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Anticolonialismo come conflittualità della coscienza in Tempo di uccidere

5. T EMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI

5.2 Anticolonialismo come conflittualità della coscienza in Tempo di uccidere

All’interno del romanzo non si trova alcuna esplicita presa di posizione dell’io narrante contro l’imperialismo, di cui il personaggio principale sembra anzi condividere la mentalità prevaricatrice ed etnocentrica. Tuttavia il lettore non può certamente fare a

meno di notare che la coscienza dell’ufficiale è un vero e proprio campo di battaglia, uno spazio tormentato dove si manifestano le più profonde contraddizioni di un sentire che

non sempre coincide con quanto sarebbe stato socialmente e istituzionalmente accettato

in un contesto coloniale come quello in cui è inserito il racconto. La scissione interiore

del protagonista, come ha dimostrato anche Emanuela Piga96, può essere spiegata

attraverso il ricorso ad alcune categorie della psicanalisi che sono state riadattate da

Francesco Orlando allo studio della letteratura. Orlando infatti, nel suo studio fondativo

sulla Phèdre di Racine (1971), recupera il concetto freudiano di “ritorno del rimosso” e

lo trasforma nella nuova formula “ritorno del represso”, per indicare il riemergere di un

95 Ivi, p. 101.

96 E. PIGA, Dalla storia alla letteratura: il ritorno del sommerso nel campo di battaglia del testo letterario,

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contenuto psichico nelle manifestazioni linguistiche dell’individuo97. La differenza tra il

freudiano «rimosso» e il concetto orlandiano di «represso» vede nel primo un elemento

inconscio perché completamente occultato dal meccanismo della negazione, nel secondo

invece un elemento «conscio ma non accettato» dal soggetto, che continua a respingerlo

attraverso le resistenze della coscienza, creando una situazione di forte conflittualità

interna. Di conseguenza: «Finché il represso sta confinato nell’inconscio, la

contraddizione è fra inconscio e coscienza (situazione A); penetrata la coscienza, è

all’interno della coscienza scissa di un soggetto (situazione B)98».

Dalla dimensione individuale questi concetti possono poi essere facilmente trasposti su

un piano sociale e ideologico. Citando ancora Orlando:

Con repressione e represso si potrà indicare anche soltanto il divieto da cui certi contenuti sono ufficialmente colpiti in una società, che questo comporti o no, per la gente, esclusione dal livello della coscienza o da quello della parola o magari solo da quello della parola decente99.

Questi contenuti possono trovare un canale di espressione nella comunicazione verbale

«cosciente, volontaria e socialmente istituzionale100», quali secondo Orlando sono la

letteratura e il motto di spirito. La scrittura letteraria diventa quindi «un ritorno del

represso reso fruibile per una pluralità sociale di uomini, ma reso innocuo dalla

sublimazione e dalla finzione101».

Tornando a Tempo di uccidere, osserviamo che nella confusa coscienza del protagonista

persistono l’affermazione e la condivisione di alcuni stereotipi del mondo coloniale, del tutto coerenti – a ben vedere – con il ruolo ricoperto dal personaggio. Secondo lo schema

97 F.ORLANDO, Lettura freudiana della «Phèdre», in F.ORLANDO, Due letture freudiane: «Fedra» e «Il

Misantropo», Torino, Einaudi, 1990, p. 23

98F.ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1987, p. 81

99F.ORLANDO, Lettura freudiana della «Phèdre», in F.ORLANDO, Due letture freudiane: «Fedra» e «Il

Misantropo», Torino, Einaudi, 1990, p. 23

100 F. ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, cit., p. 8

101 F. ORLANDO, Lettura freudiana della «Phèdre», in F.ORLANDO, Due letture freudiane: «Fedra» e «Il

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interpretativo offerto da Orlando, ciò potrebbe rappresentare l’elemento negatore conforme all’ordine costituito, lo schermo di repressione che rende il tenente – almeno nelle intenzioni – un deciso sostenitore del colonialismo italiano. Ma accanto a queste

convinzioni, sempre più si fa strada il sospetto dell’atrocità della missione imperialista

cui l’ufficiale ha preso parte, unito al senso di colpa per l’omicidio di Mariam, simbolo

di un’alterità violata e soppressa per soddisfare il proprio bisogno di dominio culturale e,

prima ancora, di prevaricazione sessuale. Tutto questo coinciderebbe con il represso, con

l’idea inconfessabile, con l’elemento perturbante (Unheimlich, per usare un’altra categoria freudiana) che scuote la coscienza dell’individuo europeo.

