5. T EMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI
5.1 Rappresentazioni dell’alterità nella scrittura dell’Occidente europeo
5.1.3 Il romanzo coloniale fascista: problemi di definizione del genere
Fra il gennaio e il marzo del 1931, «L’Azione Coloniale», periodico di ispirazione nazionalista e vicino agli ambienti governativi, promosse tra gli intellettuali un
«referendum» sulla letteratura coloniale. Il questionario era formato da quattro domande,
83 B.SORGONI, Parole e Corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella
colonia Eritrea (1890-1941), Napoli, Liguori Editore, 1998, p. 59.
84 Si legge in S.SABELLI, L’eredità del colonialismo nelle rappresentazioni contemporanee del corpo
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di cui le prime tre concernevano il problema dell’esistenza o meno in Italia di una produzione letteraria specializzata in tale ambito, mentre l’ultima chiedeva di indicare il romanzo che, tra quelli pubblicati fino a quel momento, poteva ritenersi maggiormente
rappresentativo di una «sana ed efficace letteratura coloniale»85. Scopo di quest’ultima
avrebbe dovuto essere, secondo l’orientamento della rivista, un compito essenzialmente informativo e pedagogico, privo di finalità estetizzanti e di una destinazione puramente
elitaria: il romanzo coloniale, scritto con uno stile quanto più possibile semplice e
accessibile, avrebbe dovuto rivolgersi soprattutto al vasto pubblico di massa.
Le risposte al questionario non tardarono a confermare l’orientamento indicato dalla rivista. Gli intellettuali interpellati avevano espresso chiaramente l’esigenza di abbandonare la tendenza a una letteratura coloniale di «falso e stridente lirismo romantico
e lacrimogeno»86. Il fondatore del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, segnalò la
necessità di liberare la letteratura coloniale «dai fronzoli sentimentali e romantici»,
arricchendola piuttosto di elementi tecnici e pratici. La richiesta unanime, in sintesi,
sembrava quella di evitare la “prosa d’arte” in favore di uno stile più scarno e essenziale. La maggior parte degli interventi lamentò inoltre l’assenza di un vero e proprio artista coloniale italiano: non era possibile, secondo quanto affermato nel questionario,
rivendicare una credibilità ad opere scritte sulle colonie da letterati non “specialisti” nel
settore. Non bastava, secondo Massimo Bontempelli, «mettere a Tripoli un’avventura che si potrebbe mettere anche a Perugia, per aver fatto un romanzo coloniale», né «fare un
viaggetto di quindici giorni in Cirenaica per farsi un’anima coloniale». La carenza di
scrittori adatti a questo compito veniva motivata dagli intellettuali anche con la mancanza
di un impero italiano che potesse farsi oggetto di un adeguato discorso letterario.
85 Il testo integrale del questionario è riportato in G.TOMASELLO, La letteratura coloniale italiana dalle
avanguardie al fascismo, Palermo, Sellerio, 1984, p. 15.
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Il rifiuto di un lirismo romantico-sentimentale denunciava del resto il persistere di siffatti
stilemi all’interno della scrittura coloniale così come si era costituita fino a quel periodo. Il timore generale era quello di un esotismo trasgressivo e decadente che potesse
danneggiare o contaminare i romanzi coloniali, snaturandone il carattere precipuo
attraverso continue fughe dalla realtà87.
Margherita Sarfatti, esponente di una posizione minoritaria all’interno del dibattito, si dichiarò invece favorevole al recupero o mantenimento di un livello di “prosa d’arte”.
Questo il suo punto di vista:
«E che importa a me della letteratura coloniale? Avrei bisogno di libri “d’arte” coloniale. Di bei libri che si possano leggere. Anzi che “obblighino” a leggerli. Di quei libri che, una volta cominciati, non si possano smettere più fino alla fine. Per scrivere di questi libri non occorre neppure, come dice Bontempelli, “avere delle colonie”. A tale scopo possono bastare anche le colonie degli altri, pur sempre considerandole dal punto di vista italiano; e qualcuno questo ha già fatto. Non è detto neppure che per scrivere libri sia necessario aver vissuto in colonia. Forse che Gabriele D’Annunzio andò a Tripoli per cantare le “gesta d’oltremare”? Altra cosa veramente è necessaria, una sola: “l’immaginazione creatrice”»88.
