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3. A ETHIOPIA , APPUNTI PER UNA CANZONETTA

3.1 Il diario e la storia

Al di là del valore propedeutico a Tempo di uccidere, Aethiopia non fu nient’altro,

inizialmente, che quanto si proponeva di essere: una raccolta di impressioni, di frammenti

di realtà, un divertissement pungente attraverso cui Flaiano ha cercato di cogliere il senso

profondo dell’esperienza che stava vivendo.

Non bisogna però trascurare il valore storico di questo taccuino, documento diretto di

alcune tappe belliche decisive, sebbene filtrato dalla soggettività dell’autore. Flaiano non è interessato alla cronaca dei fatti ma si pone piuttosto alla perenne ricerca dell’essenza

delle cose, mettendo a fuoco dettagli o aspetti normalmente considerati del tutto

secondari. Ecco il modo alquanto bizzarro, anticonvenzionale e ironico, con cui descrive

la presa di Adua dell’ottobre del ’35:

Presa di Adua, 6 ottobre

La colonna Maravigna è frazionata in diverse colonne minori. Le salmerie sbagliano strada, entrano in Adua e non trovano traccia di italiani. Leggermente terrorizzati, ufficiali e conducenti fanno dietro-front e filano; ma ecco arrivare le truppe bandiere al vento. Disappunto tra i comandanti, le colonne per le precedenze non rispettate. Le eroiche salmerie una volta tanto si pavoneggiano. Lo stesso giorno sui giornali francesi e inglesi si leggevano i particolari degli accaniti scontri alla baionetta nella presa di Adua. (p. 260)

Il particolare delle salmerie, giunte in città prima delle truppe d’assalto, contrappone alla storiografia ufficiale una verità molto meno eroica ma sicuramente più emblematica.

Lo stesso comico equivoco si ripete nella descrizione della presa di Macallè, nel

novembre del ’35. In questo caso però, per sottolineare la componente teatrale e fittizia della propaganda, Flaiano ricorda il paradossale intervento degli operatori dell’Istituto Luce:

Presa di Macallè, 11 novembre 1935

Si ripete l’incidente di Adua. Le salmerie di un battaglione, perduto il collegamento, entrano in Macallè. I cucinieri, con quella serenità che deriva agli uomini dal perenne contatto coi cibi, per nulla spaventati, preparano il rancio. Le truppe arrivano, irrompono alla baionetta e trovano il rancio sotto pressione. Gli operatori del “Luce” che seguivano arditamente l’attacco si trovano il

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film guastato da una panoramica gastronomica. Il grave vien dopo: l’attacco vien ripetuto e gli operatori possono, allontanati i volgari cucinieri, riprendere la scena con più approssimazione bellica. (p. 263)

I grandi eventi storici vengono affrontati da Flaiano “in sordina”, diventando poco più che un pretesto per raccontare aneddoti e smascherare le contraddizioni di una guerra

inutile.

Battaglie cruciali e scontri decisivi rappresentano solo una piccola parte degli appunti

racchiusi in questo taccuino; l’attenzione dell’autore è tutta rivolta verso aspetti meno nobili e apparentemente irrilevanti, ma non per questo meno reali.

Tale atteggiamento scaturisce dal rifiuto di quella che Flaiano chiama la «retorica dei

rimasti»:

Il soldato T*** è un po’ la vittima del conflitto italo-etiopico. Richiamato dell’11, ha una moglie avvenente, una buona posizione sociale, un cuore di fanciullo incapace di far male ad alcuno. È grasso, sorridente.

Dopo tre marce faticose (disturbi emorroidali acuiti) dorme una notte all’addiaccio. La mattina lo trovo semicongelato, pallido. Ha una lettera di suo fratello in mano. Leggo (carta dell’Hotel Royal di Fiume) queste frasi: «T’invidio! Tu che vivi l’odierna epopea!». (p. 263)

La delusione per l’inganno subito cancella molto presto ogni traccia di entusiasmo e lascia il posto a un disincantato distacco. Flaiano, con un rapido quadretto inserito tra i primi

frammenti, sembra voler suggellare fin dall’inizio questo stato d’animo:

16 novembre

Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: «Porca miseria!».

Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei films Paramount denominata Oriente, che offre tanti spunti agli autori dei pezzi caratteristici per orchestrina. Invece trova una terra uguale alla sua, più ingrata anzi, priva d’interesse. L’hanno preso in giro. (p. 259- 260)

La mistificazione del patriottismo si accompagna al tema della corruzione degli ufficiali,

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Il generale De Bono – ora maresciallo d’Italia – è azionista della Sicelp. (Una società di trasporti semi-ufficiale, che ha anche costruito strade. Altissimi dividendi. C’è qualcosa che ricorda certi papi della rinascenza e la vendita della indulgenze.) (p. 260-261)

Mi avevano assicurato che ai Comandi Tappa, agli ufficiali ospiti, danno le coperte secondo il loro grado. Cosicché un capitano ha diritto a tre coperte, un tenente a due, un sottotenente ad una (rischia di morire ghiacciato). Capitato di notte ad Axum, con due lire al piantone ho sovvertito la regola ed ho avuto il trattamento di un colonnello: 7 coperte. (p. 262)

In questo alone di grigiore, risaltano coloro che non si sono piegati alle formule

precostituite, che hanno saputo mantenere intatta la loro misura umana:

Passa un’autocolonna di artiglieria. Sul primo pezzo: «Verso la Gloria».

Sul secondo: «Sempre ed ovunque» e così di seguito: «Ruggo, Rombo, Rompo», «Difendo la patria», «Indomabile», eccetera. La rettorica si è sfogata. Sull’ultimo pezzo, hanno scritto soltanto: «Ginetta». (p. 262)

Amore e sesso rappresentano un’altra costante delle vicende belliche descritte da Flaiano nel suo breve diario. Egli ammicca con ironia alle tragedie sentimentali di chi è rimasto

in patria-

«Gli uomini che mascalzoni!» Da “Novella”, 12 aprile 1936

Mimì. Spero che abbia ricevuto notizie supplementari. Dall’A.O. non è sempre possibile scrivere quando si vuole, ma soltanto quando si può. E bisogna essere indulgenti verso chi sta rischiando la propria vita e la propria giovinezza giorno per giorno, ora per ora. Comunque, prima di rinunciare definitivamente al suo sogno d’amore, chieda notizie ai superiori del suo fidanzato, così che ella possa con la coscienza tranquilla rinunciare a lui solo quando proprio è sicura che il suo silenzio rappresenti anche la fine dell’amore. (p. 274)

Vicino al cadavere di un nostro soldato, ho trovato un brano di lettera. È una ragazza che scrive di come la sua gravidanza sia ormai manifesta e sollecita il matrimonio per procura, altrimenti «è disonorata». (p. 277)

-ma avverte distintamente anche l’istinto erotico che si sprigiona nei soldati a contatto

con quella terra estranea al pudore e alle imposizioni sociali. Non vengono quindi

trascurati temi come l’uso di contraccettivi, la prostituzione dilagante, i surrogati onanistici:

La gomma nelle conquiste coloniali.

Uno dei primi radiogrammi trasmessi dal generale Starace da Gondar al Comando Superiore (Intendenza) è il seguente:

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«Data l’impossibilità di frenare il meretricio, chiedo l’invio a mezzo aereo numero diecimila preservativi e cinquemila tubetti pomata antiluetica». (p. 272)

Quasi ogni porta di Adi Caièh è ingresso ad una casa di piacere. Le donne vivono isolate, una ogni tucul, e sono di umore capriccioso, slavo. In Italia le case di tolleranza sono contraddistinte all’esterno. Invece qui son le case per bene che hanno bisogno di una distinzione: ed infatti sulle porte di queste (invero rare) si legge: «Casa di famiglia, non entrare!». (p. 263)

Al Tacazzè, mentre prendo il bagno, fo conoscenza con due ufficiali che, gentilissimi, mi invitano al loro campo per un caffè. Atmosfera da società di canottaggio (gli ufficiali sono pontieri del Genio): si suona qualche disco, si chiacchiera. Infine io domando:

«Donne, da queste parti?»

«Nessuna», rispondono con cupa rassegnazione: «ma abbiamo delle fotografie…». (p. 273)

Il contatto e il confronto con la popolazione indigena costituiscono un altro filone

ricorrente; il modo di vivere di questa gente incuriosisce Flaiano e talvolta persino lo

affascina:

Gli abissini si salutano con la grazia propria delle figure negli affreschi di Giotto, toccandosi guancia a guancia e chinandosi in avanti. (p. 279)

Il suo occhio indagatore osserva con delicata amorevolezza il processo di adattamento dei

sottomessi alla cultura dei colonizzatori. Gli interpreti principali di questo fenomeno di

assimilazione sono quasi sempre i bambini:

La fiducia, il rispetto, l'adorazione che i piccoli indigeni dimostrano per un ufficiale che li tratti gentilmente sono infinite. Suppongo che per loro l'ultimo ritrovato della creazione, sia proprio l'ufficiale bianco, questa specie di essere divino che va in guerra, è obbedito anche da altri bianchi, ha tanti soldini che regala volentieri e sorride ai piccoli che lo salutano. (p. 280)

