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Inquietudine esistenziale e aspetti di anticolonialismo in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea Magistrale in Lingua e Letteratura Italiana

Tesi di Laurea Magistrale

Inquietudine esistenziale e aspetti di anticolonialismo

in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano

CANDIDATO

RELATORE

Chiara A

MICO

Prof. Sergio Z

ATTI

CORRELATORE

Prof. Fausto C

IOMPI

(2)

2

Ai tramonti invernali,

ai campi di girasoli,

(3)

3

I

NDICE

INTRODUZIONE ... 5

1. ENNIO FLAIANO: UNO SCRITTORE POLIEDRICO... 8

2. L’AVVENTURA COLONIALE ITALIANA IN ETIOPIA: BREVE SINTESI STORICA... 26

2.1 Percorsi di ricerca sul colonialismo italiano ... 39

3.AETHIOPIA, APPUNTI PER UNA CANZONETTA ... 43

3.1 Il diario e la storia ... 47

3.2 Il diario e il romanzo ... 52

4.TEMPO DI UCCIDERE: ANALISI DEL ROMANZO ... 56

4.1 La vicenda ... 56

4.2 Genesi del romanzo ... 58

4.2.1 Sulla sostituzione dell’epigrafe iniziale ... 62

4.3 Alcune osservazioni stilistiche ... 65

4.4 Storie che sfuggono ad un’indagine: tematiche di un romanzo sui generis ... 70

4.5 L’impresa coloniale di un inetto ... 80

4.5.1 Le fantasticherie ... 82

4.5.2 La viltà ... 82

4.5.3 L’incapacità di capire ... 84

4.5.4 L’intellettuale inetto ... 85

4.5.5 L’oscillazione del pensiero ... 85

4.5.6 Confronto inetto-forte ... 90

4.5.7 La malattia ... 95

4.5.8 L’inettitudine come condizione esistenziale, ma non solo ... 98

5.TEMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI ... 101

5.1 Rappresentazioni dell’alterità nella scrittura dell’Occidente europeo ... 101

5.1.1 Letteratura e colonialismo ... 101

5.1.2 L’Africa nell’immaginario degli esploratori europei di fine Ottocento: la letteratura esotica come premessa del colonialismo ... 106

5.1.3 Il romanzo coloniale fascista: problemi di definizione del genere ... 109

5.2 Anticolonialismo come conflittualità della coscienza in Tempo di uccidere ... 120

5.3 Gli Indigeni di Flaiano ... 127

5.3.1 Mariam e le donne abissine ... 127

5.3.2 L’incontro con Mariam: oltre la letteratura coloniale ... 133

(4)

4

5.4 Da Heart of Darkness a Tempo di uccidere: la paura di smarrirsi dell’uomo

occidentale ... 141

CONCLUSIONI ... 152

(5)

5

I

NTRODUZIONE

A settant’anni dalla pubblicazione e dalla vittoria del Premio Strega, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano è un romanzo che ha ancora molto da dire.

Eppure, l’esiguo numero di contributi critici ad esso dedicati testimonia una scarsa

attenzione e un generale disinteresse verso quest’opera così singolare, il cui spessore

letterario è stato a lungo ignorato o affrontato con superficialità.

In un’intervista a “Il Dramma” del ’72, l’autore mostrava di aver già previsto l’inadeguata

comprensione del suo messaggio da parte della società contemporanea; infatti, alla

richiesta del giornalista di formulare una definizione di se stesso per un’immaginaria enciclopedia del 2050, Flaiano rispondeva: «Giornalista e sceneggiatore, autore anche di

un romanzo, Tempo di morire (concediamo a questa ipotetica enciclopedia una citazione

inesatta). Scrittore minore satirico dell’Italia del Benessere1». Con queste parole egli

esprimeva l’amara consapevolezza di un ambiente culturale ancora impreparato ad accogliere la sua produzione letteraria, decisamente estranea agli schemi compositivi

dell’epoca. Il 1947 fu infatti l’anno della produzione neorealistica torrenziale: Il sentiero

dei nidi di ragno di Italo Calvino, Il Compagno di Cesare Pavese, L’oro di Napoli di

Giuseppe Marotta, Il cielo è rosso di Giuseppe Berto, Cronaca familiare di Pratolini e

Spaccanapoli di Domenico Rea, per citarne solo alcuni.

Tempo di uccidere è stato considerato un romanzo stravagante perché disattendeva i

canoni narrativi allora dominanti, dall’impersonalità della narrazione al valore

documentario della storia, dal racconto della lotta di classe alla condanna del regime

dittatoriale. La sua vittoria del Premio Strega venne prontamente contestata dall’élite

1 Intervista di Italo Alighiero Chiusano per “Il Dramma”, 1972; ora in E.FLAIANO, Opere. Scritti postumi,

(6)

6

culturale di sinistra, tanto che per tutto il dopoguerra il romanzo fu quasi dimenticato dalla

critica. Il suo ruolo è stato a lungo relegato a quello di esordio letterario di uno scrittore

di aforismi, di satira umoristica, di cinema.

Solo negli anni Ottanta e Novanta l’interesse nei confronti di Tempo di uccidere si è finalmente riacceso, grazie al contributo di alcuni importanti studi che ne hanno messo in

risalto l’unicità all’interno del panorama editoriale coevo. La chiave di lettura giusta fu individuata nel pensiero esistenzialista dell’autore: i problemi presentati in questo

romanzo – il caso, la noia, l’incapacità di affrontare la vita, ecc. – possono infatti essere

situati al di là di un tempo e di un luogo precisi, collocandosi in una prospettiva universale

che trascende il singolo periodo storico per raccontare la tragica condizione esistenziale

dell’uomo moderno. Per questo motivo, secondo tale indirizzo critico, Tempo di uccidere può essere pienamente compreso solo se accostato ai grandi capolavori europei di Camus,

Kafka, Sartre e Mann.

Sergio Pautasso si è espresso sulla questione in questi termini: «Pensate, uno dei pochi,

se non l’unico romanzo di uno scrittore nuovo, esordiente, che in quegli anni di pieno neorealismo si presentava con un taglio all’europea, venne guardato con una certa sufficienza anche dalla critica più intelligente e che avrebbe perciò dovuto essere aperta

alla suggestione letteraria di quel romanzo fuori dalla norma.2».

La pubblicazione delle Opere a cura di Maria Corti e Anna Longoni per i Classici

Bompiani3 ha fornito importanti strumenti per una rilettura sistematica degli scritti di

Flaiano, valorizzando ancora quegli aspetti universali del suo pensiero che attraversano il

romanzo e l’intera produzione dell’autore.

2 S. PAUTASSO, Tempo di uccidere: un romanzo profetico, in Tempo di uccidere, Atti del convegno

nazionale di Pescara, 27-28 maggio. Pescara, Ediars, 1994, p. 15

3 E.FLAIANO, Opere. Scritti postumi, cit.; E.FLAIANO, Opere (1947-1972), a cura di M. Corti e A. Longoni,

(7)

7

Concorda pienamente con un approccio esistenzialista anche Lucilla Sergiacomo, per la

quale «il reale inseguito e raccontato da Flaiano si identificava più con il complesso e

sfuggente mondo interiore dei pensieri, dei sentimenti e dei ricordi che presiedono alle

scelte, o non scelte, del «personaggio uomo», che mai in Flaiano è rappresentato come

positivo e vincente, ma viene giocato continuamente dalla sorte.4 ».

Il presente lavoro ha lo scopo di fornire un’ulteriore lettura di Tempo di uccidere, mettendo in evidenza alcuni degli aspetti fino ad ora poco esplorati. Senza entrare in

conflitto con quanti hanno ravvisato alla base del romanzo una matrice di tipo

esistenzialista, e anzi accogliendola come punto di partenza, si cercherà di dimostrare che

sono possibili anche altre prospettive di analisi che non escludano l’importanza del

contesto storico-politico della narrazione. La realtà del colonialismo italiano è infatti viva

e presente in questo romanzo, nonostante sia trasfigurata da un’atmosfera spesso surreale e onirica che ha indirizzato molti critici verso un’interpretazione universale dei temi

affrontati. Alcune recenti pubblicazioni hanno iniziato ad esaminare la posizione

dell’autore nei confronti delle vuote ideologie di potere con cui i paesi europei hanno giustificato per secoli la conquista e lo sfruttamento delle colonie. Si è cominciato ad

accostare Flaiano a nuovi modelli (Conrad, Kipling, Forster, ecc.) mettendo in rilievo un

comune messaggio di condanna del sistema imperialista e l’ipocrisia del mondo

occidentale. Attraverso alcuni confronti intertestuali più o meno articolati, si tenterà di

ricostruire il rapporto di Flaiano con la tradizione del romanzo coloniale, con particolare

attenzione all’archetipo conradiano.