L’attenzione verso la letteratura coloniale aveva iniziato a diffondersi quando il regime decise di consolidare le sue strutture puntando all’espansione dei suoi domini. Il romanzo era una delle forme d’arte cui era stato affidato il compito di interpretare il nuovo tempo, unendo la sua componente letteraria a quella politico-propagandistica. Nel 1925 venne
bandito il primo concorso per un romanzo coloniale; il 20 marzo 1926 «L’Idea Coloniale»
– supplemento dell’organo ufficiale «L’Idea Nazionale» – diede ampio risalto alla vittoria del romanzo di Mario dei Gaslini, Piccolo amore beduino, in un articolo
significativamente intitolato Inizio di letteratura coloniale. L’editoriale si soffermò
87 La ripresa sistematica di alcuni moduli della narrativa esotica nella letteratura coloniale rende tutt’oggi
problematico operare una netta suddivisione cronologica tra l’una e l’altra. Alcuni studiosi, tra cui Giovanna Tomasello, ritengono di dovere iscrivere le opere prodotte intorno agli anni venti tra i romanzi esotici, e quelle successive tra i veri romanzi coloniali; Maria Pagliara ritiene invece che un tale criterio non tenga conto né degli elementi comuni alle due tipologie di romanzo, né dell’atteggiamento degli stessi autori degli anni venti, i quali erano convinti di produrre opere coloniali e non esotiche.
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tuttavia sui pregi del suo autore più che su quelli dell’opera; il giudizio estetico appariva
circoscritto in poche righe e puntava a giustificare le carenze qualitative del testo,
riconducibili a una certa esuberanza giovanile che ancora si lasciava trascinare dalle
passioni e dalle emozioni. La figura dell’autore appariva invece esemplare: giovane
ufficiale di carriera combattente in Libia e nella prima guerra mondiale, aderente al
fascismo fin dal 1920. Il romanzo coloniale ideale, per essere letto da uomini d’azione, doveva essere scritto da uomini d’azione, ma di un certo tipo: non personalità eccezionali,
ma figure il più possibile rappresentative delle nuove masse, perfettamente inquadrate
nella struttura statuale del fascismo.
Pur tralasciando il livello dell’alta letteratura, il regime non rinunciava al tempo stesso a creare un corpus di testi coloniali che accreditassero, presso l’opinione nazionale e non
solo, la buona immagine della colonizzazione italiana, basata su un modello di
dominazione radicalmente differente da quelli già esistenti. Per questo motivo vennero
scoraggiati i contatti con autori coloniali stranieri, quasi a voler raggiungere anche in
questo campo una sorta di “autarchia letteraria”. Tuttavia, forse proprio a causa di tali interventi protezionistici, il successo di pubblico di questi romanzi fu assai deludente e
finì col disinteressare le grandi masse per le quali erano stati concepiti.
A riprova del fallimento del progetto letterario, possiamo ricordare un secondo
«referendum» promosso da «L’Azione Coloniale» due anni dopo il precedente. Si trattava di un questionario rivolto agli editori di opere coloniali a cui risposero case editrici molto
vicine al partito fascista; in generale però la grande industria editoriale trascurò perfino
di rispondere, visto il palese disinteresse verso la materia oggetto del «referendum».
Perfino Treves – presso cui era in corso la pubblicazione dell’Enciclopedia Italiana diretta
da Giovanni Gentile – non poté fare a meno di notare che: «andremmo forse alquanto
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presso il pubblico un largo favore. La loro diffusione dipende quasi interamente dalle
iniziative e premure dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura»89.
Gli intrecci romanzeschi
Ritenuto il genere letterario più adatto all’educazione delle masse e al progetto di
amplificazione delle gesta d’oltremare del regime, il romanzo coloniale si configurava come esplicito portatore di finalità didattiche rivolte soprattutto ai giovani, naturali
destinatari del messaggio di emulazione e propaganda proposto in queste storie. Scopo
principale della narrazione era infatti l’esaltazione dell’eroe fascista, un protagonista esemplare e fortemente connotato in senso moralistico. Le vicende, poste del tutto in
secondo piano, presentavano schemi ricorrenti basati su una serie di episodi piuttosto
scontati e ripetitivi.
L’andamento della narrazione era per lo più piatto e cronachistico, da reportage di viaggio, con frequenti immissioni di apologie del fascismo che rallentavano il tempo
romanzesco.