Nel romanzo di Flaiano quindi il protagonista, in seguito all’omicidio commesso, passa

da una situazione che Orlando avrebbe definito di tipo A a una situazione di tipo B,

allorché la sua coscienza – come osserva giustamente la Piga – inizia a essere travagliata

e indebolita dagli eventi, fino a trasformarsi in un vero e proprio campo di battaglia. Ne

consegue che definire con precisione il punto di vista dell’io narrante in Tempo di

uccidere è una questione molto controversa per l’ambiguità delle posizioni ricoperte;

tuttavia adesso dovrebbe apparire chiaro che il messaggio represso non avrebbe mai

potuto essere accolto nell’opera letteraria senza un modello formale capace di filtrarla. Se l’io narrante afferma negando, è dunque tra gli scarti della sua psiche che dobbiamo cogliere la presenza di una critica alle ragioni del colonialismo.

Partendo da questi presupposti, possiamo pienamente condividere il pensiero di quanti

inseriscono Flaiano nel solco della produzione di Kipling e Conrad, scrittori che hanno

manifestato il loro dissenso verso l’imperialismo inglese rimanendo all’interno di quello stesso sistema. Ed è per questo che l’anticolonialismo di Flaiano – come ha notato anche

Roberta Orlandini102 – può definirsi soltanto parziale, nella misura in cui non si distacca

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mai in toto da una rappresentazione eurocentrica del mondo africano. Secondo la

Orlandini, la condanna dell’imperialismo nel romanzo è affidata a una separazione

strategica tra la voce del narratore e quella del protagonista, un espediente retorico che

permette a Flaiano di creare tra questi due “io” una finestra di dialogo o, più spesso, uno spazio di conflittualità. La studiosa infatti vede nella voce che racconta a posteriori la

vicenda un atteggiamento di distacco e derisione verso la superficialità e la cecità del

protagonista, ogni volta che questi si dimostra incapace di comprendere la diversità

culturale degli abissini. Facendo ironia sull’ufficiale, il narratore, afferma ancora la

Orlandini, manifesterebbe indirettamente una certa apertura e una certa curiosità verso il

mondo dei colonizzati. Ecco un passo esemplificativo:

Forse, come tutti i soldati conquistatori di questo mondo, presumevo di conoscere la psicologia dei conquistati. Mi sentivo troppo diverso da loro, per ammettere che avessero altri pensieri oltre quelli suggeriti dalla più elementare natura. Forse reputavo quegli esseri troppo semplici. (p. 22- 23)

L’atavico senso di superiorità del tenente lo induce alla presunzione di conoscere già la mente dei conquistati, che egli considera elementare quanto quella delle bestie103. Ma il

narratore, commentando il punto di vista dell’ufficiale, ne prende nettamente le distanze

e mette in dubbio le sue incrollabili certezze.

Il senso di superiorità culturale porta il tenente a disprezzare anche la lingua degli abissini,

basata su un lessico povero e molto semplice:

Perché non capivo quella gente? Erano tristi animali, invecchiati in una terra senza uscita, erano grandi camminatori, grandi conoscitori di scorciatoie, forse saggi, ma antichi e incolti. Nessuno di loro si faceva la barba ascoltando le prime notizie, né le loro colazioni erano rese più eccitanti dai fogli ancora freschi di inchiostro. Potevano vivere conoscendo soltanto cento parole. Da una parte il Bello e il Buono, dall’altra il Brutto e il Cattivo. Avevano dimenticato tutto delle loro epoche splendide e soltanto una fede superstiziosa dava alle loro anime ormai elementari la forza di resistere in un mondo pieno di sorprese. (p. 23)

1992, pp. 478-488

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Il tradizionale accostamento degli indigeni al regno animale è qui misto a quel senso di

tristezza e invecchiamento che sempre accompagna la descrizione dei vinti: gli abissini

sono un popolo antico con un passato splendido ma ormai dimenticato e irrecuperabile.