Infine, là dove sia opportuno farlo, verranno segnalati anche altri modelli narrativi (o

poetici) ed alcune suggestioni letterarie ispirate dalla lettura stessa del romanzo.

4L. SE R GI A C O M O, Invito alla lettura di Ennio Flaiano, Milano, Mursia, 1996, p. 75

(8)

8

1. E

NNIO

F

LAIANO

:

UNO SCRITTORE POLIEDRICO

Il carattere autobiografico che pervade gran parte dell’opera flaianea permette una precisa

ricostruzione delle sue vicende personali. In perfetta coerenza con la propria idea di

letteratura -che Flaiano considerava il luogo privilegiato per la rappresentazione e

l’elaborazione dei conflitti dell’interiorità- nella sua produzione è impossibile non riscontrare, in controluce, gli eventi che maggiormente hanno segnato la sua vita di uomo

e di artista, calati in un contesto letterario che li trasfigura ma allo stesso tempo li preserva.

Contrariamente a quanto sosteneva la coeva letteratura neorealista, Flaiano riteneva

infatti che l’autore non dovesse annullarsi nell’atto della scrittura, bensì profondersi

quanto più possibile in essa.

Il corpus dei suoi manoscritti -costituito quasi interamente da materiali avantestuali come

appunti, diari, annotazioni e brevi aforismi- è oggi conservato nel Fondo Manoscritti di

Autori Contemporanei dell’Università di Pavia e, in misura minore, nella Biblioteca Cantonale di Lugano.

Flaiano nacque a Pescara il 5 marzo 1910 da Cetteo, commerciante, e da Francesca Di

Michele, sua seconda moglie. Ultimo di sette figli, rimase sempre legato alla famiglia da

rapporti difficili e ambivalenti, caratterizzati da amore e affetto ma anche da rancore e

indifferenza. Il clima che ristagnava entro le mura domestiche, appesantito spesso anche

dalle difficoltà economiche, è ben descritto nei suoi appunti personali, pungenti e

disincantati: «Chi nasce, si preoccupi anzitutto di non nascere in una famiglia povera e

numerosa», appuntava nel Taccuino del marziano, mentre nel racconto Il Minore, una

delle sue prove d’esordio, scriveva:

sono il figlio minore, considerato assai poco in famiglia. Forse (causa il divario di età tra me e il penultimo dei miei fratelli) nessuno mi aspettava più ormai. Sono arrivato, come si dice, a tavola sparecchiata, alla frutta. […] Gli altri tre fratelli e le due sorelle affettano ormai di non considerarmi, mi guardano di tanto in tanto per accertarsi che purtroppo esisto ancora. Non mi

(9)

9

dispiace il loro contegno, mi permette anzi di render la pariglia e mi libera da ogni peso di conversazione o peggio di affetto e di riconoscenza nei loro riguardi5.

Nel 1915, a soli cinque anni, a causa di una crisi coniugale sorta tra i genitori, Flaiano

venne allontanato da Pescara e affidato a una famiglia di Camerino, nelle Marche; questo

trasferimento rappresentò soltanto la prima tappa di un’infanzia e un’adolescenza

alquanto travagliate, segnate da continui spostamenti e frequentazioni di collegi sempre

differenti. Subito dopo Camerino il giovane pescarese si traferì a Senigallia, poi di nuovo

a Camerino, poi a Fermo, Chieti, Brescia e infine si iscrisse al Collegio Nazionale di

Roma, nel 1922. Al dolore provocato da queste forzate peregrinazioni si aggiunse una

forte instabilità affettiva, alimentata dalle sporadiche e distaccate visite della madre.

Il giovane Flaiano non tornerà mai più a vivere a Pescara, ma vi trascorrerà tutte le estati

della sua adolescenza, anche dopo il definitivo trasferimento a Roma. Il ricordo della città

natale, così come l’aveva conosciuta da bambino, restò ben impresso nella memoria dello scrittore, suscitando in lui -proprio come la famiglia- sentimenti opposti di nostalgia e

fastidio. Questo è quanto emerge dal testo di una lettera scritta a Pasquale Scarpitti nel

1971:

Caro Scarpitti,

adesso che mi ci fai pensare, mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto: cioè l’orgoglio di esserlo […]. Un orgoglio che ha le sue relative lacerazioni e ambivalenze di sentimenti verso tutto ciò che è Abruzzo. […]

Io ricordo una Pescara diversa, di cinquemila abitanti, al mare ci si andava col tram a cavalli e le sere d’estate si passeggiava, incredibile, per quella strada dove sono nato, il corso Manthoné, ora diventato un vicolo e allora persino elegante. […]

Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana, la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie [...]

Tra i dati negativi della stessa eredità: il sentimento che tutto è vanità6, ed è quindi inutile portare a termine le cose, inutile far valere i propri diritti; e tutto ciò è misto ad una disapprovazione muta, antica, ad una sensualità disarmante, a un senso profondo della giustizia e della grazia, a un’accettazione della vita come preludio alla sola cosa certa, la morte: e da qui il disordine quotidiano, l’indecisione, la disattenzione a quello che ci succede attorno. Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?) – con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno.

5 Cfr. E.FLAIANO, Autobiografia del blu di Prussia, in E.FLAIANO, Opere. Scritti postumi, cit., p. 42 6 Cfr. Infra, pp. 63-64

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Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue. Me ne andai all’età di cinque anni, vi tornai a sedici, a diciotto ero già trasferito a Roma, emigrante intellettuale, senza nemmeno la speranza di ritornarci. Ma le mie “estati” sono abruzzesi, e quindi conosco bene dell’Abruzzo il colore e il senso dell’estate […]7.

L’ambientazione abruzzese di alcuni scritti testimonia il profondo senso di appartenenza di Flaiano alla sua terra. Nel romanzo incompiuto Il Messia troviamo infatti gli echi delle

sue pesanti vicende familiari e della tragica necessità dell’abbandono prematuro del luogo d’origine. È proprio la città natale – spesso mascherata sotto le spoglie di un’anonima cittadina di provincia sul mare – a fare da sfondo ai ricordi dell’infanzia. Simbolo di uno

stile di vita immerso nella provincia, lontana dai fermenti socio-culturali degli ambienti

urbani, Pescara è la protagonista del racconto Il Minore, in cui si fanno strada quelli che

diventeranno alcuni temi dominanti della produzione flaianea: l’infelicità giovanile, la noia, il disincanto, la solitudine.

Un autobiografismo indiretto caratterizza invece la poliedrica produzione della maturità,

in cui i protagonisti di Oh Bombay!, di Melampus, di Una e una notte e di Prima versione

di un caso hanno tutti in comune l’origine in un paese sull’Adriatico.

Nella Pescara dei primi decenni del Novecento si coltivava più che altrove il mito di

D’Annunzio, con la cui eredità anche Flaiano dovette fare i conti. Il suo atteggiamento nei confronti del poeta vate fu quello di un confronto rispettoso, non privo però di

quell’ironia d’espressione che gli era propria, nella letteratura come nella vita. Agli stereotipi e alla retorica dannunziana, che aveva definito l’Abruzzo terra vergine, Flaiano

rispose come voce isolata all’interno del coro orgogliosamente celebrativo innalzato dai

suoi conterranei, insinuando – con velato sarcasmo – l’esistenza di una distanza

sostanziale tra la Pescara descritta da D’Annunzio e quella reale. Testimonianza di questo

pensiero è la già citata lettera a Pasquale Scarpitti del ‘71:

7 Soltanto le parole. Lettere di e a Ennio Flaiano (1933-1972), a cura di A. Longoni e D. Rüesch, Milano,

Bompiani, 1995, pp.406-407. Il volume contiene 425 lettere i cui autografi sono conservati nel Fondo Flaiano della Biblioteca Cantonale di Lugano.

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Ci si conosceva tutti; una vera miniera di novelle che, se non ci fossero già quelle “della Pescara”, si potrebbe scavare. Ma l’ipoteca dannunziana è troppo forte, bisogna aspettare un altro poeta8.

