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4. T EMPO DI UCCIDERE : ANALISI DEL ROMANZO

4.5 L’impresa coloniale di un inetto

4.5.7 La malattia

Il terzo motivo che concorre a sviluppare il tema dell’inettitudine è quello della malattia. All’inizio del romanzo il protagonista è angustiato da un forte mal di denti, che lo ha indotto a chiedere quattro giorni di permesso dal campo per andare alla ricerca di un

dentista. Le circostanze da cui prende avvio la narrazione – il rovesciamento

dell’autocarro – pongono fin da subito il tenente in uno stato di angoscia e impazienza, che vanno di pari passo con il comparire dei sintomi legati al suo malessere:

Da quando il camion si era rovesciato, proprio alla curva della prima discesa, il dente aveva ripreso a dolermi, e ora un impulso che sentivo irresistibile (forse l’impazienza della nevralgia) mi spingeva a lasciare quel luogo. (p. 1)

In seguito all’omicidio di Mariam, quando l’ufficiale si ritrova in una tenda del comando di tappa ad A. insieme al sottotenente, il mal di denti si intensifica fino a diventare

insostenibile: «La nausea mi faceva groppo alla gola e il dente cominciava a dolermi.

Erano fitte improvvise che incendiavano il cervello.» (p. 52). È possibile che tali

manifestazioni di dolore scaturiscano, anche in questo caso, da un particolare stato

d’animo del protagonista, ancora turbato per il delitto commesso, per la rapida sequenza di eventi che lo aveva travolto e per i forti sensi di colpa che lo affliggono. Insieme al

sottotenente si reca dall’ufficiale medico e ottiene una pastiglia di antidolorifico grazie alla quale riceve un po’ di sollievo. Una volta giunto all’Asmara il soldato riesce finalmente a trovare un dentista e a farsi cavare il dente malato, dopo aver rimandato a

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Ma il motivo della malattia, di cui forse il mal di denti rappresentava solo una semplice

anticipazione, è destinato a riproporsi nel romanzo con toni ben più tragici, a partire da

quando il tenente scopre che Mariam potrebbe essere stata affetta da lebbra ed averlo

contagiato.

Chiarire se il sospetto del protagonista corrisponda a verità o meno è impossibile. La

narrazione infatti ci depista continuamente; se da una parte la descrizione dei sintomi, il

comportamento del dottore e le immagini di un libro che tratta delle manifestazioni della

lebbra sembrano confermare la presenza della patologia, dall’altra l’incubo della malattia

può essere interpretato anche come prodotto dell’autosuggestione dell’ufficiale e il dottore potrebbe essere stato frainteso, data l’assenza di una sua denuncia. Né da Elias o da Johannes il protagonista riuscirà mai ad avere conferme o smentite circa lo stato di

salute di Mariam.

La questione è volutamente trattata con ambiguità dal narratore fino alla fine del romanzo,

dove neanche la disquisizione finale col sottotenente sui “punti oscuri” della storia riesce a dare delle risposte adeguate. La soluzione del dilemma infatti si sarebbe potuta avere

soltanto dopo dieci anni, tale è il periodo di latenza della malattia.

Come nota ancora Lucilla Sergiacomo, una possibile chiave interpretativa ci viene

tuttavia fornita da una spia testuale, un aforisma che si ripete in maniera quasi identica

all’inizio e alla fine del romanzo. All’inizio della storia il tenente segue la scorciatoia indicatagli dall’operaio del cantiere e commenta così: «sapevo che le scorciatoie si accettano, non si discutono». (p. 11). Nel capitolo conclusivo, intitolato Punti oscuri, il

sottotenente dice al protagonista: «le piaghe non si discutono, ma si accettano» (p. 250).

Se le piaghe, così come le scorciatoie, si accettano e non si discutono, esse forse si

equivalgono sul piano simbolico. Di conseguenza, conclude la Sergiacomo, «Flaiano

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mali morali e psichici sul piano fisico, un’autoespiazione inconscia del delitto commesso, che utilizza il corpo per punire.73».

Si potrebbe aggiungere che questa ipotesi trova conferma anche nei quaranta giorni di

espiazione e isolamento trascorsi dal protagonista nel villaggio di Johannes. La

simbologia del numero quaranta, oltre a rievocare una dimensione religiosa di tipo

penitenziale, ha anche una valenza storica che rimanda pratica della quarantena, un

periodo di isolamento di quaranta giorni cui venivano sottoposti i malati per evitare il

contagio. Un dato, questo, che potrebbe confermare la sovrapposizione tra peccato e

malattia in questo romanzo.

Inettitudine e malattia si presentano di frequente in maniera congiunta nella narrativa del

Novecento, dove la malattia tipica dell’inetto è la nevrosi, un nucleo concettuale nel quale potremmo comprendere la senilità di Svevo, la nausea di Sartre, l’indifferenza e la noia di Moravia, la follia di Pirandello e l’abulia a occhi chiusi di Tozzi. Flaiano aggiunge tuttavia qualcosa in più: nel suo romanzo, perché il corpo venga utilizzato come transfert

dell’espiazione per mezzo di un processo evidente e convincente, la malattia deve essere terribile, ripugnante. Deve in altre parole avvenire una vera e propria deformazione fisica

nella quale possa rispecchiarsi, attraverso un processo metaforico, la deformazione dello

spirito causata dalla colpa commessa74.

Un’ulteriore conferma si trova nelle ultime pagine di Tempo di uccidere, allorché il protagonista sembra aver acquisito maggiore autoconsapevolezza ed essersi come

scoperto per la prima volta grazie all’uccisione di Mariam, delitto che adesso gli appare

necessario. Egli lo paragona a «una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre

73 L.SERGIACOMO, cit., p. 51

74 In Tempo di uccidere si verifica così una straordinaria coincidenza con quanto narra Camus nel romanzo

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rivelandomi a me stesso»; in altre parole, il senso di colpa, interiorizzato, lo

accompagnerà per tutta la vita logorandolo come un terribile morbo.

Così Flaiano, nel 1950, scriveva al regista Jules Dessin, interessato a girare un film sul

romanzo ma ancora incerto su come risolvere la questione della resa del finale (the

dramatization of the ending75):

Nel mio libro la conclusione drammatica è questa: il protagonista, alla fine, ha di nuovo il sospetto di non essere guarito. Forse non si tratta più della lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo non sia soltanto drammatico, ma addirittura tragico.