessero con sufficiente zelo: «quando vedessero li giudici ecclesiastici negligenti nell‟estirpar l‟eresie, o troppo tardi nell‟espedizione della causa, acciò qualche infezione non prendesse radice, doveranno con prudenza e destrezza eccitarli all‟esecuzione del loro debito; e non giovando o non bastando l‟opera loro per rimediar al mancamento, dar aviso al principe».

6 PAOLO SARPI,Consulto sopra l‟Officio dell‟Inquisizione, cit., (il manoscritto citato da Gambarin

riporta la seguente segnatura): BNM, Cod. It. VII, 1795. Si trattava – come ha osservato Mario Infelise – di un testo che ebbe una buona fortuna editoriale; furono almeno tredici le edizioni del consulto negli anni immediatamente successivi al 1613; cfr. M. INFELISE,Ricerche sulla fortu-

na editoriale di Paolo Sarpi (1699-1799), in Corrado Pin (a cura di), Ripensando Paolo Sarpi: atti del Convegno internazionale di studi nel 450. Anniversario della nascita di Paolo Sarpi, Venezia, Ateneo Ve-

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vertenza tra il Sant‟Uffizio di Brescia e il Senato a proposito di un frate imputa- to di sollecitatio ad turpia (fra Giuseppe Olivari di Salò) del quale si parlerà in se- guito. Per ora basti sapere che il 14 marzo dello stesso anno il Senato approvò quasi all‟unanimità la decisione di far ridistribuire, per conto dei Savi all‟Eresia, una copia del consulto in tutte le città della Repubblica dove vi fosse una sede inquisitoriale, con l‟ordine ai rappresentanti di osservare le norme ivi contenu- te; nella stessa deliberazione, inoltre, si ordinava ai Savi all‟Eresia di consegnare ai rettori una copia del «capitolare» prima della loro partenza per il luogo desi- gnato dall‟incarico.7

Il sistema di comunicazione tra la periferia e il centro – tra i rettori e la Do- minante – in merito ai procedimenti inquisitoriali era basato, di fatto, sull‟infrazione del segreto: gli argomenti trattati fra le mura del tribunale della fede erano riportati, sotto forma di dispaccio, all‟attenzione dei patrizi venezia- ni che sedevano nelle diverse magistrature (naturalmente questo scambio fun- zionava anche a Venezia dove, come si è già detto, erano i Savi all‟Eresia a pre- stare l‟assistenza all‟inquisitore). La Congregazione del Sant‟Uffizio aveva pre- teso di «imporre il silenzio, il giuramento di collaborazione e il rispetto di foro ai magistrati locali (capitani, luogotenenti, podestà) che avevano il diritto a se- dere nei singoli tribunali in base agli accordi sottoscritti con Roma nel 1551».

I conflitti giurisdizionali del 1596, in tema di censura (in seguito all‟emanazione dell‟indice clementino) inasprirono gli attriti sulle competenze. In quei frangenti Nicolò Contarini «come raccontò anni dopo un suo successo- re, rifiutò di giurare nelle mani dell‟inquisitore di rispettare il segreto processua- le dovuto come delegato che partecipava alle sedute del tribunale e come brac- cio secolare». In realtà fu sempre difficile mantenere il segreto nei territori della Repubblica: alle sessioni dei tribunali locali partecipavano i vescovi che solita- mente erano uomini di comprovata fiducia del governo, nonché membri del patriziato. Il diniego alla promessa di fedeltà e segreto richiesta dagli inquisitori diventò un rifiuto accettato da parte dei giudici di fede (anche se con gradi di rassegnazione variabile); la Congregazione del Sant‟Uffizio tralasciò di inasprire le controversie, tanto che, come ha ipotizzato Vincenzo Lavenia, dal 1601 è presumibile pensare che i Savi all‟Eresia evitassero già da qualche tempo di prestare le fedi giurate al giudice di fede della Dominante.8

7 ASVe, Senato, Deliberazioni Roma expulsis papalistis, fz. 53, cc. n. n., sub data 15 marzo 1740. La

deliberazione stabiliva: «sia commesso al magistrato de savii all‟eresia di avanzare circolarmente alli principali prappresentanti della terraferma ove vi sia tribunale di Sant‟Uffizio il Capitolare dell‟Inquisizione […] et eseguite siano da loro le leggi in esso […] et in ordine alle medesime sia lo stesso capitolare in avenire consegnato agl‟eletti rappresentanti prima della loro partenza alla carica». Ibidem.