La prosa – spesso infarcita di digressioni di carattere geografico o etnologico, descrizioni
e lunghi monologhi – generava nel lettore stanchezza e assuefazione, appesantendo i
periodi fino a renderli esercitazioni ridondanti di scrittura. La sintassi semplice
assecondava il non impegno del lettore, così come il lessico banalizzato dall’eccessiva enfasi.
Maria Pagliara, in Il romanzo coloniale fra imperialismo e rimorso90, ha individuato i
principali nuclei narratologici della trama romanzesca:
89 Ivi, p. 22
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- Partenza, allontanamento.
Il protagonista lascia l’Italia e parte per l’Africa, spinto dal duplice bisogno di civilizzare quelle terre e assecondare il suo desiderio di conquista. A questa figura
generica del colonizzatore subentra più tardi quella del militare mandato in
colonia per combattere e portare il progresso: il sostenitore dell’ordine, della
misura, dell’energia e dell’attivismo occidentale dovrà necessariamente scontrarsi con il caos, la pigrizia e la passività degli indigeni. Il luogo privilegiato dell’azione è l’Africa, ritenuta la palestra ideale per temprare lo spirito di eroi forti e agguerriti; i caratteri deboli e timidi non potrebbero che uscirne mortificati e
sconfitti.
- Incontro.
Una volta stabilitosi in Africa, il protagonista incontra e tiene con sé – secondo la
consuetudine del madamato91, molto diffusa a quel tempo – una donna indigena,
della quale tuttavia non si innamora mai per motivi religiosi e ragioni etniche.
Infatti egli non può cadere vittima della rete ammaliatrice della terra esotica, ma
la possiede rimanendo sempre presente a se stesso.
Fa eccezione La reclusa di Giarabub di Gino Mitrano Sani, in cui
l’inconciliabilità tra i due protagonisti è superata perché la donna appartiene a una classe elevata ed è pertanto maggiormente predisposta all’accettazione del progresso rappresentato dall’uomo bianco. Tuttavia, in genere, la figura femminile di questi romanzi costituisce sempre il polo negativo, la cui unica
91 Il madamato, realtà storica coloniale molto diffusa, era un istituto che prevedeva la possibile unione, in
forma di concubinaggio, di un italiano con un’indigena. Si trattava di un rapporto non definito giuridicamente e che pertanto non prevedeva nessuna forma di tutela legale della donna. Nonostante questa pratica sia stata più volte giustificata con l’accostamento all’usanza locale del demoz, tra i due istituti esistevano profonde differenze per le quali si rimanda a B.SORGONI, Parole e Corpi op.cit., pp. 127-138
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funzione è quella di mettere in risalto, per contrasto, la superiorità e l’intelligenza dell’eroe europeo.
Il bianco considera l’indigena l’oggetto di sfogo dei suoi desideri sessuali e solo di tanto in tanto manifesta nei suoi confronti sentimenti di umanità e di pietà che
sembrano essere un patrimonio genetico del conquistatore italiano92.
- L’ostacolo
Gli ostacoli maggiori si concretizzano nella partenza improvvisa dell’eroe per
altra destinazione o nella comparsa di una seconda figura femminile, la donna
bianca, rivale temutissima per l’indigena a causa della sua superiorità razziale e culturale.
Il rapporto che l’uomo instaura con le due figure femminili del romanzo – quella
indigena e quella europea – è profondamente diverso. La donna nera manifesta
sempre segni di gratitudine e di devozione nei confronti dell’italiano, giacché lui l’ha scelta come “madama” offrendole la possibilità di risollevarsi dalla situazione di indigenza e inciviltà nella quale si trovava; il padrone occidentale pertanto
merita, dal suo punto di vista, una disponibilità, una fedeltà e un’obbedienza incondizionate. L’antagonista bianca stabilisce invece col protagonista un rapporto più conflittuale: la sua disinvoltura e la sua intelligenza rischiano di
distrarre l’eroe dalla missione prefissata mettendo alla prova il suo legame con la terra africana. Alla fine, nonostante ciascuno dei due personaggi cerchi di imporre
la propria personalità, sarà sempre il maschio ad avere la meglio, tenendo fede
alla sua scelta e ristabilendo così la gerarchia dei ruoli tra i due sessi.
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- L’eroe ritorna in Europa.
