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L’Africa nell’immaginario degli esploratori europei di fine Ottocento: la

5. T EMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI

5.1 Rappresentazioni dell’alterità nella scrittura dell’Occidente europeo

5.1.2 L’Africa nell’immaginario degli esploratori europei di fine Ottocento: la

Nella seconda metà del XIX sec le rivoluzioni tecnologiche e industriali – insieme

all’affermarsi di un capitalismo sempre più aggressivo – trasformarono radicalmente il volto dell’Europa occidentale. La nascita della società di massa, l’urbanizzazione

crescente, l’impoverimento delle campagne e la crisi demografica, determinarono un cambiamento nella percezione esistenziale dell’uomo e nel suo rapporto con il mondo. Il conseguente senso di smarrimento provato dall’individuo di fronte a una società sempre

più multiforme e precaria spinse gli esploratori a ricercare nel continente africano quella

realtà pre-industriale che l’avvento della modernità aveva cancellato e sostituito con

nuovi e inquietanti interrogativi. Quasi tutti i resoconti di viaggio di fine Ottocento

concordano pertanto nel descrivere l’Africa come un luogo incontaminato, puro, ancora immerso nello spirito della natura e capace di dare corpo a emozioni e istanze che non

potevano essere espresse nella vecchia Europa corrotta.

Ben lontane dal fornire un’osservazione scientifica e dettagliata dei fenomeni, queste testimonianze si basano sulla ripetizione meccanica di stereotipi e clichés di seconda

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mano, manifestando una generale mancanza di comprensione e uno scarso interesse verso

una conoscenza approfondita di realtà tanto diverse.

Sulla scia di questo atteggiamento, caratterizzato dal ricorso ai moduli di una scrittura

esotica riconducibile – come abbiamo visto – al clima storico-culturale dell’Europa fin de

siècle, si inserisce un filone di opere letterarie evidentemente ispirate ai resoconti di

viaggio e alle descrizioni – alquanto inverosimili – in essi contenute. Si pensi ad esempio

ai romanzi di Pierre Loti, intrisi di un esotismo tragico e simbolista, o alla produzione

dell’ultimo Rimbaud, in cui l’individuo arriva addirittura a perdersi e ad annullarsi nell’incontro con l’altro.

Francesco Surdich, a cui si devono fondamentali studi sulle rappresentazioni italiane

dell’Africa a cavallo tra Ottocento e Novecento, mette giustamente in rilievo il carattere impressionistico dei testi redatti dai viaggiatori, preoccupati più di smuovere i sentimenti

e l’immaginazione dei lettori con effetti sensazionalistici che di fornire analisi precise e circostanziate. Anche la comprensione dei fenomeni culturali,

[…]restava affidata, nel migliore dei casi, ad una mera descrizione di ciò che poteva essere percepito attraverso un approccio molto superficiale, rivolto generalmente a cogliere e a rappresentare soprattutto quello che avrebbe potuto suscitare la curiosità e la fantasia del lettore, in ossequio a una tradizione che affondava le sue radici nelle dimensioni più profonde della nostra cultura che aveva da sempre concepito e rappresentato l’Africa come uno spazio vuoto e terrificante, affollato di mostri e fantasmi; come la terra dell’inusitato, delle stranezze, delle meraviglie e dei misteri, «quasi obbligata a stupire»80.

Nonostante l’intensificarsi delle esplorazioni – e con esse delle occasioni di conoscenza del continente africano da parte degli italiani – le descrizioni dei fenomeni naturali e

antropologici non riuscirono mai a emanciparsi davvero da quel bagaglio di credenze,

fantasie, miti e pregiudizi che costituivano un repertorio ormai profondamente radicato

80 F.SURDICH, La rappresentazione dell’alterità africana nei resoconti degli esploratori italiani di fine

Ottocento, in L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la littérature et la société italiennes. Représentations et témoignages. Actes du colloque de Caen (16-17 novembre 2001) publiés sous la direction de Mariella Colin et Enzo Rosario Laforgia, France, Presses universitaires de Caen, 2003, p. 43