8 V.LAVENIA,Giurare al Sant‟Uffizio, cit., pp. 19 e ss. Gli inquisitori di Udine furono tra i primi

a rifiutare di prestare il giuramento di fedeltà e di secreto servando nelle mani dell‟inquisitore, an- che Girolamo Asteo – il giudice che aveva interrogato Menocchio e aveva svolto i primi pro-

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Il 5 settembre 1609, in seguito a un‟accesa controversia – avvenuta in loco – tra l‟inquisitore di Udine e il luogotenente, il Senato deliberò che non dovesse aver luogo nessun giuramento di fedeltà o segreto nei confronti degli inquisito- ri. Di lì a poco la lettera diretta al luogotenente fu estesa, sotto forma di circo- lare, a tutti i rettori dello stato.9 Si trattava, ancora una volta, di un problema di

sovranità: l‟Inquisizione era un tribunale sovrastatale, il quale si arrogava il di- ritto di procedere contro tutti, senza distinzioni di ceto. A Venezia, invece, si voleva preservare il patriziato che rappresentava all‟unisono la classe politica e giuridica, detentrice dell‟oligarchia veneziana. Le informazioni dei rettori erano particolarmente utili da questo punto di vista: qualora un patrizio fosse caduto nelle maglie del tribunale avrebbero potuto evitare scandali e far sì che tutto si risolvesse segretamente, senza che la famiglia dovesse averne pregiudizio, l‟infamia era un‟onta difficilmente riparabile;10 l‟obbligo, da parte dei rappresen-

tanti secolari, di informare periodicamente le autorità sulle cause del Sant‟Uffizio fu ribadito da Paolo Sarpi: «doveranno dar conto di qualunque co- sa si farà di tempo in tempo, e massime di quelle che reputeranno esser d‟importanza o di conseguenza».11

Le autorità della Serenissima avevano previsto delle limitazioni procedurali per limitare il campo d‟azione del Sant‟Uffizio. I rettori avrebbero vigilato af- finché non fossero accolte denunce anonime; per l‟avvio dei procedimenti, poi, erano necessarie le deposizioni concordi di almeno due testi. L‟inquisitore non poteva avviare un processo col rito inquisitorio, procedendo ex officio: tale pras- si continuava ad essere un‟esclusiva prerogativa delle magistrature secolari e della giustizia ordinaria. A differenza di quanto avveniva in altri stati, nella Re- pubblica di Venezia il giudice di fede non poteva avvalersi di figure “interme- die”, nella fattispecie di delatori che, sguinzagliati in giro, potessero denunciare terzi al sacro tribunale. Al tema specifico, il 20 novembre 1762, fra Enrico Fanzio dedicò un consulto; in realtà il testo era concentrato sulla liceità di alcu- ne patenti che erano state emesse in due sedi inquisitoriali e più precisamente a

cessi contro i benandanti – si era visto rifiutare questa possibilità dal luogotenente allora in ca- rica; l‟interessante vicenda è trattata nello stesso saggio alle pp. 20, 21. Sullo stesso episodio v. anche G.TREBBI, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca di Aquileia, Udine, 1984, p. 289. 9 V.LAVENIA,Giurare al Sant‟Uffizio, cit., pp. 28, 29. Il decreto sui giuramenti fu rinnovato nel

1613. La norma fu riportata da Paolo Sarpi nel consulto Sopra l‟Officio dell‟Inquisizione, il capo V del capitolare, infatti, recita: «gli assistenti non presteranno giuramento di fedeltà o di secretezza o di qual si voglia altra cosa in mano dell‟inquisitore o altro ecclesiastico; ma ben saranno tenuti all‟uno ed altro per la fedeltà e secretezza che debbono al principe. Così deliberò il Senato il dì 5 settembre 1609». PAOLO SARPI, Consulto sopra l‟Officio dell‟Inquisizione, cit., p. 121, capo V. 10 A questo proposito v. l‟episodio concernente Marcantonio Da Canal – l‟abiura pubblica in-

flitta al nobile imputato – comportò la rovina dell‟intera famiglia. L‟episodio è riportato in F. AMBROSINI, Storie di patrizi e d‟eresia nella Venezia del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1999, p.

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Brescia e a Padova. Quelle relative alla sede bresciana riguardavano la nomina di un notaio e di un avvocato, e il consultore non trovò nulla da eccepirvi. Per Padova il Consiglio dei Dieci chiedeva lumi a proposito di «una formola di pa- tente per creare un esploratore del Sant‟Offizio». Il giurista spiegò quali fossero i compiti di questa particolare figura che, pur essendo ammessa in altre sedi in- quisitoriali (come nello Stato pontificio), era di fatto proibita nei domini della Serenissima. Per usare le stesse parole di Enrico Fanzio: l‟esploratore doveva «in- dagare se vi siano persone di mala credenza, o che diano indizio di sentir ma- lamente in materia di fede, per notificarli all‟inquisitore, acciò possa procedere contro di loro secretamente e per via d‟inquisizione». Il consultore in iure con- cluse:

noi non sapiamo se il padre inquisitore di Padova si sia mai servito o abbia intenzio- ne di servirsi nel Serenissimo dominio della formola suesposta col creare li suindicati esploratori come si pratica in altri stati, massime in quelli del papa, nullameno crede- ressimo espediente quando così giudicasse la somma sapienza di vostre eccellenze il far intendere al padre inquisistore di non dover mai servirsene della formola suddetta che se mai di passato ne avesse fatto uso, ritiri tutte le patenti sopra tal formola rila- sciate e che depositi le patenti stesse con le copie della formola che si trovasse avere nelle mani di chi dall‟eccellenze vostre fosse destinato a riceverle.12