Il 26 ottobre 1922, a soli dodici anni, Flaiano partì per Roma per frequentare il Collegio

Nazionale. Il ricordo del viaggio in treno verso la capitale è ben impresso nella memoria

dello scrittore, che lo definì «la sua personale marcia su Roma», ironizzando su quanto

stava per compiersi per mano del partito fascista e dei suoi stessi compagni di

scompartimento:

[…] Ripensandoci, mi accorgo di avere avuto anch’io la mia marcia. […]

Avevo dodici anni, fui messo sul treno con molte inutili raccomandazioni e salutato con un fazzoletto quando il treno partì. Soltanto allora mi accorsi che il mio vagone di terza classe era pieno di fascisti locali, alcuni dei quali conoscevo di vista, tutti già inebriati dall’avventura che li attendeva. Cantavano e, appena il treno si mosse, tirarono fuori una quantità incredibile di cibarie9.

A novembre di quello stesso anno entrò nel collegio Clementino e si iscrisse al corso di

ragioneria, frequentando le lezioni con scarso interesse. Egli stesso parlò in seguito di

quel luogo come di una «triste prigione dove avrei passato i quattro anni più inutili della

mia vita», «un piatto fabbricato ecclesiastico della Controriforma». Bocciato all’esame di

ragioneria, si iscrisse al Liceo Artistico, dove conseguì il diploma nel 1928 per poi

iscriversi alla Facoltà di architettura senza mai portarla a termine.

Risale a questo primo periodo romano l’avvicinamento di Flaiano al teatro e il suo esordio

come sceneggiatore presso il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, un

ambiente culturale stimolante e d’avanguardia.

Strinse inoltre proprio in questi anni una profonda amicizia con l’artista Orfeo Tamburi,

caratterizzata da un comune interesse per la pittura. Flaiano ospitò Tamburi per un paio

d’anni nella propria stanza, per sottrarlo alla pensione modesta e confusionaria nella quale viveva e permettergli così di lavorare con più agio ai suoi disegni.

8 Cfr. Ivi, p. 406

(12)

12

L’amicizia tra i due sopravvisse – grazie ad un fitta corrispondenza epistolare – anche dopo il trasferimento di Flaiano alla Scuola Ufficiali di Pavia nel 1933. Nelle sue lettere,

il giovane pescarese si lamentava della rigidità insopportabile dell’addestramento

militare, appesantito dal grigiore e dalla piattezza della vita cittadina di Pavia. Così in una

lettera del 22 novembre 1933:

Sono un po’ demoralizzato dall’andamento di questo corso: una serie di piccoli fatti mi ha tolto ogni buona volontà. Sono stato consegnato cinque giorni perché avevo una mano in tasca. Le umiliazioni sono frequenti e dolorose. La nebbia e la pioggia si danno il cambio. Non ho ancora visto il sole dal giorno del mio arrivo. Mi viene di ricordarmi certe giornate romane, col cielo di vetro azzurro. Ho una nostalgia matta di Roma, del suo colore, delle passeggiate senza scopo, delle belle gallerie dove ognuno può illudersi di vivere per qualche serio motivo. La vita in città del genere come Pavia è spaventosamente incolore. […]

Se ritorno a Roma, voglio incollarmici10.

Tra il 1931 e il 1933 si colloca anche il debutto giornalistico di Flaiano, avvenuto sulla

rivista romana «Oggi» con un articolo sul romanzo I nostri simili di Pier Antonio

Quarantotti-Gambini. Cominciava così il lungo sodalizio con Mario Pannunzio, il

direttore del settimanale, destinato a sfociare in una feconda intesa lavorativa interrotta

soltanto per un breve periodo dalla censura del regime fascista. Negli anni successivi,

Pannunzio introdurrà definitivamente Flaiano nell’ambiente giornalistico, nominandolo collaboratore di tutte le riviste di cui fu a capo, tra cui il rifondato «Oggi» (1939-1942),

«Risorgimento liberale» e «Il Mondo».

Nel novembre del ’33 Flaiano pubblicò il suo primo articolo sull’ «Italia letteraria» e tra il ’33 e il ’34 collaborò con la rivista «Occidente» diretta da Armando Ghelardini, per la quale si occupò di critica con interventi su Aldous L. Huxley, Sherwood Andreson, David

H. Lawrence e Marise Ferro. Non erano infrequenti queste sue incursioni nelle letterature

straniere, alimentate dal ricco bagaglio di letture da lui svolte durante gli anni: un percorso

attraverso la conoscenza di autori fondamentali che di certo rivestì un ruolo di grande

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13

importanza nella sua formazione personale. A parte Edgar A. Poe e Gustave Flaubert,

scoperti in giovanissima età, è stata infatti individuata un’area di influenza francese (comprendente Marcel Proust, Valery Larbaud, Sébastien R.N. Chamfort, François de La

Rochefoucauld), un’area inglese (Jonathan Swift, Charles Dickens, Samuel Butler, Oscar

Wilde, Lawrence, Edward M. Forster, Norman Douglas, Huxley) e un’area americana

(Anderson, Saul Bellow e altri).

Il giornalismo fu probabilmente l’attività di scrittura più congeniale per l’intellettuale eclettico Flaiano che, pur avendo sperimentato i generi compositivi più disparati, non

smise mai di dedicarvisi, pubblicando un numero incalcolabile di articoli su testate

sempre differenti. Non è inutile ricordare che, prima di trovare lavoro nel cinema, scrivere

per i giornali rappresentava la sua unica fonte di sostentamento a Roma.

Tra i libri pubblicati in vita, tre di essi (Diario notturno, Una e una notte e Le ombre

bianche) rappresentano raccolte di articoli, elzeviri e racconti editi su quotidiani e

periodici; inoltre, anche la maggior parte dei libri postumi è costituita da miscellanee di

materiali giornalistici – si pensi a La solitudine del satiro (1973) e a Un bel giorno di

libertà (1979) – o recensioni cinematografiche – Lettere d’amore al cinema (1978), Nuove lettere d’amore al cinema (1990), L’occhiale indiscreto (1995) e Lo spettatore addormentato (1996).

Nell’ottobre del ’35 Flaiano si imbarcò da Caserta e partì per la guerra d’Etiopia con il grado di sottotenente. La sua partecipazione all’impresa coloniale italiana è ben

documentata da un diario personale intitolato Aethiopia. Appunti per una canzonetta,

steso tra il novembre del ’35 e il maggio del ’36, poi pubblicato postumo nel ’73 sul settimanale «Il Mondo» in due puntate.

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Assieme ad alcune lettere, questo diario è la testimonianza principale dell’insofferenza e dell’indignazione di Flaiano per la corruzione e l’assenza di scrupoli dell’esercito italiano, il cui unico intento era quello di arricchirsi facendo razzia dei villaggi africani o dando

vita a una rete di traffici illeciti. Emergono da queste sofferte pagine il dolore e lo

sgomento per il massacro degli indigeni, l’asservimento delle tribù, la violenza inaudita perpetrata nei confronti dei più deboli, gli abusi sulla donne, il dramma delle pestilenze.

«Le colonie si fanno con la Bibbia alla mano, ma non ispirandosi a ciò che vi è scritto»,

appuntava Flaiano nelle sue carte.

L’esperienza concreta dello scrittore in Africa, da cui la sua dignità di uomo e di soldato non potrà che uscirne svilita, si scontra con la retorica militarista ed eroica del regime e

con le fuorvianti cronache di guerra sui giornali, che raccontavano di successi trionfali

realizzati dal valoroso esercito italiano, oscurando gli aspetti meno edificanti di questa

campagna imperialista. Ma la realtà, come ci racconta Flaiano stesso in questa lettera al

Tamburi del febbraio del ’36, era molto distante dagli slogan diffusi in patria:

Non c’è parola che possa descrivere la nostra sofferenza. Si vive con l’acqua contata, sotto un sole che non perdona, sui monti che sembrano delle fortezze naturali, con il pericolo continuo di una fucilata alle spalle che ci levi di mezzo stupidamente. Se non si avesse fede, molta fede e molta volontà, ci sarebbe da desiderarla, questa fucilata11.

I rapidi appunti, le note e i frammenti che compongono il diario, ricostruiscono questo

clima di tensione bellica; per mezzo di aforismi e sentenze lapidarie, Flaiano affronta e

smentisce la retorica fascista con tutta l’ironia e il sarcasmo che gli sono propri, fino a

mettere in risalto gli aspetti più grotteschi della vita di guerra e ridicolizzare l’idea stessa

dell’espansionismo coloniale.

Le annotazioni raccolte dal sottotenente in Africa, oltre a essere un’importantissima

testimonianza storica e biografica, costituirono anche – come vedremo più avanti – la

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base compositiva per il romanzo Tempo di uccidere, pubblicato nel 1947 e destinato a

rimanere un unicum nella pur prolifica produzione letteraria dell’autore; non sono poche

infatti le situazioni e i particolari che Flaiano riprese dalla propria esperienza personale

trascritta nelle pagine di questo taccuino.

