5. T EMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI
5.3 Gli Indigeni di Flaiano
5.3.3 Johannes
Il confronto con il mondo indigeno maschile passa principalmente attraverso il rapporto
conflittuale del tenente con il vecchio Johannes, figura misteriosa e ambigua, ricca di
interessanti sfaccettature. Addolorato per la perdita della figlia, l’uomo vive solo tra le
macerie del proprio villaggio, dedicandosi ad una silenziosa e dignitosa sepoltura dei
morti. Grazie al suo passato di ascaro, ha imparato a parlare l’italiano e conosciuto – suo
malgrado – la natura dei rapporti di forza che regolano il mondo coloniale. Infatti, durante
i quaranta giorni che il protagonista trascorre presso di lui per cercare rifugio, Johannes
dimostra di non poter dimenticare la propria condizione di sottomesso ed evita in qualsiasi
modo di relazionarsi con l’ospite, limitandosi ad offrirgli cibo e riparo. Mentre l’ufficiale,
bisognoso di cure e attenzioni, cerca di guadagnarsi la sua fiducia con qualche regalo,
l’indigeno rifiuta doni e favori per non essere costretto a mostrare riconoscenza verso un «vincitore»:
“Se vieni al campo, avrai quanto pane desideri” dissi. Ringraziò ancora, ma capii che non sarebbe mai venuto, che giammai l’avrei visto davanti alla mia tenda in atto di salutarmi, di riconoscermi vincitore. (p. 96)
Johannes infatti non sopporta di dover riconoscere dei diritti ad un soldato italiano, né si
vuole piegare al rispetto della sua autorità («Non ci temeva, non stimava opportuno
sorriderci, farci il saluto che aveva visto fare tante volte» p.85-86). Figura saggia e
dignitosa, il vecchio indigeno preferisce chiudersi in un profondo riserbo e ostentare in
maniera stoica calma e rassegnazione. Questo atteggiamento infastidisce il tenente che,
in quanto “signore”, vorrebbe essere maggiormente rispettato:
Sentivo che con Johannes non l’avrei mai spuntata, avevo il torto di iniziare sempre io, questo doveva indurlo a pessime deduzioni sulle mie capacità di ufficiale. Sapevo che gli ascari non amano chi concede loro eccessiva confidenza, sospettando che in quella si nasconda l’ingiustizia, che un giorno o l’altro proveranno a loro spese. (p.95)
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L’ufficiale percepisce nel vecchio una grande forza spirituale, racchiusa in quel suo atteggiamento «non ostile, ma irraggiungibile» (p. 96) che il protagonista scambia per
vera e propria insolenza; di conseguenza, il comportamento dell’indigeno lo induce a
rispondere con scatti d’ira, manifestando così tutta l’irrequietezza, l’instabilità e l’insicurezza della sua persona di fronte alla tranquilla e pacifica indifferenza di Johannes. Ma non è solo la calma del vecchio ad esasperare il tenente: scontrandosi con lui,
l’ufficiale avverte una forte statura morale e un religioso rispetto dei valori cristiani che forse lo innervosiscono proprio perché non gli appartengono affatto.