La loro saggezza viene sminuita perché non ha niente a che vedere con il progresso

occidentale di chi può farsi la barba ascoltando le notizie alla radio, o accompagnare la

colazione con la lettura di un giornale appena stampato. In queste immagini è evidente

l’ironia del narratore verso l’atteggiamento semplicistico del tenente, ma anche la radice profondamente etnocentrica di chi usa parametri autoreferenziali per giudicare lo

sviluppo di civiltà diverse dalla propria. Errore che i conquistatori hanno ripetuto fin dai

tempi di Colombo e che ha inquinato da sempre la valutazione dell’alterità da parte dell’uomo moderno.

Il ragionamento della Orlandini sembra quindi molto efficace, eppure a un certo punto

non funziona più. Anche la studiosa infatti è costretta ad ammettere che il narratore, pur

descrivendo i fatti da una prospettiva distaccata e forse più matura, non è del tutto immune

da stereotipi colonialisti e residui di eurocentrismo, soprattutto nei confronti di Mariam.

Né del resto possiamo ignorare che il senso di colpa agisca già nella psiche del

protagonista al momento del racconto. Esso si manifesta nelle continue oscillazioni del

suo pensiero, nel travaglio della sua coscienza che alterna momenti di lucidità a momenti

di offuscamento e rimozione.

C’è poi un segnale ben preciso che non va trascurato: una spia olfattiva, un fetore nauseabondo che il protagonista avverte in determinate circostanze e che rappresenta

probabilmente l’espressione di una coscienza sporca, marcia, «guasta104». Unendosi al

104 L’aggettivo «guasto» non è qui usato casualmente. Nel romanzo il termine ricorre almeno tre volte per

indicare lo smarrimento dei conquistatori italiani di fronte alla terra colonizzata, coi suoi tristi presagi di malattia e morte. Si veda questo scambio di battute tra il sottotenente e il protagonista: «“Se in una terra nasce la iena ci deve essere qualcosa di guasto.” “Sì, ci dev’essere qualcosa di guasto” ripetei» (p. 116). Ancora una volta si tratta di un rovesciamento di prospettiva derivante da una proiezione inconscia: ad

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puzzo di muli morti e carogne in disfacimento, altra costante olfattiva del romanzo, questo

«insopportabile fiato» rende inquieto l’ufficiale che pure dentro di sé sembra averne già

compreso l’origine.

Nel passo che segue, il tenente ha appena scoperto che Mariam potrebbe avergli trasmesso

la lebbra e, non riuscendo a sopportare l’idea di una fine miserabile e vergognosa, decide

di suicidarsi con un colpo di rivoltella. Inutile dire che questa risoluzione cade nel vuoto,

ma subito dopo giunge a tormentarlo il fastidioso odore:

Stavo così bocconi, immerso in quell’angoscioso stordimento, ora fissando la fiamma della candela, ora le macchie sulla tenda, quando cominciai a sentire un lieve fiato. Non era fetore, ma un quasi impercettibile fiato, che mi rammentava qualcosa, anche la stanza delle due ragazze105, soprattutto la ragazza che avevo avuto accanto. Ma questo era un fiato tanto più insopportabile perché mi sembrava inesistente, un messaggio che io solo dovessi percepire. Era un messaggio di vittoria, un fiato baldanzoso, finalmente il grido di trionfo che sale dall’abisso! Annusavo la coperta, il cuscino, ancora stordito dal dolore, ma non riuscivo a fissare l’origine di quel fiato, né tutti gli elementi che lo componevano. C’era però l’odore delle tuberose in una stanza calda. Quest’odore lo sentivo nettamente, benché a intervalli. Poi, qualcosa che ricordava il pelo dei cani randagi, dei cuccioli randagi, e anche l’incenso: ma un incenso dolciastro, antico, tenace, misto di vainiglia, che poteva essere vinto solo dall’odore fresco della terra bagnata e smossa. Aveva piovuto ed era logico che la terra fosse bagnata, ma perché smossa? Accesi una sigaretta e, benché il fumo stagnasse nella tenda, veniva subito sopraffatto da quel fiato sempre più pesante e allegro. Vi si aggiungeva, adesso, l’odore dei gigli, l’odore che sprigiona dal vaso quando si cambia l’acqua ai gigli, non così chiaro, molto più subdolo, un odore che non rammentava la purezza dei gigli, ma piuttosto il cadavere del santo dei gigli. E non c’era forse l’odore della forra, il tiepido e insopportabile odore dei cespugli secchi su quella tomba? Erano cespugli secchi, mi dissi, non potevano spandere nessun odore. E perché, a rendere ancora più nefasta la pozione, questo sospetto di cacao? Forse la piaga? L’annusai e al fiato si aggiunse la tintura di iodio, ma non era la piaga. No. Terra smossa, soprattutto, e con fiori che stanno marcendo, dimenticati là da amici pietosi, e appena umidi di nebbia. “Ah,” dissi “quest’è troppo, Mariam. (p.122)