Nel 1972, durante un’intervista a Aldo Rosselli, lo scrittore rievocherà ancora con intensa drammaticità la guerra che aveva segnato così profondamente la sua coscienza:

Una guerra, cui ho preso parte e che mi ha portato ventiquattrenne a ripudiare il fascismo e a desiderare che la cosa finisse, brutalmente, nella sconfitta […]. Ho visto come queste persone, che noi andavamo a “liberare” erano invece oppresse e spaventate dal nostro arrivo. La nostra funzione era soltanto una bassa funzione di prestigio colonialistico, ormai in ritardo12.

Nel novembre del ’36 Flaiano tornò in Italia e riprese la collaborazione con la rivista «Quadrivio», per la quale, prima di partire per la campagna etiopica, aveva già curato la

rubrica «A&B» occupandosi di arte e architettura.

Intensissima fu la sua attività giornalistica a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta; un

impegno che fu accresciuto anche grazie al ruolo di recensore cinematografico e teatrale

da lui ricoperto per dare voce a interessi e approfondimenti personali. Ricordiamo solo

alcuni tra i periodici che poterono vantare la sua collaborazione in questo periodo: «Il

Selvaggio» di Mino Maccari, suo amico da tempo; «Oggi»; «Cinema»; «Cine illustrato»

(per il quale si firmava con lo pseudonimo di Patrizio Rossi); «Storia di ieri e di oggi»

(firmandosi Ezio Bassetto); «Mediterraneo» (con la sigla E.F); «Star» e «Domenica».

Nel ’43 comparvero su «Il popolo di Roma» alcuni racconti (tra cui Il Minore) e altri scritti narrativi furono pubblicati su «Città» e «Domenica» tra il ’44 e il ’45.

Tra il 1937 e il 1938 iniziò a frequentare a Roma il gruppo degli intellettuali che si

riunivano al Caffè Greco e nella trattoria del Gambero, tra i quali Vincenzo Cardarelli,

12 Aspettando Canzonissima. Intervista di Aldo Rosselli per “Aut”, agosto 1972; ora in E.FLAIANO, Opere.

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l’amico Orfeo Tamburi, Alfredo Mezio, Francesco e Carlo Barbieri e Guglielmo Santangelo.

Flaiano risiedeva allora in via dei Greci, in un quartiere culturalmente molto vivace per

la prossimità di piazze, botteghe, giardini, trattorie, ma soprattutto Caffè: il già citato

Caffè Greco ma anche Canova e Rosati in Piazza del Popolo, il famoso Caffè Aragno in

via del Corso.

Presso questi luoghi di incontro si svolse il suo apprendistato culturale all’insegna del

libero scambio di idee e del dissenso verso il regime fascista. Nel quarto numero del

«Quadrivio», dedicato all’importanza dei Caffè nella vita artistica, Flaiano scriveva:

I caffè sono le vere case degli artisti. Gli unici luoghi ove essi pensano realmente, discutono e vivono la loro esistenza più intima. Nel caffè le opinioni si combattono, si elidono, si aggiustano, vengono a patti. Le teorie si giustificano e affermano. Ciò ha un’influenza enorme sui lavori che debbono seguire: se si obbligassero tutti gli artisti a rimanere nelle loro case, nei giorni seguenti si avrebbero dei preoccupanti casi di indecisione. Molte opere rimarrebbero incompiute, come la celebre sinfonia di Schubert che forse rimase tale appunto per la chiusura del caffè frequentato dal maestro, e non per altre ragioni.

I caffè sono dunque i ritrovi che giorno per giorno vivificano l’arte: vi si fanno le rivoluzioni, vi si santificano le glorie, vi si decidono le mode. Su un tavolo di marmo, dinnanzi a quattro aperitivi, si prepara la storia dell’arte ogni giorno13.

Roma era quindi divenuta la patria intellettuale dello scrittore pescarese, la città che fece

da sfondo al suo incontro con artisti del calibro di Vitaliano Brancati, Corrado Alvaro,

Tommaso Landolfi, Mario Soldati, Bruno Barilli e Mino Maccari, oltre alla già citata

compagnia dei Caffè. Ma per Flaiano Roma non fu soltanto un semplice sfondo inerte14:

fu anche il bersaglio dei suoi rabbiosi sfoghi contro i vizi della società, la prigione che

più volte si propose di lasciare ma al cui fascino non sapeva sottrarsi, una donna odiata e

13 Cfr. E. FLAIANO, Opere. Scritti postumi, cit., pp.747-748.

14 A tale proposito risulta molto calzante l’osservazione di M. Corti che attribuisce a suggestioni romane la

vicinanza di Flaiano agli scrittori satirici latini Giovenale e Marziale, da lui sentiti come contemporanei. La studiosa riporta le affermazioni dell’autore nell’intervista alla Radio della Svizzera Italiana del ’72:” Io forse non ero di questa epoca, non sono di questa epoca, forse appartengo a un altro mondo: io mi sento più in armonia quando leggo Giovenale, Marziale, Catullo. È probabile che io sia un antico romano che sta qui ancora, dimenticato dalla storia, a scrivere cose che gli altri hanno scritto molto meglio di me, cioè, ripeto, Catullo, Marziale, Giovenale” (M.CORTI, Introduzione a E.FLAIANO, Opere. Scritti postumi, cit., pp. XIII-XIV).

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amata al tempo stesso. «Si vive in questa città troppo bella, amandola, maledicendola,

proponendosi ogni giorno di lasciarla e restandoci», così l’autore descrive la sua ambiguità di sentimenti nel Supplemento ai viaggi di Marco Polo, una sezione narrativa

di Diario Notturno.

Nel febbraio del 1940 sposò Rosetta Rota, di Vigevano, conosciuta durante il periodo

dell’università; due anni dopo ebbe la sua prima e unica figlia, Luisa detta Lelè, e iniziò a scrivere un diario in cui annotava i primi momenti salienti della vita della bambina.

Nel luglio del ’43 un grave lutto familiare, la morte del padre Cetteo, andò ad aggiungersi

al dolore per la perdita della madre Francesca, avvenuta cinque anni prima15. In quello

stesso periodo, iniziarono anche le crisi epilettiche della piccola Lelè, affetta da un grave

morbo che la costringerà ad un destino alquanto infelice.

Benché duramente provato da queste tragedie familiari – alle quali si accompagnavano

l’incertezza del clima storico, la guerra e la caduta del fascismo – dal ’44 Flaiano divenne cronista di «Risorgimento liberale», il giornale del Partito Liberale diretto da Mario

Pannunzio. In particolare si occupò delle rubriche «Carta bianca» e «Album romano»,

dove trattava fatti di cronaca e società non senza finalità di denuncia della drammatica

situazione in cui riversava il paese alla fine della guerra e della dittatura.

Si trattava di una vera svolta nel suo modo di fare giornalismo, come lui stesso ha

affermato: durante il ventennio infatti, Flaiano e gli altri intellettuali dei Caffè avevano

manifestato il loro dissenso semplicemente parlando d’altro, di argomenti lontani dalla

politica ma che dessero loro modo di immaginare un mondo più libero e aperto al

dibattito. In questa protesta silenziosa, si era portati a preferire il cinema, il teatro e la

letteratura quali argomenti di discussione che dichiarassero apertamente la volontà di

15 In seguito alla morte della madre, le visite di Flaiano a Pescara si erano fatte più rare, essendo venuto

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questi artisti di non schierarsi e al tempo stesso il loro preciso intento di prendere una

posizione, seppur implicita.

L’esperienza di Flaiano in «Risorgimento liberale» terminò nel ’45, dopo che Pannunzio, ormai in rotta di collisione con il Partito Liberale, ne aveva abbandonato la direzione.

Gli anni che seguirono furono caratterizzati da grosse difficoltà economiche e saltuarie

collaborazioni giornalistiche, tra cui quella con «Il Secolo XX» sul quale tenne la rubrica

«L’occhiale indiscreto», firmata con lo pseudonimo di Pickwick.

Nell’inverno del ’46 Flaiano si traferì a Milano per partecipare alla redazione del nuovo «Omnibus» diretto da Salvato Cappelli. La testata riprendeva quella omonima fondata da

Leo Longanesi tra il ’37 e il ’39 e poi soppressa dalla censura fascista.

Fu proprio Longanesi, durante un incontro avvenuto nel dicembre del ’46, a proporre a Flaiano di scrivere un romanzo per la sua casa editrice, indicando come termine massimo

per la consegna il mese di marzo dell’anno successivo. Quando lo scrittore accennò alla sua idea di narrare una storia ambientata in un’Africa immaginaria, Longanesi rafforzò la sua proposta con l’offerta di un anticipo.