È un saggio e, come tutti i saggi, detesta il denaro perché ne sospetta il fascino. Vuol fuggire le tentazioni. In questo deserto! O vuol soltanto dimostrarsi che sono il vincitore ma non l’amico, che posso vendergli, ma non regalargli qualcosa. (p. 204)
Johannes quindi rifiuta il denaro non solo perché offerto da un «vincitore», ma anche
perché rifugge istintivamente da valori che non siano autentici e umani. Il protagonista,
sebbene non riesca minimamente a comprendere le ragioni di un simile comportamento,
non nasconde una certa ammirazione per questa figura quasi biblica di asceta che
disprezza i beni terreni e vive saggiamente lontano da ogni forma di corruzione:
Johannes, profeta senza popolo, che aveva nelle ossa la verità di quelle sentenze112 senza conoscerne una. Johannes era un saggio e nemmeno sapeva di esserlo. Aveva bandito il mondo da sé e viveva accanto ai suoi morti, senza sgomentarsi al calar della sera, anzi aspettando le sue ombre, che gli riconducevano altre ombre più care. (p. 220)
Per quanto Flaiano abbia scavato a fondo nella psicologia di questo indigeno facendone
un personaggio unico e a tutto tondo, anche l’ex ascari non è immune dagli stereotipi coloniali che il narratore usa per descrivere il popolo africano. Il brano che segue è
particolarmente significativo:
Stavo leggendo allorché vidi Johannes: anch’egli s’era seduto sul ciglio. Guardava la valle. Era la prima volta che lo vedevo attento a guardare la valle e ne fui sorpreso. Stimavo Johannes
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insensibile ai panorami e forse incapace di vederli; il suo occhio elementare non era certo uso a coordinare quei vari elementi sino a farne un quadro degno di attenzione. Egli poteva vedere un albero, una capanna, l’altopiano, il fiume, la boscaglia, ma non certo considerarli parte di un paesaggio. La sua visione utilitaria sfrondava il superfluo, e invece ora guardava la valle e mi accorgevo che la vedeva tutta e che il suo sguardo si fermava lentamente su tutte le cose, considerandole. Un pittore non avrebbe guardato diversamente. (p. 192)
Il tenente sorprende Johannes nell’atto di osservare la valle e si stupisce del fatto che
l’indigeno possa cogliere la visione d’insieme d’un panorama; evidentemente stima le sue facoltà intellettive inadeguate all’elaborazione di uno sguardo che vada al di là dei singoli
oggetti e della loro immediata funzione, coordinando i vari elementi fino a percepire un
quadro generale che li racchiuda tutti. Il narratore non avrebbe mai pensato che un
abissino potesse essere capace di guardare un paesaggio con lo stesso occhio con cui un
pittore ne coglie l’interezza per riprodurla sulla sua tela. In quel momento, il protagonista si accorge che anche Johannes sta dipingendo sulla “tela” della propria mente un panorama nel suo insieme, superando quella che lui definisce una «visione utilitaria». Da
buon colonialista, il tenente se ne compiace, ma non prende minimamente in
considerazione il fatto che dietro quello sguardo possano celarsi sentimenti intimi e
profondi. Non è difficile infatti immaginare che il vecchio indigeno, osservando la valle
sottostante dall’alto, stia provando malinconia e tristezza per qualcosa che gli apparteneva e che gli è stato strappato per sempre; il gesto di abbracciare tutto il panorama con lo
sguardo potrebbe allora essere un tentativo simbolico di riappropriazione di quella terra
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5.4 Da Heart of Darkness a Tempo di uccidere: la paura di smarrirsi dell’uomo occidentale
Il celebre romanzo di Conrad, massima espressione della letteratura coloniale europea del
XIX e XX sec., scaturisce dalla tragica esperienza del suo autore in Congo (1890),
testimoniata da alcune lettere e dai cosiddetti Congo Diaries, in cui lo scrittore annotò le
impressioni in lui suscitate da quei sei mesi di sofferto “esilio”, come lo avrebbe definito
Flaiano. Conrad tornò dall’Africa con un bagaglio di disillusioni e con la «disgustosa
conoscenza della più abietta corsa al saccheggio che abbia mai deturpato la storia della
coscienza umana e delle esplorazioni geografiche113». Circa dieci anni dopo, il ricordo di
quella terribile esperienza diede vita a Heart of Darkness (1899)114, romanzo di denuncia
delle menzogne del colonialismo occidentale e dell’orrore che si nasconde dietro ogni forma di sfruttamento. Cinquant’anni più tardi, la stessa sorte toccò a Flaiano: spedito in
Etiopia dal governo fascista per combattere una guerra in cui non credeva, a distanza di
un decennio compose il più importante romanzo coloniale italiano, sulla scorta degli
appunti annotati sul taccuino Aethiopia.