L’atteggiamento reverenziale degli etiopi verso i conquistatori, venerati come divinità celesti, riecheggia un topos letterario che ha avuto origine con la scoperta dell’America e

i primi contatti con le popolazioni del luogo. Si legge infatti in una lettera di Cristoforo

Colombo: «Ancora oggi, dopo così tanto tempo che sono con me e malgrado abbiamo

molte volte parlato insieme, restano convinti che io sia disceso dal cielo41». Insieme a

questo motivo ricorrente, negli scritti dell’esploratore genovese si parla molto

41 Cfr. CRISTOFORO COLOMBO, Cinque lettere autografe sulla scoperta dell’America, Pontremoli,

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dell’ospitalità e della prodigalità degli indigeni, pronti a offrire tutti i loro tesori agli stranieri in cambio di futili oggetti:

Vero è che dopo che si rassicurano e perdono questa paura, essi sono tanto ingenui e tanto liberali di ciò che posseggono che non lo crederebbe chi non lo vedesse. Chiedendo loro che cosa abbiano, giammai dicono di no, anzi incitano la persona a domandarla, e mostrano tanto amore che darebbero i cuori, e chiedendo loro vuoi cosa di valore vuoi di poco prezzo, subito, per qualsiasi bagatella che loro si dia in cambio, sono contenti42.

Si tratta di uno schema descrittivo radicatosi nella coscienza dell’uomo europeo e

ripetutosi ad ogni suo incontro con civiltà sconosciute. Anche Flaiano in un suo appunto

si stupisce per la generosità dei bambini da lui incontrati in Africa: L’abissino è rispettoso, religioso, di carattere mite per natura. […] Mai ho visto gente così pronta a dividersi il pane, così deferente coi propri superiori, di carattere così docile. Mi colpì soprattutto una bambina, Mata Gosc, ad Adua, alla quale regalai delle caramelle. Essa le divise scrupolosamente con altri bambini ed infine fece un gesto meraviglioso: dette metà della sua porzione ad una piccola giunta in ritardo. (p. 279)

Flaiano fa tuttavia qualcosa in più, spingendosi fino a individuare nella civiltà un fattore

di corruzione della natura umana, secondo una filosofia di pensiero che risale a Rousseau

e al suo mito del buon selvaggio:

Sarà molto difficile, forse impossibile, amalgamare questa gente, portarla ai nostri costumi. Dopo quarant’anni di dominio gli eritrei sono ancora pieni di credenze e di usi radicati e ci vorranno almeno altri quarant’anni di cinema americano per guastarli. (p. 264)

Nel diario trova spazio anche il motivo degli autocarri, simbolo di una corruzione diffusa

o del capovolgimento dell’ordine sociale43:

Ad Adi Caièh esiste ancora un negozio di generi diversi gestito da un capitano d’Amministrazione ancora in servizio effettivo. La sera lo si vede fare i conti, scartabellare. Ogni ufficiale furbo, del resto, compra un autocarro e lo fa «viaggiare» sotto altro nome. In Italia c’è della gente che si leva gli anelli dalle dita44. (p. 261)

Un indigeno, arricchito con i camions, stanco di lavorare, inserisce un avviso economico in un giornale dell’Asmara, offrendo 5.000 mensili all’autista che vuol guidargli il suo camion. Con involontaria ironia – che gli inglesi forse punirebbero con la forca – lo chiede «bianco». (p. 260)

42 Cfr. Ivi, pag. 89

43 È utile notare a questo proposito che il romanzo si apre simbolicamente proprio con l’immagine di un

camion rovesciato lungo una scarpata.

44 Gli “anelli” sono da intendersi come un possibile riferimento alla Giornata della fede (18 dicembre 1935).

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In definitiva, nell’universo racchiuso nelle pagine di questo diario non esiste via di scampo che non sia la rassegnazione amara. «Tutto è questione dei primi sei o sette anni…

Poi ci si abitua…» (p. 273). L’attesa spasmodica del ritorno è il dramma maggiore:

I soldati vivono tutti per il ritorno. Quel giorno sarà bello – pensano. Invece la realtà è un'altra. Trovare che tutto è cambiato, che il mondo è andato avanti senza di loro, questa sarà la prima delusione. Le altre, diramazioni. (p. 266-67)

Le pagine del taccuino sono quindi ricche di accenti satirici e disincantati, che riescono

ad aprire squarci drammatici sulla realtà senza però perdere la tonalità umoristica; in

questo modo esse si mantengono distanti dall’angoscia esistenziale che invece attraversa il romanzo e che ha spinto i primi recensori a riconoscere in Tempo di uccidere l’influenza

della cultura europea e di scrittori come Albert Camus, Joseph Conrad, Franz Kafka o

Jean Giraudoux.