«Pensare di deludere Longanesi mi era abbastanza insopportabile perché la sua fiducia

serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto […] così cominciai a scrivere e i primi di marzo gli mandai un manoscritto che stampò». Così racconterà Flaiano sul

«Mondo» nel 1957, in occasione della morte dell’editore milanese a cui era molto legato. Il romanzo rappresentò l’occasione per parlare della guerra d’Etiopia ed esternare tutto il dolore che la sua esperienza personale gli aveva procurato; dolore accresciuto dal senso

di vuoto angosciante e incertezza esistenziale, subentrati in seguito alla scoperta della

malattia della figlia. Le ultime vicissitudini della vita di Flaiano sembravano allo scrittore

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condotto alla consapevolezza dell’indecifrabilità degli eventi e alla sfiducia verso l’azione umana.

Nell’aprile del ’47 uscì Tempo di uccidere, il primo e unico romanzo dello scrittore pescarese.

Nel luglio di quello stesso anno Longanesi lo candidò alla prima edizione del Premio

Strega, con lo scopo di lanciare un chiaro segnale di sfida nei confronti della narrativa

neorealista imperante; Flaiano, che ottenne un’inaspettata vittoria, venne etichettato suo malgrado come il rappresentante di una destra liberale, artistica e letteraria, da quanti

appartenevano ad un’area politica diversa da quella del suo editore.

È interessante ritrovare, nelle pagine di cronaca del Premio Strega, la descrizione del

disappunto e dell’imbarazzo con cui Flaiano accettò la somma di denaro assegnatagli,

mettendo in evidenza il suo deciso rifiuto per il successo e la popolarità:

Anche quando la giuria annunciò la sua netta vittoria e dovette recarsi sul podio e Maria Bellonci lo abbracciò e gli consegnò l’assegno di 200.000 lire dell’industriale Alberti, Flaiano era turbato. Un amico gli gridò dalla folla: «Ennio, dicci qualche cosa». Un cronista altissimo della RAI gli mise sotto il mento, quasi fosse una pistola, il microfono. Cercò di trovare una battuta spiritosa, ma annaspò come un passero nella stoppia. Disse qualche cosa, nessuno capì, tutti risero lo stesso. Alla fine per trarsi d’impaccio, agitò più volte l’assegno, mostrò la lingua e un pugno chiuso, come per dire: «Ve l’ho fatta!». Ma quando scese dal podio, acquistò presto la sua disinvoltura. Osservò l’assegno della Banca Nazionale del Lavoro, disse: «È strano, credevo che per me lo avessero fatto all’Istituto Nazionale dell’Ozio16».

Ancora più illuminanti le parole con cui lui stesso ricorda quei momenti:

La mortificazione del successo – e la certezza di non esservi tagliato – le provai durante la pubblica premiazione, in un albergo romano, del mio primo e ultimo romanzo: «Tempo di

uccidere». Era una notte d’estate del ’47, subito dopo la premiazione, gli amici e gli invitati […]

iniziarono le danze e io cercavo di capire che cosa mi angustiava tanto. Forse la sensazione che ogni successo, in fondo, è un malinteso. Ricevevo un premio ambito per un romanzo che ora trovavo tutto da riscrivere. […] Avevo in tasca un assegno (duecentomila lire) e la certezza che non mi appartenesse. Il guaio era che non serviva assolutamente. Mi è rimasto da allora il sospetto sull’estrema inutilità dei premi letterari, che non sono riuscito a dissipare. […] Se tento di capirci di più, penso che la nostra epoca è caratterizzata proprio dal Successo. Invidio sinceramente chi lo cerca e soprattutto coloro che, avendolo ottenuto, non rinunciano a niente pur di alimentarlo.

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Li invidio perché la loro giusta preoccupazione è il segno di un profondo amore per il loro pubblico, oltre che per sé stessi. Due amori che non riesco a nutrire17.

Gli anni Cinquanta rappresentarono per Flaiano la stagione giornalistica più produttiva

grazie alla collaborazione con «Il Mondo», il settimanale fondato nel ’49 da Gianni Mazzocchi e diretto da Mario Pannunzio. Con questo periodico si intendeva delineare

un’ideologia alternativa a quella comunista e democristiana, focalizzandosi sul pensiero laico di una divulgazione che fosse intesa come servizio civile di cultura, moralità e stile.

Il giornale poteva avvalersi del prestigio dei suoi collaboratori, fra i quali Alfredo Mezio,

Maccari, Brancati, Sandro De Feo, Amerigo Bartoli. Flaiano vi ricoprì il ruolo di

redattore-capo e recensore cinematografico: fino al ’51 tenne infatti la rubrica «Cinema»,

mentre dal ’54 al ’57 curò la rubrica «Diario Notturno» che si occupava di cronache, costumi e racconti. Nel ’54 uscì sulle pagine del periodico il diario Un marziano a Roma e nel ’58 il romanzo breve Una e una notte, in tre puntate. Diario notturno venne poi raccolto in volume autonomo e pubblicato nel ’56 per dare corpo alle valutazioni di Flaiano sulla società italiana del dopoguerra.

L’esperienza de «Il Mondo» si concluse nel ’66, quando Pannunzio prese atto delle pressanti difficoltà economiche e del progressivo venir meno degli scopi ideologici per i

quali era stata fondata la rivista. I maggiori collaboratori si erano allontanati dalla

redazione già da tempo, iniziando a percepire un certo divario tra le linee direttive del

giornale e i reali bisogni della società.

Per Flaiano, la rinuncia prematura al ruolo di redattore capo coincise con l’inizio del suo impegno nel mondo del cinema, avvertito come un mezzo più consono a intercettare e

interpretare le problematiche di quel periodo storico. Nella già citata intervista a Aldo

17 E.FLAIANO, Opere (1947-1972), a cura di M. Corti e A. Longoni, Milano, Bompiani, 1990, pp.

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Rosselli del ’72, ricordava tuttavia con simpatia e affetto gli anni trascorsi nella redazione del giornale:

Alla fine del ’49 iniziò “Il Mondo”, e le dirò subito che si trattava di ciò che Pannunzio chiamava uno sperimento, cioè vedere se il giornale sarebbe andato (lui non profetizzava più di un anno di vita). “Stai tranquillo Flaiano” diceva “tra un anno saremo tutti liberi, si tratta di non spaventarti”. Io, quando vidi che la cosa durava più di tre, quattro anni, me ne andai, perché avevo la precisa sensazione di rimanere tagliato fuori dalla realtà. Di quell’ambiente, comunque, ho un ricordo dolcissimo, perché – lo posso dire – era frequentato da persone di un’onestà intellettuale e morale che poi ho raramente ritrovato […]. Giornale semplice, artigianale, fatto con due redattori e una segretaria. Lo sforzo, lo snobismo di Pannunzio era di fare un giornale che respingesse l’attualità. Io dicevo che stavamo sempre facendo il numero precedente. Lì c’erano persone, ahimè, quasi tutte ormai morte – parlo di Brancati, De Feo, Libonati, tutti generosissimi. Poi Maccari, il mio più caro amico, il quale veniva in redazione e faceva in una giornata cento disegni […]. Tornando a Pannunzio, comunque, era un grande direttore; non scrisse mai nulla, ma si può dire che tutto ciò che uscì fu suggerito da lui. Poi, a poco a poco, fuori dal giornale, cominciò la mia collaborazione con Fellini, nasceva il realismo, mentre “Il Mondo” era ancora neo-surrealista18.

La decisiva svolta di Flaiano verso la produzione cinematografica non gli impedì tuttavia

di proseguire nella sua attività giornalistica; nel ’56 iniziò una collaborazione con il «Corriere della Sera» per cui tenne la rubrica «Taccuino notturno», una serie di narrazioni

surreali e satiriche poi raccolte nel suo ultimo libro Le ombre bianche. Dal ’62 al ’69

lavorò per «L’Europeo» come recensore teatrale e dal ’70 si occupò di articoli di costume per «L’Espresso». Continuò a scrivere fino all’ultimo periodo della sua vita, improvvisamente stroncata da un infarto il 20 novembre del 1972.

L’intenso e duraturo impegno giornalistico di Flaiano si intersecò con quello profuso nel cinema e nel teatro, lasciando emergere una continuità di idee cardine che accomunano

tutti i suoi scritti e si alimentano a vicenda.

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Flaiano sceneggiatore e soggettista ci ha lasciato ben ottantacinque testi cinematografici

tra il ’42 e il ’71. Al ’42 risale il suo primo film, Pastor Angelicus, prodotto dal Centro Cattolico Cinematografico: un esordio del tutto singolare per un intellettuale laico.