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nell’immaginario comune. Si deve ancora a F. Surdich l’individuazione di un lessico strettamente collegato alla narrazione di fatti insoliti e situazioni eccezionali: vocaboli ad

effetto (terrore, ebbrezza, sgomento, estasi, incanto, fascino, meraviglia, solitudine,

libertà, seduzione, ecc.) che si coniugavano in scontati binomi con aggettivi-chiave tanto

evocativi quanto privi di concretezza (tenebrosa, arcana, selvaggia, feroce, nera, perfida,

attraente, affascinante, misteriosa, lussureggiante, vergine, ecc.)81.

In quest’Africa mistificata e idealizzata, l’elemento preponderante era sicuramente la natura, che coi suoi sconfinati paesaggi relegava la presenza umana ad un ruolo del tutto

secondario; essa poteva configurarsi sia come un piacevole locus amoenus, uno scenario

da favola, sia come una realtà ostile e angosciante, il “cuore di tenebra”.

Immerse in questo spettacolo ambientale, le figure degli indigeni si uniformavano

perfettamente con la natura circostante, della quale non rappresentavano più che una

componente cromatica e scenografica. Questo atteggiamento percettivo trova conferma

nell’abusata retorica con cui similitudini e comparazioni equiparavano le popolazioni africane al mondo vegetale o animale, rimarcandone la condizione non umana, primitiva,

bestiale.

Chi scriveva e raccontava era portato infatti ad interpretare sulla base dei presupposti ideologici e culturali dai quali prendeva le mosse, ma soprattutto per precise esigenze di natura meramente strumentale, e quindi a mistificare sia la realtà ambientale che quella antropologica da lui percepita e descritta, per presentarla come si pensava dovesse essere prima di partire e come si voleva che fosse recepita da chi avrebbe letto i resoconti della sua singolare esperienza, dando vita in questo modo ad un meccanismo autoreferenziale del tutto privo di originalità perché fondamentalmente statico ed incapace di percepire, se non banalmente e occasionalmente, le esigenze di un effettivo processo di conoscenza82.

Molto significative erano le modalità con cui gli esploratori europei descrivevano le

donne locali, ritratte nella loro animalità selvaggia e quindi per il loro fisico ritenuto

provocante e al tempo stesso facile da conquistare. Come ha notato Barbara Sorgoni,

81 Ivi, p. 44 82 Ivi, p. 48

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anche per le donne indigene è possibile ricostruire un repertorio lessicale, fatto di

immagini sensuali e erotiche: gli occhi sono sempre «neri e brillanti», la bocca «piccola

e carnosa», il collo «flessuoso», le braccia «ben tornite», i seni «eretti e sodi», le gambe

«salde», mani e piedi sempre «piccolissimi», ecc.83

Il corpo della donna nera diviene sostanzialmente metafora della stessa terra africana:

possederla – anche con la violenza – significa per l’uomo vedere realizzato il proprio

desiderio virile di conquista. La colonia era come una femmina lussureggiante e

irresistibile, pronta ad offrire i propri tesori; Filippo Tommaso Marinetti, nel Poema

africano della divisione 28 ottobre, descriveva l’Africa come un territorio «ricco di

ondulazioni femminili» e le grotte e i tucul rastrellati dai soldati come «affumicati uteri

montani da visitare ginecologicamente»84.

Sia l’Africa che la donna africana erano quindi presentate con le stesse immagini e le stesse caratteristiche interscambiabili, simbolo di un mondo dominato dall’istinto e del tutto opposto a quello razionale dei conquistatori. Entrambe erano considerate uno spazio

libero sul quale il maschio occidentale avrebbe potuto esercitare un vero e proprio

“stupro”, cioè un’appropriazione violenta per sperimentare desideri repressi dalla società di provenienza e compiere un percorso di evasione.