Come afferma Giuseppe Sertoli, Heart of Darkness è un’opera che può essere letta a
molteplici livelli. Il primo e più evidente è sicuramente quello politico: il romanzo di
Conrad vuole essere un atto di accusa nei confronti di ogni colonialismo europeo,
compreso quello britannico. I personaggi della storia provengono infatti da diverse
nazioni del vecchio continente: la nave che porta Marlow in Congo è francese, il capitano
del battello che lo traghetta da Boma a Matadi è svedese, l’“assistente” di Kurtz è russo
e Kurtz stesso è tedesco. O per meglio dire, «Tutta l’Europa aveva contribuito a formare Kurtz» (p. 77)115; tedesco al servizio dei belgi con un padre mezzo francese e una madre
113 J.CONRAD, Appendice a Cuore di tenebra, a cura di G. Sertoli, Torino, Einaudi, 2014, p. 145. 114 Il romanzo ha un antecedente nel racconto An Outpost of Progress, pubblicato su «Cosmopolis» nel
1897 e raccolto l’anno seguente nei Tales of Unrest.
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mezza inglese, questo oscuro personaggio ha ricevuto una formazione inglese e si
professa di idee inglesi.
Ad essere presa di mira è dunque l’idea stessa di colonizzazione, indipendentemente dal paese che di volta in volta si autoinveste della “missione civilizzatrice”, maschera
mistificatoria con cui i bianchi hanno da sempre giustificato lo sterminio di popolazioni
diverse e dunque – secondo la prospettiva eurocentrica – inferiori e selvagge.
La conquista della terra, che per lo più significa portarla via a chi ha la pelle di un colore diverso dalla nostra o un naso un po’ più schiacciato, non è una cosa graziosa a guardarla troppo da vicino. Ciò che la redime è soltanto l’idea: un’idea che la giustifichi. Non una finzione sentimentale, ma un’idea – e una fede disinteressata in questa idea – qualcosa che si possa levare in alto, e inginocchiarcisi davanti, e offrire sacrifici… (p. 9).
Non solo, potremmo dire che anche il passato della civiltà europea è chiamato in causa:
all’inizio del romanzo troviamo infatti due riferimenti all’epoca elisabettiana e a quella romana, con lo scopo di dimostrare che gli esploratori del passato non furono meno
spietati dei conquistatori ottocenteschi, i quali però hanno aggiunto all’atrocità dei loro
crimini l’ipocrisia di una finta “missione civilizzatrice”. La Britannia è nata da un atto di «pura e semplice rapina a mano armata, omicidio colposo su vasta scala» (p. 9) compiuto
dagli antichi romani e ora riprodotto dall’intero continente europeo ai danni dell’Africa.
Anche in Tempo di uccidere l’atto di accusa del colonialismo, sebbene resti ancorato alle
sole radici della civiltà italiana, trascende il presente storico e si proietta nel passato
dell’antica Roma:
L’operazione era molto semplice, doveva prima infilarsi una tunica, e poi avvolgersi in una larga toga di cotone. Vestita ancora come le donne romane arrivate laggiù, o alle soglie del Sudan, al seguito dei cacciatori di leoni e dei proconsoli. (p. 21)116
116 Cfr: Marlow: «Oppure pensate a un dignitoso giovane cittadino con tanto di toga – magari, si sa, con un
debole per i dadi – venuto qui al seguito di qualche prefetto o collettore d’imposte o anche mercante per rabberciare le proprie fortune» (p. 8).
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Non diversamente dagli italiani del XX sec. guidati dalla propaganda imperialista del
fascismo, duemila anni prima i romani erano giunti alle soglie del Sudan per conquistare
al loro Impero quelle terre esotiche ricche di straordinarie bellezze; Mariam, che veste
con una tunica e una toga, sembra provenire proprio da quel tempo antico che al tenente
adesso non pare più così distante.
Se la civiltà europea si è macchiata di terribili colpe fin dalle sue epoche di massimo
splendore, non resta che dedurre che il vero «cuore di tenebra» è l’occidente stesso, che
ha spento e ucciso, con la sua oscurità, la cultura delle popolazioni africane. Non è un
caso, nota ancora Giuseppe Sertoli, che il romanzo di Conrad si apra e si chiuda su due
scene di darkness riguardanti il mondo moderno e civilizzato; alla fine della storia,
Marlow ha capito che il male risiede nel cuore dell’Europa (simboleggiato dalla città di
Londra) e da lì si propaga all’esterno, verso l’altro da sé.
