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Le condotte discriminatorie e ritorsive dell’accusa

L’ESERCIZIO DELL’AZIONE PENALE DA PARTE DEL PROCURATORE

2.5 Le condotte discriminatorie e ritorsive dell’accusa

La Corte Suprema Federale, fiduciosa nell’operato delle procure, ha affermato in una sua sentenza:

«In assenza di elementi che facciano ritenere il contrario, non è sostenibile che le scelte degli organi dell’accusa, in ordine all’esercizio dell’azione penale, siano ispirate a logiche diverse dalla “forza” dell’accusa sotto il profilo probatorio e dalla valutazione delle prospettive di successo dibattimentale».

Tuttavia, al di là di tale statuizione e di quanto detto precedentemente in ordine ai poteri del prosecutor, non bisogna ritenere che la discrezionalità di quest’ultimo sia del tutto priva di limiti. Egli è infatti chiamato a rispettare regole di natura diversa, le quali, come si vedrà, a seconda delle circostanze possono avere una portata più o meno forte. Esse possono corrispondere a vincoli giuridici, dettati da Costituzione, prassi, giurisprudenza e legislazione;

55 ma possono coincidere anche con quelle politiche interne che il procuratore capo comunica, in modo informale o attraverso manuali scritti, ai suoi sottoposti. Tali politiche non impongono decisioni specifiche, ma aiutano il pubblico ministero a svolgere i suoi compiti in maniera ottimale.

Con riferimento all’analisi dei limiti in questione, è necessario partire dalla lettura del testo costituzionale ed in particolare di quel suo XIV Emendamento, che sancisce il principio di uguaglianza (equal

protection of the laws)67. Ovviamente si tratta di una norma fondamentale, valida in ogni settore dell’ordinamento giuridico; comunque, se considerata nell’ambito di interesse della presente trattazione, essa si traduce nel divieto, per la pubblica accusa, di adottare condotte discriminatorie nell’esercizio delle sue funzioni.

Il divieto di esercizio discriminatorio dell’azione penale ha preso le mosse dalla sentenza che la Corte Suprema federale, nel 1886, ha emesso con riguardo al caso Yick Wo v. Hopkins. I fatti erano i seguenti. Il sig. Yick Wo, cittadino cinese residente a San Francisco, venne arrestato e condannato per aver violato un’ordinanza (della predetta città) che prevedeva l’obbligo di licenza per la gestione di lavanderie collocate all’interno di edifici in legno. Yick Wo riuscì ad ottenere l’annullamento della condanna dal massimo organo giurisdizionale, denunciando il fatto che il Board of Supervisors, cioè

67 La sezione I del XIV Emendamento prevede che: «Tutte le persone nate o

naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla sovranità di questi sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Nessuno Stato porrà in essere o darà esecuzione a leggi che disconoscano i privilegi o le immunità di cui godono i cittadini degli Stati Uniti in quanto tali; e nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, della libertà o delle sue proprietà, senza un procedimento regolato dalla legge (due process of law), né rifiuterà ad alcuno, nell'ambito della sua sovranità, un’eguale tutela da parte delle leggi (equal protection of the laws)».

Si veda, al riguardo, The Constitution of the United States, sito web, consultato in data 03/11/2016, http://constitutionus.com/.

56 la pubblica amministrazione locale, avesse sistematicamente autorizzato alla gestione suddetta gli appartenenti a tutte le razze, tranne che a quella cinese.

È vero, la sentenza in questione si è rivolta all’azione discrezionale dell’autorità amministrativa e non a quella della pubblica accusa. Si tratta però di una statuizione presa in considerazione dalla successiva giurisprudenza, per applicare analogicamente il divieto di condotte discriminatorie anche con riferimento alle procure. Tuttavia le vittime di tali comportamenti, per ottenere tutela, avrebbero dovuto far fronte ad un pesante onere probatorio, dimostrando che: 1) un procedimento penale non si sia aperto anche nei confronti di altri soggetti che si trovino nella loro stessa situazione, essendo stati protagonisti della medesima tipologia di condotta; 2) l’accusa abbia dato luogo alla predetta discriminazione per motivi di razza, religione o di accanimento nei confronti dell’imputato. Di fatto, a causa dell’estrema complessità di tali attività probatorie, il principio di uguaglianza non era adeguatamente applicato.

La situazione non è cambiata di molto nemmeno quando, dopo qualche anno, la giurisprudenza ha affermato che l’imputato dovesse soltanto far valere un ragionevole dubbio circa la correttezza dell’attività accusatoria. Rimaneva questo, infatti, un onere probatorio difficoltoso, in quanto i procuratori non hanno l’obbligo né di motivare il loro operato, né di rendere pubblici i rapporti investigativi; di conseguenza, non vi sono elementi concreti che possano essere utilizzati per far emergere il ragionevole dubbio suddetto.

Con la sentenza Blackledge v. Perry del 1974, la Corte Suprema ha enunciato, per la prima volta, il principio secondo cui la pubblica accusa non potesse ostacolare l’esercizio dei diritti e delle facoltà processuali dell’imputato. Ne deriva, tra le altre cose, che non fosse possibile modificare in pejus l’imputazione nel giudizio di appello.

57 Pochi anni dopo, tuttavia, la Corte ha fatto un passo indietro con la decisione Bordenkircher v. Hayes (1978). Hayes fu accusato di falsificazione di banconote, reato punito con la reclusione da due a dieci anni. Il procuratore gli propose un patteggiamento, minacciandolo che, se non avesse accettato l’offerta dell’accusa, quest’ultima avrebbe fatto valere in sede dibattimentale lo status di “delinquente abituale”, in modo da fargli rischiare la pena dell’ergastolo. Hayes decise di non aderire alla proposta; venne così processato e condannato al carcere a vita.

La Corte, legittimando l’operato della pubblica accusa nel caso appena descritto, ha di fatto permesso ai procuratori di assumere qualsiasi atteggiamento, anche ritorsivo, nell’ambito delle negoziazioni con la difesa. In quest’ottica, essi possono minacciare l’imputato, prospettandogli una pena più grave per convincerlo a rinunciare al suo diritto di dichiararsi “non colpevole”.

Ma ciò non è tutto. Successivamente il giudice supremo ha ampliato ulteriormente la libertà d’azione dell’accusa, affermando che quest’ultima possa modificare anche in modo peggiorativo le imputazioni durante la fase pre-dibattimentale, senza che ciò dia luogo ad una presunzione di atteggiamento ritorsivo. Spetta semmai all’imputato, attraverso un complesso onere probatorio, dimostrare la scorrettezza della controparte68.

Una buona parte del mondo giuridico e dell’opinione pubblica disapprova fortemente l’eccessiva discrezionalità riconosciuta a procuratori e giudici. Emerge soprattutto una grande preoccupazione per la carenza di misure volte ad evitare discriminazioni all’interno degli uffici dell’accusa. Le disparità esistono e spesso non derivano dall’esigenza di amministrare efficientemente la giustizia; derivano invece da condotte presuntuose o superficiali dei prosecutors, i quali agiscono in modi diversi a seconda dei loro rapporti con la difesa, del

58 loro carico di lavoro, della razza o delle condizioni economiche dell’imputato, dei sentimenti della popolazione, del livello di disponibilità dell’accusato a collaborare, ecc.

Per ridurre tali ostacoli alla vera giustizia, in molti auspicano il rafforzamento dei controlli sull’attività del procuratore, ossia la sottoposizione dello stesso a: politiche interne all’ufficio più dettagliate; obblighi di motivazione delle decisioni; controlli dei giudici più incisivi sulla correttezza delle scelte accusatorie69.