In seguito entrò ufficialmente a far parte di quella folta schiera di “letterati nel cinema” che comprendeva già Alberto Moravia, Brancati, Alvaro, Pier P. Pasolini, Giorgio

Bassani, Vasco Pratolini e molti altri. Sul rapporto tra letteratura e cinema nella sua

carriera di intellettuale, Flaiano si espresse più volte in maniera divergente e

contraddittoria: in alcune occasioni dichiarò infatti che il mondo del cinema lo aveva

inutilmente distratto dall’attività di scrittore, coinvolgendolo in un lavoro superficiale e poco gratificante; altrove invece rivalutò la sua esperienza cinematografica ritenendola

una forma di comunicazione più immediata del libro e un mezzo più efficace per

conoscere e rappresentare i meccanismi della società moderna.

Per l’elaborazione di un immaginario personale da trasporre sul grande schermo – fatto di personaggi che si destreggiano tra mille avventure e vivono di sogni e illusioni – fu

determinante l’incontro con Federico Fellini, avvenuto nel 1950 per la sceneggiatura del film Luci del varietà. La collaborazione con il grande regista riminese durò circa quindici

anni, tanto che Flaiano divenne noto presso il pubblico come “lo sceneggiatore di Fellini”

per antonomasia. La sua fama è quindi legata ai capolavori della prima stagione felliniana:

Lo sceicco bianco (1962), I vitelloni (1953), La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957), La dolce vita (1960), Boccaccio ’70 (1962), Otto e mezzo (1963), Giulietta e gli spiriti (1965).

Lo scarso interesse verso gli aspetti commerciali, la delusione per il rifiuto di alcuni suoi

progetti, il ruolo subalterno assegnato agli sceneggiatori rispetto ai registi, convinsero

Flaiano – negli ultimi anni di vita – ad allontanarsi dal mondo del cinema per riprendere

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Esiste tuttavia – come già accennato – uno stretto legame tra l’esperienza cinematografica

e quella di narratore, tra la scrittura per le immagini e quella per la lettura. Il cinema –

come disse Flaiano stesso – gli aveva insegnato ad architettare e pianificare le sue storie,

a costruire sapientemente il racconto servendosi di una meticolosa attenzione ai dettagli,

ai particolari che, caricati di forti valenze simboliche, diventano metafore e allegorie del

contesto narrato. Il linguaggio cinematografico, con la sua capacità di messa a fuoco di

singoli elementi, entra quindi nella scrittura letteraria.

Testimonianza esemplare di come Flaiano recuperasse materiali narrativi da un genere

all’altro è il romanzo breve Melampus, ricavato dalla sceneggiatura Melampo, composta tra il ’66 e il ’67. Quando Flaiano comprese che il progetto originario non sarebbe andato in porto perché troppo distante dalle esigenze commerciali imposte dal mercato, decise

ugualmente di tenere la sceneggiatura per ricavarne un romanzo, riuscendo a preservare

nella nuova forma narrativa il messaggio artistico dell’opera senza intaccarne l’efficacia.

Non si trattò purtroppo dell’unico caso di rifiuto che Flaiano dovette subire da parte dei produttori: ricordiamo anche un suo progetto su Proust mai realizzato e pubblicato

postumo solo nel 1989 con il titolo di Progetto Proust.

Altra grande passione dello scrittore fu quella per il teatro, da cui rimase folgorato in

giovanissima età durante le rappresentazioni delle tragedie dannunziane che si tenevano

a Pescara.

Nelle vesti di critico teatrale, egli compose gli interventi più significativi su «Oggi» dal

1939 al 1942 e sull’«Europeo» dal 1963 al 1967; usò spesso toni satirici, polemici e provocatori, attaccando duramente le convenzioni canoniche per riscoprire un teatro

all’insegna dell’autenticità del reale, contraddittorio e caotico come la vita stessa. L’opera postuma Lo spettatore addormentato (1983) – consistente in una raccolta di recensioni – rivendicava infatti in maniera provocatoria il diritto del critico e dello

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spettatore di addormentarsi a teatro di fronte a effetti scenici tradizionali ormai svuotati

di significato.

Sulla stessa linea di pensiero si colloca l’opera di Flaiano drammaturgo, i cui singolari

intrecci si ispirano alla verità e ai suoi insiti aspetti di angosciante irrazionalità e

incoerenza. I personaggi del teatro flaianeo sono protagonisti di storie prive di azione e

di soggetto e si reggono su lunghi dialoghi intarsiati di aforismi.

La sua prima opera, intitolata La guerra spiegata ai poveri, venne rappresentata nel ’46

al Teatro Arlecchino di Roma; in questo primo saggio del suo talento teatrale, l’autore

portò sulla scena uno spettacolo grottesco e denso di humor con il quale intendeva mettere

in discussione l’idea della guerra come strumento di libertà e affermazione della supremazia di un popolo.

Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano altre due rappresentazioni, La donna

nell’armadio (1957) e Il caso Papaleo (1960). Di ben altra natura sono invece le sue

prove più mature: Un marziano a Roma – che riscosse un clamoroso insuccesso al Teatro

Lirico di Milano nel ’60 – e La conversazione continuamente interrotta, rappresentata nel

’71. Si tratta di copioni in cui la satira pungente e il sarcasmo cedono il posto alla consapevolezza malinconica di un vuoto esistenziale causato dallo sgretolarsi dei valori

e di ogni tipo di morale; a Flaiano drammaturgo, giunto a queste drammatiche

conclusioni, non resta che mettere in scena il mondo così com’è, con la sua corruzione dilagante e la sua meschina volgarità.

Nell’ultimo decennio della sua vita, deluso dal giudizio negativo che la critica e il pubblico avevano assegnato al Marziano, Flaiano smise di scrivere per il teatro,

continuando però a occuparsene come critico su alcune riviste. Mentre si dedicava alla

pubblicazione dei suoi ultimi libri, Il gioco e il massacro e Le Ombre bianche, lavorò

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nei confronti del nuovo mezzo di comunicazione. La trasmissione più interessante da lui

realizzata fu il documentario Oceano Canada, frutto di una collaborazione con il regista

Andrea Andermann; girato tra il Quebec e il territorio dello Yukon nel ’71, fu mandato in onda sulla RAI solo dopo la scomparsa dello scrittore.

Mai adeguatamente compreso e apprezzato dalla critica mentre era in vita, il profilo

intellettuale di Flaiano è stato rivalutato soltanto dopo la sua morte, grazie alla

pubblicazione completa e in gran parte postuma di tutti i suoi scritti, lasciando emergere

il ritratto di un autore molto complesso e tutt’altro che ascrivibile alla mera letteratura umoristica, come per troppo tempo era stato ritenuto con giudizi semplicistici e riduttivi.

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2. L’

AVVENTURA COLONIALE ITALIANA IN

E

TIOPIA

:

BREVE SINTESI STORICA

Sul finire degli anni Venti, la propaganda del regime fascista iniziò a concentrarsi sulla

necessità di restituire all’Italia i gloriosi fasti del passato: l’antica civiltà romana – con la sua intraprendenza bellica, la sua strategia militare e il desiderio di espansione territoriale

– divenne il modello al quale ispirarsi. La politica mussoliniana quindi, per mezzo della sua retorica martellante e artificiosa, spinse la nazione ad aspirare al possesso di colonie

che potessero trasformare la patria in un vero e proprio Impero al pari di quelli già costituti

di Francia, Inghilterra e altre nazioni europee.

Le mire espansionistiche del Duce si rivolsero verso l’Africa Orientale, dove il Regno d’Etiopia rappresentava l’unico Stato ancora indipendente.

Ammesso alla Società delle Nazioni dal settembre 1923, l’Impero etiope era una potenza

militare riconosciuta a livello internazionale. Sebbene mai del tutto svincolata dalla

pratica della schiavitù, alla quale l’Imperatore Hailé Sellasié aveva rinunciato solo formalmente, l’Etiopia presentava una grande varietà di etnie e parlate locali: la lingua unificatrice del Regno era l’amarico, appartenente alla famiglia delle lingue semitiche, mentre la pratica religiosa più diffusa era di tipo cristiano ortodosso. Al vertice della

società si collocava il Negus Neghesti (l’Imperatore) il quale regnava con l’ausilio di

grandi feudatari e signori militari, detti Ras.