Il mondo dei bianchi è caratterizzato da una senso di vuoto che pervade l’interiorità delle persone, le loro azioni e i loro pensieri, fino a ripercuotersi sui luoghi che abitano e su
quelli sottomessi. Bruxelles è descritta ad esempio come una «città sepolcrale» con strade
e palazzi deserti; l’Africa “scavata” dal lavoro dei conquistatori è invece una voragine a cielo aperto dove le colline vengono sventrate dalla dinamite. Ma vuoti sono anche gli
occhi vacui degli indigeni che hanno perso la loro identità, così come le personalità
inconsistenti dei membri della Compagnia occidentale.
Anche in Flaiano il senso di vuoto interiore percorre l’intera storia e ne costituisce uno
dei tanti Leitmotive: «al dolore subentrò una calma ancora più vuota di speranze», «Mi
distesi sulla branda, in una calma sempre più vuota.», «Una vuota apatia mi stava
conquistando e stetti lì fermo più di un’ora a considerare la triste situazione in cui mi ero
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implacabile solitudine, la notte che avrei dovuto affrontare, poiché avevo deciso di non
interromperla.»
Al culmine della sua potenza, la civiltà occidentale mostra sempre il rovescio del suo
volto onesto e benefattore: una barbarie inumana che distrugge lentamente se stessa e
divora ciò su cui mette mano.
Tale barbarie si ammanta tuttavia di una veste perfettamente razionale. Pensiamo infatti
alla razionalità di un personaggio come il ragioniere-capo di Heart of Darkness, sempre
impeccabile nei suoi abiti bianchi tirati a lucido, nella sua “disinteressata” ed efficiente
amministrazione dei conti. Un uomo dotato di «spina dorsale» (p. 27), perché «nella
generale demoralizzazione del paese seguitava ad aver cura del proprio aspetto» (p. 27);
eppure, al tempo stesso, egli è «un manichino da parrucchiere» (p. 27), un fantoccio di
cartapesta che nasconde la sua coscienza sporca sotto quell’apparente self-control.
Kurtz è invece la personificazione del “marcio”, dell’orrore che imputridisce nell’animo dei colonizzatori. Venuto in Africa con le migliori intenzioni, egli rappresenta il
portavoce dell’ideologia imperialistica, la punta di diamante della civiltà europea che giunge nelle tenebre del Congo per rischiararle con la propria luce. «Mediante il semplice
esercizio della nostra volontà, possiamo esercitare un potere benefico e praticamente
illimitato» (p. 78), scrive Kurtz nella relazione alla Società per la soppressione dei
costumi selvaggi. Questa misteriosa figura inizialmente “illuminata” finisce tuttavia per incarnare l’altro volto del colonialismo, quello brutale e sterminatore, il delirio di onnipotenza che distrugge la wilderness africana e annulla l’alterità dei suoi abitanti.
Come ciò sia possibile, è quanto si chiede Marlow alla fine della prima parte del romanzo,
introducendo così il lettore ad un secondo e più profondo livello di lettura della storia.
Le ragioni politiche ed economiche diventano infatti insufficienti a spiegare la
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di natura psicologica. Bisogna chiedersi che cosa succeda all’uomo bianco e civilizzato nel momento in cui venga tolto dal proprio mondo e trapiantato nella wilderness di una
terra così diversa dalla propria. Kurtz, caso esemplare, è regredito ad uno stato selvaggio:
è l’europeo gone native che non solo vive in mezzo agli indigeni, ma li guida in razzie di avorio ed è adorato da loro come una divinità, la quale richiede che si svolgano in suo
onore orrendi riti di cannibalismo. Questo eroe del colonialismo britannico ha scelto
l’altro da sé e ha ceduto a quello che Marlow chiama «fascino dell’abominio» (p. 8), cioè gli istinti brutali e le mostruose passioni che appartengono all’uomo bianco. Soltanto nella
wilderness, lontano dai freni inibitori della civiltà, queste pulsioni aggressive possono
risvegliarsi e scatenarsi in tutta la loro follia. Una follia regressiva, che ha trascinato il
massimo esponente del “progresso” verso la fase più arcaica dello sviluppo dell’umanità117. Così commenta Marlow: «la sua anima era folle. Sola in quella solitudine
selvaggia, aveva guardato dentro di sé e, perdio, […] era impazzita»118 (p. 104). Come
nota Giuseppe Sertoli:
L’«abominio», in altre parole, è il ritorno del rimosso, la “liberazione” di tutto ciò che la cultura (nel senso antropologico del termine) reprime e la coscienza dell’uomo acculturato (=civile) seppellisce nell’oscurità dell’inconscio. L’«abominio», insomma, è il «cuore di tenebra» di Kurtz- non dei selvaggi119.