Il rientro non avviene mai per volontà del protagonista, il quale accetta mal
volentieri le decisioni prese dalle autorità; tuttavia il suo senso del dovere gli
impone di obbedire scrupolosamente. Il cambiamento di sede si verifica perché
l’eroe è stato destinato a nuovi incarichi, oppure per convalescenza in seguito a una dura battaglia, e quindi per meritato riposo. Una volta tornato in Europa, il
protagonista inizia a sentire nostalgia della terra lontana, il “mal d’Africa”, che gli impone di tornare nelle colonie per godere del contatto con l’incontaminato e la verginità di quei luoghi. Come si può notare, si verifica in questa ultima sequenza
un ribaltamento rispetto al romanzo esotico classico, in quanto è la terra civilizzata
a produrre pigrizia, mentre l’Africa spinge il protagonista all’azione fisica e psicologica.
L’insofferenza dell’eroe nei confronti della licenziosa vita cittadina è un topos che emerge in tutti i romanzi: soltanto nel continente nero l’uomo fascista può iniziare un percorso di rinascita e di rigenerazione delle proprie virtù, ingiustamente
svalutate da una società che ha ormai perso di vista i valori tradizionali.
Il precedente immediato per gli scrittori italiani coloniali è stato senza dubbio
D’Annunzio che, nelle Canzoni della gesta d’oltremare, esalta l’idea imperialistica adoperando un tipo di scrittura decisamente improntato alla propaganda, con uso esteso
della paratassi e di periodi lineari veicolanti un messaggio ideologico ben preciso:
l’ordine e la chiarezza della mente italiana in contrasto con l’ambiguità verbale delle popolazioni orientali. Anche i tratti più marcatamente decadenti dell’eroe coloniale possono essere ricondotti a una paternità dannunziana, come ad esempio il languore e la
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Non meno importanti furono le influenze marinettiane derivate dalle opere “africane” del
fondatore del futurismo – Mafarka il futurista (1909), Il Tamburo di fuoco (1921), Luci
veloci (1929) e Poema africano della Divisione “28 ottobre” (1937) – per il vitalismo
bellico e l’esibizione di un lessico carico di immediatezza verbale93.
Razzismo e discriminazioni nella narrativa italiana fascista
Come abbiamo visto, l’eros era l’ingrediente principale dei numerosi romanzi coloniali pubblicati sotto il regime fascista. Con l’introduzione delle leggi razziali – entrate in vigore nelle colonie fin dal 1936 – per gli autori diventò assai difficile riuscire ancora a
escogitare trame accattivanti, dato che non potevano più ispirarsi al modello in cui la
conquista coloniale giustificava il possesso erotico delle indigene da parte dei bianchi. Il
risultato fu un inevitabile crollo del successo di pubblico di questo genere narrativo, già
non particolarmente popolare.
I romanzi pubblicati negli anni venti e nei primi anni trenta sono tuttavia la prova che il
razzismo era già largamente diffuso nella sensibilità e nell’immaginario della società
italiana prima che il partito fascista ne facesse un punto saldo della sua ideologia. Questo
universo di storie coloniali, infatti, rappresenta per noi una significativa risorsa attraverso
cui portare alla luce idee, sentimenti, stereotipi e pregiudizi di un intero popolo.
Al vertice della gerarchia razziale tracciata nei racconti stava l’uomo bianco, in una prospettiva che associava maschilismo e razzismo eurocentrico; tutte le razze estranee
all’Occidente si collocavano tanto più in alto quanto più si avvicinavano al colonizzatore nell’aspetto fisico e nelle pratiche culturali. Era concepibile che l’uomo europeo potesse
93 È tuttavia opportuno ricordare, d’accordo con M. Pagliara e G. Tomasello, che l’idea di colonizzazione
e imperialismo proposta da Marinetti non coincideva con quella degli scrittori coloniali. «Le opere “africane” di Marinetti costituivano uno strumento di propaganda futurista, più che imperialistica». Cfr. M. PAGLIARA, op. cit., p. 22.
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provare dei sentimenti d’amore solo per donne bianche o tutt’al più per donne arabe, ritenute ancora abbastanza simili agli Occidentali per il colore della pelle: la loro palese
inferiorità culturale era tuttavia destinata a condurre queste relazioni miste ad un esito
fallimentare, con l’unica eccezione – lo abbiamo già visto – de La reclusa di Giarabub di Mitrano Sani.
Soltanto in pochissime occasioni gli arabi vengono descritti in maniera positiva e quando
ciò accade è a causa della loro devota sottomissione agli italiani. In generale essi vengono
caratterizzati, non senza qualche metafora zoologica, da fanatismo, odio verso gli
infedeli, apatia, istinto, sporcizia, limitatezza mentale, ingiustificato orgoglio di razza,
tortuosità, ipocrisia, scaltrezza e arretratezza.