Nella regione del Corno d’Africa, l’Etiopia spartiva i suoi confini con le colonie italiane dell’Eritrea, della Somalia – conquistate durante la Guerra d’Abissinia alla fine del diciannovesimo secolo – e con la Somalia francese: il colonialismo italiano aveva dunque

già fatto il suo ingresso in quest’area del continente, ma era stato fermamente respinto dall’esercito etiope nella battaglia di Adua del febbraio 1896.

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La propaganda fascista attendeva ormai da tempo l’occasione di vendicare questa bruciante sconfitta.

Nel 1930 il Duce diede l’ordine di costruire un forte all’altezza di Ual Ual, un’oasi situata nell’entroterra della regione dell’Ogaden. Quest’ultima venne attaccata nel dicembre 1934 da un esercito di millecinquecento soldati abissini, che provocarono la morte di

quasi un centinaio tra i soldati italiani che presidiavano la postazione. L’offensiva etiope divenne inevitabilmente la causa scatenante del conflitto, già preannunciato nel novembre

di quello stesso anno dall’attacco al consolato italiano di Gondar. I rapporti italo-etiopi erano irrimediabilmente compromessi.

Tra il 4 e il 7 gennaio 1935 Mussolini incontrò a Roma il ministro degli esteri francese

Pierre Laval, col quale vennero firmati accordi per ridefinire i confini delle rispettive

colonie africane. Da questi trattati emerse soprattutto un certo disinteresse da parte dei

francesi riguardo a una eventuale penetrazione italiana in Etiopia. Il governo fascista

interpretò questo atteggiamento come una sorta di tacito consenso nei confronti

dell’invasione che ormai stava preparando. Laval aveva sperato in questo modo di avvicinare Mussolini alla Francia in vista di un’alleanza anti-nazista.

Il 19 gennaio la Società delle Nazioni, alla quale Hailé Selassié si era rivolto per risolvere

il contenzioso con l’Italia, decretò che l’incidente di Ual Ual dovesse essere trattato dalle due parti interessate. L’Etiopia sperò allora in un appoggio da parte dell’Impero giapponese, nazione presa a modello da molti intellettuali ad Addis Abeba.

L’ambasciatore nipponico a Roma, tuttavia, dichiarò che in caso di conflitto il suo governo si sarebbe manutenuto neutrale, ritenendo più conveniente non intaccare i

rapporti con l’Italia piuttosto che allearsi con uno stato con il quale non aveva particolari affinità.

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Ormai sicuro di non rischiare un conflitto internazionale, il 2 ottobre Mussolini annunciò

al popolo italiano l’inizio della guerra contro l’Etiopia. Dal balcone di Palazzo Venezia, dove il Duce era solito fare i suoi proclami alla folla, il discorso risuonò di toni

minacciosi, rievocando i temi – cari alla retorica fascista – della vittoria mutilata, dei

sacrifici compiuti dagli italiani durante la Grande Guerra e mai adeguatamente

ricompensati da Francia e Inghilterra, il desiderio di riscattare la sconfitta di Adua del

1896.

Per la spedizione africana furono arruolati circa un milione di uomini, impiegando tutte

le forze nazionali: venne chiamata in servizio in anticipo la classe 1914, trattenuta oltre il

termine previsto quella del 1913 e riconvocata quella del 1911, insieme a una folta schiera

di tecnici e specializzati del 1907-1912. All’inizio del ’36 venne anticipata anche la

chiamata della classe 1915. A questi soldati di leva bisogna inoltre aggiungere circa

dodicimila volontari e sessantamila ascari eritrei, soldati mercenari al servizio del Regno

d’Italia. Fondamentale si rivelò l’apporto dell’aeronautica, con i suoi centoventisei velivoli suddivisi tra caccia e bombardieri19.

Molto meno consistenti erano i numeri dell’esercito etiope, formato da circa trecentomila uomini – dei quali solo un quarto possedeva un equipaggiamento moderno e un’adeguata

preparazione militare – un migliaio di mitragliatrici, duecento pezzi d’artiglieria, qualche

decina di cannoncini antiaerei, qualche carro armato e un’aviazione quasi inesistente20.

Il 3 ottobre 1935 il maresciallo Emilio De Bono, al comando di centomila soldati italiani

e di un consistente numero di ascari, iniziò ad avanzare dalle basi in Eritrea: la marcia fu

facilitata dall’alleanza con il nipote del Negus, Hailé Sellasié Gugsà, che, passando dalla parte degli italiani, permise a De Bono di avanzare nella regione del Tigrè per diversi

19 A.DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale, vol. II, La conquista dell’impero, Bari, Biblioteca

Universale Laterza, 1986, p. 303

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chilometri senza incontrare particolari difficoltà. Appena tre giorni dopo, il 6 ottobre, tre

corpi d’armata italiani occupavano Adua.

Il 15 ottobre venne conquistata Axum, la capitale religiosa d’Etiopia. È interessante notare che uno dei primi provvedimenti attuati da De Bono sul territorio abissino fu la

soppressione della schiavitù (14 ottobre).

Il 3 novembre l’esercito italiano riprese la marcia verso Macallè raggiungendo l’obiettivo sei giorni più tardi.

Contemporaneamente all’offensiva iniziata a nord, un contingente comandato dal generale Rodolfo Graziani avanzava sul fronte sud dalla Somalia italiana e in una ventina

di giorni occupò i presidi etiopi di Dolo, Ualaddaie, Bur Dodi e Dagnarei. Nonostante le

deboli resistenze incontrate in questo settore, in occasione di uno scontro con Ras Destà

l’esercito italiano non si fece scrupoli a usare per la prima volta gas asfissianti.

Con l’attacco militare all’Etiopia, paese membro della Società delle Nazioni, l’Italia aveva violato l’articolo XVI dell’organizzazione medesima e venne pertanto penalizzata con sanzioni economiche, approvate dalla maggioranza dei paesi. La storiografia

filofascista ha fatto notare come queste sanzioni non fossero state applicate quando il

Giappone invase la Manciuria nel ’33 e nemmeno quando la Germania tentò di annettere

l’Austria nel ’34, a sostegno della tesi secondo cui la Società delle Nazioni era strettamente manovrata da Francia e Regno Unito. Questa convinzione era tuttavia errata,

dal momento che la Germania era uscita dall’organizzazione nel ’33 e il Giappone nel

’32, sottraendosi così alla giurisdizione di tale organo.

Le sanzioni contro l’Italia si rivelarono inoltre inefficaci e colpirono il paese solo marginalmente: infatti molte nazioni, pur avendole votate, continuarono a mantenere

buoni rapporti con lo stato fascista. La Spagna e la Jugoslavia, per esempio, si affrettarono

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diverse clausole decise dalla Società; anche la Germania diede il suo contributo con un

primo avvicinamento alle politiche di Mussolini.

Molti paesi continuarono a rifornire l’Italia di materie prime, sebbene le sanzioni non riguardassero quelle di vitale importanza come il petrolio. Francia e Inghilterra ritenevano

infatti che la fornitura di quest’ultimo poteva essere facilmente ottenuta dagli Stati Uniti, i quali non facevano parte della Società delle Nazioni e non erano disposti a rispettare

misure disciplinari votate paradossalmente dai due più grandi imperi coloniali del mondo.

Le sanzioni entrarono in vigore dal 18 novembre del ’35. Esattamente un mese dopo, il 18 dicembre, fu proclamata in Italia la Giornata della fede, giorno in cui gli italiani furono

obbligati a donare il proprio oro (soprattutto le fedi nuziali) per sostenere i costi della

guerra.

Il 28 novembre il comandante De Bono venne congedato dal proprio incarico perché

ritenuto dal Duce troppo cauto nell’avanzata. A sostituirlo fu il generale Pietro Badoglio, che pose il suo quartier generale a Macallè.

Nella notte tra il 14 e il 15 dicembre si svolse la così detta «controffensiva etiope di

Natale»: le truppe di Ras Immirù, attraversato il fiume Tacazzè, attaccarono il manipolo

comandato dal maggiore Criniti. Il reparto italiano fu costretto alla ritirata e le forze

abissine rioccuparono lo Scirè21. Contemporaneamente Ras Sejun e Ras Cassa

attaccarono il Tembien22, costringendo gli italiani a ritirarsi sulle fortezze di Passo Uarieu.

Per rispondere agli attacchi del nemico, il 20 gennaio 1936 Badoglio passò all’offensiva,

dando inizio allo scontro passato alla storia come «Prima battaglia del Tembien». In un

primo momento l’esercito italiano riuscì a riguadagnare alcune importanti posizioni strategiche, ma in seguito gli abissini passarono al contrattacco isolando e annientando la

21 Cfr. Ivi, p. 477. Lo Scirè è situato nell’area occidentale del Tigrè. 22 Settore meridionale del Tigrè.

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colonna guidata dal console Filippo Diamanti. I pochi sopravvissuti furono salvati dal XII

battaglione ascari e condotti presso Passo Uarieu, dove le milizie etiopi li circondarono

in uno stretto assedio. Dopo tre giorni di accerchiamento, il 24 gennaio la colonna del

generale Vaccarisi giunse a disperdere le forze nemiche e a liberare gli assediati, fugando

il pericolo di una potenziale sconfitta definitiva dell’esercito italiano.