Il tenente è preda di confuse e deliranti percezioni, ma riesce a individuare in Mariam la

vera origine di quel fiato: egli è perseguitato dal fantasma di lei, dalla vendetta postuma

che la donna avrebbe ottenuto contagiandolo con la lebbra (il «messaggio di vittoria», «il

grido di trionfo che sale dall’abisso» potrebbero appartenere all’indigena). Non dimentichiamo che:

essere «guasto» e mortifero non è infatti il territorio africano, ma il sistema imperialistico di cui i soldati sono complici.

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L’ingegnere uccide da uomo pratico che non ha tempo per verificare un fenomeno già sufficientemente controllato dall’esperienza, e senza chiedersi quali conseguenze porterà il suo atto. L’indigena uccide come uccide la sua terra, con tutto il tempo, del quale ha un concetto così sbagliato. (p. 176)

È proprio questo putrido fiato a chiudere il romanzo, segno di una condanna interiore che

il protagonista ha già inflitto a se stesso e che continuerà a perseguitarlo anche sulla strada

del ritorno, nonostante il corso della storia lo abbia lasciato impunito:

Camminavo accanto al sottotenente e di colpo sentii il suo profumo. Certo, doveva ungersi i capelli con qualche preziosa pomata. Una pomata dal profumo delicato, infantile, ma il caldo la stava inacidendo. Una pessima pomata, che il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva. (p. 255)

Risulta più difficile ancora essere d’accordo con la Orlandini sull’interpretazione in senso

evolutivo del romanzo. Secondo la studiosa, il protagonista di Tempo di uccidere

intraprende un percorso di crescita personale e di maturazione, dal quale esce

completamente trasformato. Queste le sue parole:

Nella finale ricostruzione dei fatti fra il protagonista ed il suo amico sottotenente, troviamo che il protagonista è una nuova persona: «Eccoti diventato una persona saggia, da quel giovane superficiale che eri, e solo per virtù di qualche assassinio che hai commesso senza annettergli la minima importanza. Mi congratulo.» (p. 265) […]

Ma è solo in questa maniera così discreta che Flaiano si lascia andare all’accettazione totale dell’“altro” […]106.

Sulla scorta del pensiero di Flaiano, autore notoriamente scettico e disilluso, non pare

possibile concepire per questo romanzo un finale speranzoso e ottimistico, in cui il

protagonista ha finalmente imparato il rispetto per la cultura altrui. Le parole del

sottotenente sono quindi da intendersi, con buona probabilità, in senso ironico o

addirittura sarcastico, ma non in senso letterale. Se è giusto valorizzare i segnali di un

pensiero anticolonialista come quello che impregna di sé tutto il racconto, è altrettanto

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vero che un’eccessiva enfasi su questi temi non deve far dimenticare l’ambiguità e la contraddittorietà con cui sono volutamente trattati.

Eppure, al termine della lettura del romanzo si ha la sensazione che il tenente non sia più

lo stesso dopo le tragiche – e tragicomiche – disavventure che si sono abbattute su di lui.

Non certo perché abbia tratto un insegnamento morale dalla sua storia o imparato a non

ripetere i propri errori. Forse, egli è semplicemente diventato più consapevole di sé, della

sua meschinità, dell’abiezione e dell’orrore di cui è capace: il contatto con la terra africana e i suoi abitanti lo ha finalmente «rivelato» a se stesso, come uno specchio in cui ha

potuto, per la prima volta, vedere la sua immagine e accettarla per quanto ignobile e

spregevole.