Per ricoprire l‟incarico, dopo essere stato nominato dalla Congregazione del Sant‟Uffizio, l‟inquisitore doveva ottenere l‟approvazione del Senato (spettava ai Consultori in iure il compito di valutare le patenti emesse dalla congregazione romana). Il giudice di fede avrebbe dovuto presentare le ducali – le autorizza- zioni statali per intendersi - ai rappresentanti secolari, prima di insediarsi nella sede preposta. L‟approvazione della nomina, tuttavia, non era così automatica, come dimostra il caso di fra Tommaso Canossa, designato inquisitore di Ber- gamo dalla Congregazione del Sant‟Uffizio.

Il 20 dicembre 1704 lo stesso religioso informò gli inquisitori generali: «sono a rappresentare con ogni più profondo ossequio all‟eminenze vostre che essen- do io venuto a Venezia per presentarmi in Collegio e poi andare ad essercitare il mio officio d‟inquisitore di Bergamo com‟è il solito; la mia patente non è sta- ta ammessa dal Collegio come ha riferito il secretario, nelle mani del quale la medema anche al presente si trova», la patente non era stata accettata perché fra Tommaso Canossa non era un suddito («mi è stato fatto suggerire col mezo d‟un nostro religioso che l‟impedimento proviene dall‟essere io di stato estero», aggiunse il frate). Il religioso aveva deciso di inviare una lettera alle autorità del- la Repubblica, si trattava di una sorta di supplica, condita con parole di devo- zione nei confronti dello stato ospite. Il frate l‟aveva reiterata a voce, suonava

12 ASVe, Consultori in iure, fz. 229, cc. 130r-131r, consulto di fra Enrico Fanzio, 20 novembre

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più o meno così: «essendo io destinato inquisitore di Bergamo sono a portarne l‟avviso unitamente coi miei humilissimi ossequi a vostra serenità. Prego Dio che mi dia assistenza e forze corrispondenti ad un così santo ministero nel qua- le io non mancarò d‟una particolare attenzione e profondissima venerazione al serenissimo trono». La supplica gli era costata un‟aspro rimprovero da parte del nobile Soranzo, il quale aveva risposto a fra Tommaso: «è il padre inquisitore di Bergamo? il padre Canossa? quello che ha passato l‟avviso in Collegio? Chi [gli] ha insegnato a parlare? Portare aviso? Andate ad imparare fratacio».13

Di prassi, al momento del proprio ingresso in carica, come si è già ricordato, l‟inquisitore esercitava la facoltà di emanare un editto (il cosiddetto editto genera- le); il testo, secondo le norme statali, doveva conformarsi a uno standard: fu co- stituito da un formulario articolato in sei punti sino alla metà del Seicento, do- podiché le autorità secolari autorizzarono l‟inclusione di un settimo capo relati- vo alla sollecitatio ad turpia.14 Gli editti, al pari delle nomine, dovevano essere au-

13 ACDF, St. St. GG 3-C (Inquisizione di Bergamo), cc. n. n., lettera di fra Tommaso Canossa alla

Congregazione del Sant‟Uffizio, sub data 20 dicembre 1704. Il religioso aggiunse: «questo mio disturbo è stato da me consacrato a piedi del crocifisso con un profondo silenzio et in tanto mi vado addoprando per vedere se posso essere spedito licenziato di qua […] La sola speranza che mi resta è che al principio dell‟anno novo li mutaranno i signori di Collegio, onde potrà essere che li mutino anche i loro sentimenti. Ma perché la pietà di questo pubblico è inclinitassima a vedere impiegata nelle inquisizioni i suoi sudditi non per opporsi alle disposizioni dell‟eminenze vostre, ma per l‟affetto paterno che porta ai suoi temo che non così facilmente sia per rimoversi dall‟opposizione che vien fatta d‟essere io forastiero». Ibidem. Un‟altra lettera scritta alla Congregazione del Sant‟Uffizio ci informa che fra Tommaso Canossa era riuscito a ricoprire l‟incarico di inquisitore a Bergamo e, tuttavia, nell‟aprile dell‟anno successivo aveva già