Durante questa battaglia venne fatto largo uso dell’aviazione per lanciare bombe e iprite

(gas tossico vescicante) sulle truppe etiopiche.

Il 10 febbraio Badoglio mosse i suoi soldati verso il massiccio dell’Amba Aradam – nella provincia tigrina dell’Endertà – dove si svolse un’altra significativa tappa bellica. L’armata di Ras Mulughietà, che risiedeva sul monte, rispose all’attacco ma venne travolta dalle superiori forze messe in campo dall’esercito regio. Il 15 febbraio le truppe abissine si ritirarono sotto i bombardamenti dell’aviazione italiana.

Il 27 febbraio ebbe luogo la «Seconda battaglia del Tembien»: gli italiani si scontrarono

con l’armata di Ras Cassa accampata in quella regione, riuscendo a conquistare la vetta dell’Amba Uork grazie al massiccio impiego di iprite. Lo stesso Ras Cassa sfuggì per poco alla cattura. L’armata di Ras Sejum, invece, stanziata poco più avanti, venne annientata con l’uso di bombe a gas sganciate dagli aerei.

A fine febbraio, nella «battaglia dello Scirè», l’esercito italiano si scontrò con le truppe di Ras Immirù che, coi suoi trentamila uomini, si era accampato in quell’area. Inizialmente gli abissini riuscirono a contrattaccare validamente ma in seguito dovettero

ritirarsi verso il Tacazzè, incalzati dalle forze nemiche. Mentre cercavano di guadare il

fiume, vennero sorpresi dall’aviazione italiana e furono sterminati. Ras Immirù, coi pochi fedeli superstiti, cercò rifugio sulle montagne. Al termine della battaglia, gli italiani

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Dopo la sconfitta di Ras Immirù, il Negus decise di intervenire e radunò la propria guardia

imperiale per muoversi verso nord. Nel frattempo, le truppe italo-eritree erano giunte

nella conca di Mai Ceu, dove avevano iniziato a fortificare i propri avamposti. All’alba

del 31 marzo furono raggiunte da Hailé Selassié che diede inizio allo scontro23. La guardia

imperiale riuscì a conquistare diverse posizioni difese dal Corpo d’armata indigeno che tuttavia passò presto al contrattacco. Gli ascari eritrei combatterono duramente per

riappropriarsi delle loro posizioni e costringere gli abissini alla ritirata. La battaglia

terminò con gravi perdite per entrambi gli schieramenti24.

Il giorno seguente l’Imperatore ordinò la ritirata verso Dessiè, ma lungo il tragitto le sue truppe furono decimate dalla popolazione locale in rivolta. Presso Lalibela furono

addirittura attaccate dagli Azebo-Galla, una particolare etnia etiope, in cui la propaganda

italiana era ormai radicata da anni. Il 15 aprile l’esercito italiano occupò Dessiè.

Sul fronte sud, mentre nel Tigrè si combatteva la prima battaglia del Tembien, le truppe

di Ras Destà mossero verso Dolo per attaccare l’armata di Rodolfo Graziani. Il generale, informato dell’arrivo delle forze abissine, le attese pronto alla battaglia; dopo aver scatenato le armi dell’aviazione sulle colonne etiopi in marcia, le disperse definitivamente con un’ulteriore offensiva e il 20 gennaio del ’36 occupò la città di Neghelli. Sconfitto Ras Destà, contro Graziani fu inviato Wehib Pasha, un generale turco al servizio del

Negus. Wehib cercò di spingere più possibile l’esercito italiano nel deserto dell’Ogaden, ma durante quest’operazione i reparti del generale inflissero agli abissini perdite talmente gravi da comprometterne drasticamente l’esito.

Il 15 aprile Graziani avanzò decisamente verso le cittadine di Harar e Dire Daua, sebbene

la sua marcia fosse rallentata dalle condizioni metereologiche avverse e dalla resistenza

23 Cfr. Ivi, pp. 625 e ss. 24 Cfr. Ivi, pp. 628 e ss.

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opposta dal nemico. Tuttavia, l’8 maggio le colonne italiane riuscirono a fare il loro ingresso ad Harar; in questa occasione, il generale ricevette il titolo onorifico di

Maresciallo d’Italia. Il giorno seguente Graziani occupò anche Dire Daua, arrivando poche ore dopo il passaggio dell’Imperatore in viaggio verso l’esilio. Il generale chiese più volte il permesso di bombardare i binari per intercettare il treno su cui viaggiava il

Negus e farlo prigioniero. Il permesso gli fu tuttavia negato dal Duce in persona.

Elemento comune a tutte queste battaglie fu l’impiego massiccio di armi chimiche, una

pratica atroce che fu sostenuta dal governo italiano durante i preparativi delle prime fasi

belliche. Nelle direttive che Mussolini rivolse al generale Badoglio nel dicembre del ’34 era già previsto infatti in modo esplicito l’uso di gas. In seguito fu lo stesso Badoglio, a

partire dal dicembre del ’35, a decidere di impiegare in larga misura gli agenti chimici, trovandosi a combattere quasi contemporaneamente su più fronti (Scirè, Tembien,

Endertà). Vittime di questa letale strategia non furono solo le truppe nemiche, ma anche

interi villaggi, pascoli, mandrie, fiumi e laghi, colpiti per seminare il panico e scoraggiare

qualsiasi azione contro l’esercito italiano. Ai primi di gennaio del ’36 Badoglio comunicò orgogliosamente al Duce gli effetti devastanti che i gas stavano provocando agli

schieramenti nemici. Mussolini a più riprese approvò questo comportamento, da quando

scrisse dando l’ordine di «impiegare tutti i mezzi di guerra – dico tutti – sia dall’alto come da terra» a quando ribadì la sua autorizzazione «all’impiego di gas di qualunque specie e su qualunque scala25».

Il 12 maggio 1936 l’Imperatore d’Etiopia denunciò questa pratica di fronte alla Società delle Nazioni, con un lungo discorso rivolto alle coscienze di tutti; un sentito appello

destinato – purtroppo – a rimanere inascoltato.

Questi alcuni dei passi più significativi:

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«[…] Prego Iddio onnipotente di risparmiare alle nazioni le terribili sofferenze che sono state inflitte negli ultimi tempi al mio popolo e delle quali i capi che sono qui al mio seguito sono stati inorriditi testimoni. È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia, descrivendo il destino che ha colpito l'Etiopia.

Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti: esso ha attaccato

soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle. […] Sugli aeroplani vennero installati degli irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine

e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo. Fu così che, dalla fine del gennaio 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di avvelenare le acque ed i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra. […]

A parte il Regno di Dio, non c'è sulla terra nazione che sia superiore alle altre. Se un governo forte acquista consapevolezza che esso può distruggere impunemente un popolo debole, quest'ultimo ha il diritto in quel momento di appellarsi alla Lega delle Nazioni per ottenere il giudizio in piena libertà.

Dio e la storia ricorderanno il vostro giudizio26. […]»

Sul fronte meridionale Graziani, fin dal 15 dicembre 1935, comunicò al Ministro delle

Colonie Alessandro Lessona la necessità di sfruttare ogni tipo di arma contro le “orde

barbare” di Ras Destà. Il giorno seguente Mussolini rese nota la sua autorizzazione e il generale diede inizio a una serie di bombardamenti di gas asfissianti sulla città di Neghelli

e sulle truppe abissine. Il 30 dicembre fu colpita anche la zona di Gogorù, dove si trovava

un vecchio ospedale da campo svedese con i contrassegni della Croce Rossa: il bilancio

di questa tragedia fu di 29 morti, di cui 28 ricoverati e un medico27. La notizia fece il giro

del mondo e il governo fascista, per giustificare i crimini di guerra commessi, dovette

tirare in ballo l’uccisione di due aviatori – Tito Minniti e Livio Zannoni – catturati, uccisi e mutilati da un gruppo di nomadi. Il primo gennaio 1936 il Ministro Lessona approvò le

azioni di Graziani e parlò di «azione rappresaglia per infamia commessa contro nostro

26 Il testo integrale è reperibile su www.polyarchy.org 27 Cfr. Ivi, pp.504-505

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