Se i popoli arabi erano ritenuti esseri umani a pieno titolo (anche se inferiori), non
possiamo dire la stessa cosa dei neri e dei meticci. Questi ultimi si collocavano a un livello
leggermente più alto grazie a una relativa superiorità derivante dall’apporto del sangue bianco, per lo più paterno. L’unione tra un uomo di colore e una donna europea era infatti vista come un comportamento deviato e degradante. Lo sguardo razzista considerava il
meticciato un miscuglio in cui le due componenti non giungevano mai a una fusione
perfetta e armoniosa, ma rimanevano sempre tra loro ben distinte. Ne sono prova le
fantasiose descrizioni fornite da autori che, pur avendo sicuramente incontrato molti
meticci di persona, parlavano di individui neri coi capelli biondi, evidenziando come i
tratti somatici dei genitori potessero solo giustapporsi gli uni agli altri generando
stranezze contrastanti. Non diversamente la psiche e il carattere di questi soggetti
presentavano scissioni e incoerenze, in cui a scontrarsi erano sempre il pensiero evoluto
della matrice bianca e l’istintualità primordiale della natura nera. Tutti questi aspetti circoscrivevano i ruoli dei meticci nei romanzi a personaggi estremamente instabili,
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sempre in bilico tra l’inaccessibile società bianca e il mondo indigeno, dal quale non potevano staccarsi completamente.
Al gradino più basso della gerarchia razziale l’uomo occidentale aveva collocato – intrecciando una discriminazione di razza con una di genere – la donna nera, privata di
ogni dignità umana, reificata o equiparata alle bestie. Riccardo Bonavita mette in
evidenza come nei romanzi di Mitrano Sani anche gli atteggiamenti più affettuosi dei
colonizzatori verso le sottomesse nascondano in realtà un profondo razzismo. Quando ad
esempio il protagonista di Femina somala deve abbandonare Elo, la propria madama, egli
descrive il congedo dalla ragazza con una benevolenza distaccata:
Come una bestiola, accucciata in un angolo della camera che doveva divenire d'un altro [...] Elo, il viso nelle palme, faceva pensare a quei cani fedeli che muoiono sulla fossa del padrone. Ella non aveva un pensiero che connettesse con altri, ella non sentiva la logica dei ragionamenti ma sentiva che perdeva una gran cosa, sentiva che senza il suo uomo la sua vita rientrava nel vuoto, nel buio che prima non aveva conosciuto ché vivendo da bestiola non conosceva altro della vita che la monotonia di quel vuoto. [...] Andriani aveva tutto regolato per Elo [...] ora se ne andava senza scrupoli, senza rimorsi, con la coscienza di aver ben ricambiato l'alleviamento alla dura astinenza africana che Elo docilmente gli aveva procurato. Non poteva, però, scacciare il senso penoso pel distacco dalla fanciulla, e non se ne vergognava. Era quello il senso triste che si ha quando si lasciano cose con cui s'è vissuto, il senso triste che non è solo per le persone ma anche per i luoghi e le cose. Purtuttavia sentiva che quella sensazione angosciosa era un qualcosa di diverso ed a cagione della sua piccola nera. [...] Che cosa doveva fare? Si può lasciare il proprio cane fedele senza una carezza?94
La donna – significativamente chiamata nel titolo solo femina – è non a caso paragonata
all’animale domestico simbolo per antonomasia di fedeltà incondizionata e remissività. La mentalità razzista di cui è intriso questo testo rappresenta l’inferiorità biologica del processo cognitivo di lei, privo di razionalità deduttiva e praticamente subumano. Del
resto, la soggettività di queste figure femminili non emerge quasi mai direttamente,
poiché esse non sono ritenute capaci di esprimersi in maniera compiuta e
autorappresentarsi.
94 Si legge in R.BONAVITA, Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea, Bologna,
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Dalla citazione emerge anche la natura asimmetrica della relazione tra i due: mentre la
donna teme di perdere il suo unico punto di riferimento, l’uomo si sente legittimato all’appropriazione sessuale del corpo femminile dalla consapevolezza della propria superiorità. Possiamo dire quindi che la colonizzata incarna la terra conquistata, priva di
identità e di coscienza, «spazio “vuoto” aperto a una progettualità estranea a cui deve essere grato […]: se la colonia è terra di nessuno, l’indigena, incapace di pensare, è corpo