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L’affermazione del plea bargaining

GLI INTERVENTI DEL PROCURATORE NEL PRETRIAL E NELL’EVENTUALE

3.5 L’affermazione del plea bargaining

Il plea bargaining è utilizzato negli Stati Uniti fin dalla metà dell’Ottocento. Già agli inizi del secolo successivo è diventato (e lo è tutt’oggi) il più diffuso metodo di risoluzione dei casi penali. Inoltre, questo grande successo del patteggiamento americano ha fatto sì che tale istituto fosse adottato, seppur con qualche modifica, in molti altri Paesi, tra cui l’Italia.

La repentina ascesa del plea bargaining non deriva da interventi legislativi o giurisprudenziali, ma dalla prassi: nel XIX secolo esso venne introdotto ed applicato frequentemente dalle procure, per far fronte ai loro eccessivi carichi di lavoro. Rispetto a questo fenomeno, molti cittadini e pubblici funzionari avanzarono non poche critiche,

117 denunciando il fatto che l’istituto in questione riservasse trattamenti eccessivamente indulgenti per i criminali o costringesse molti innocenti alla confessione138.

Nel 1970, con la sentenza Brady v. United States, la Corte Suprema federale ha riconosciuto ufficialmente il patteggiamento, negando che questo pregiudichi, di per sé, la volontarietà della dichiarazione di colpevolezza dell’imputato. Da quel momento, inoltre, si è aperta la strada alla regolamentazione del patteggiamento da parte del legislatore e dei giudici. Si veda ora il contesto specifico in cui la decisione del 1970 è stata adottata.

Brady, rinviato a giudizio per rapimento, rischiava la pena di morte perché la vittima non era stata rilasciata illesa. Inizialmente, si dichiarò non colpevole in sede di arraignment. Successivamente, quando apprese che il suo coimputato, già reo confesso, volesse testimoniare contro di lui, cambiò idea e rese un plea of guilty. Il giudice accettò tale dichiarazione solo dopo avergli chiesto (ottenendo una risposta positiva) se il ripensamento fosse frutto della sua volontà. L’imputato fu così condannato a 50 anni di reclusione, poi ridotti a 30.

Nel 1967, Brady decise di impugnare la sentenza di condanna, affermando che la sua dichiarazione di colpevolezza non fosse stata volontaria, poiché resa per la paura della pena capitale ed in conseguenza delle pressioni subite dal suo avvocato. Il tribunale di primo grado, d’accordo con la corte d’appello, rigettò l’impugnazione, confermando la volontarietà del plea of guilty.

Il caso arrivò successivamente alla Corte Suprema federale, la quale diede ragione ai giudici inferiori: riconobbe che Brady aveva seguito un semplice consiglio dell’avvocato e si era dichiarato colpevole per il timore dell’imminente testimonianza del coimputato, evitando così una condanna più pesante al processo. Brady cioè, rendendosi conto che le

138 Cfr. J. I. TURNER, Plea Bargaining Across Borders: Criminal Procedure, Aspen

118 possibilità di un’assoluzione fossero poche, aveva preferito confessare la sua responsabilità, rischiando tutt’al più l’ergastolo; andando al dibattimento, invece, avrebbe rischiato la pena capitale. Non vi era alcuna prova che l’imputato fosse stato condizionato dalla paura della condanna a morte in quanto tale o dalla speranza di un trattamento clemente. Così come non esisteva alcun elemento per ritenere che qualcuno (il suo avvocato od altri) lo avesse influenzato attraverso minacce o promesse. Brady, infine, aveva avuto la piena opportunità di valutare preventivamente, con l’aiuto del suo legale, le possibili conseguenze del trial o del plea of guilty.

La Corte Suprema fece anche rinvio ad una sentenza emessa nel 1957 da una corte d’appello federale, in occasione della quale il giudice Tuttle aveva indicato le caratteristiche che una dichiarazione di colpevolezza deve avere per essere valida:

«A plea of guilty entered by one fully aware of the direct consequences, including the actual value of any commitments made to him by the court, prosecutor, or his own council, must stand unless induced by threats (or promises to discontinue improper harassment), misrepresentation (including unfulfilled or unfulfillable promises), or perhaps by promises that are by their nature improper as having non proper relationship to the prosecutor’s business (e.g. bribes)». («Una dichiarazione di colpevolezza effettuata da un soggetto pienamente consapevole delle dirette conseguenze, compreso l’attuale valore di ogni impegno preso da lui davanti alla corte, al procuratore, o al suo avvocato, non deve essere indotta da minacce (o promesse di interrompere molestie improprie), travisamenti (incluse promesse irrealizzate od irrealizzabili), o magari da promesse che sono per loro natura improprie, in quanto si fondano su

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scorrette relazioni con gli affari del procuratore (ad es. tangenti)»)139.

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha chiarito, in più occasioni, che la liceità del plea bargaining discende da una piena consapevolezza dell’imputato nel momento in cui quest’ultimo, rinunciando alle garanzie del processo, decide di entrare in trattativa con il procuratore. L’avvocato difensore, in quanto esperto di diritto, ha l’importante compito di aiutare il proprio cliente a comprendere, ai fini della suddetta consapevolezza, le possibili conseguenze dell’ammissione di responsabilità140.

Un plea of guilty non può ritenersi volontario (e quindi, nemmeno valido) se frutto di coercizioni mentali, inganni o false promesse provenienti dal procuratore. Tuttavia, come si può facilmente intendere dalla decisione sopra esaminata, la mera possibilità di una pena molto severa (pena capitale, ergastolo, ecc.) in caso di condanna al processo non comporta l’invalidità della dichiarazione di colpevolezza. L’invalidità non opera nemmeno quando il prosecutor minaccia di perseguire i familiari dell’imputato per convincerlo a patteggiare, purché ovviamente le possibili azioni penali nei loro riguardi siano supportate da una probabile causa141.