Il romanzo sembra quindi suggerire che la follia delle pulsioni istintuali (siano esse
sessuali o aggressive) non appartenga alla natura umana, ma sia piuttosto un prodotto
culturale, il dark side della civiltà del progresso, il volto osceno dell’identità occidentale.
Effetti indesiderati e inaccettabili di quello stesso sistema che li rimuove nell’inconscio o
li proietta sulla wilderness, sui selvaggi. La scelta di Kurtz, in questo senso, non è scelta
117 Cfr. Marlow, mentre risale il fiume per raggiungere Kurtz nell’entroterra: «Risalire quel fiume, era come
viaggiare all’indietro nel tempo, verso i primordi del mondo» (p. 52)
118 Come non pensare alla crisi, alla malattia che ha permesso al tenente di Flaiano di «rivelarsi» finalmente
«a se stesso».
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dell’altro da sé, bensì di una parte di sé interdetta da un codice di proibizioni etiche. L’uomo bianco che si illude di poter trovare tra i natives quelle passioni primitive che la civiltà europea censura, non fa altro che recuperare un prodotto rimosso di quella stessa
civiltà.
Il senso di smarrimento di fronte all’altro, al culturalmente diverso, è una problematica quanto mai attuale. In un’epoca di grandi migrazioni, quale quella che stiamo attraversando, la diversità spaventa perché viene vissuta come una minaccia alla stabilità
del proprio Io, e quindi come una perdita della propria certezza identitaria. Le differenze
dovrebbero, al contrario, generare in noi una curiosità capace di andare oltre l’inevitabile
conflitto interiore che scaturisce al contatto con l’alterità; ciò a cui molte volte assistiamo è invece un accentuarsi di paure oscure e indicibili che ci spingono a censurare la diversità
oppure ad esasperarla. Maria Antonella Galanti affronta questo interessante tema in un
paio di saggi sulla pedagogia, che sembrano illuminare anche i processi psicologici
inconsci che avvengono nella mente dei protagonisti di Heart of Darkness e Tempo di
uccidere:
Paura, conflitto e diversità, sono tematiche strettamente correlate. Si teme la diversità esteriore e interpersonale, ma si teme soprattutto quella della dimensione interna. Una volta, infatti, che la psicoanalisi ha messo in crisi l’idea tradizionale dell’identità come coesione e stabilità dell’Io, si è innestata la percezione paurosa della presenza di un nemico interno che si è riverberata su tutte le produzioni culturali del XX secolo120.
L’incontro con un soggetto che fa parte di una diversa cultura evoca lo straniero (l’estraneo) con tutte le connesse fantasie e realtà; è lo straniero che ciascuno alberga dentro di sé, però, quello che Freud aveva definito come il corpo estraneo interno o la terra straniera interna, che genera paura e rifiuto. Così, l’incontro con l’altro (sia per chi abita il paese di accoglienza, sia per chi, esule o migrante, vi approda) non può che riattivare parti di sé misconosciute e lontane, costringendo a intraprendere un viaggio figurato al proprio interno e a visitare di nuovo gli abbandonati luoghi mentali e i conflitti che li coloravano e che sembravano superati, ma che vengono repentinamente e inaspettatamente riattualizzati dal trauma presente121.
120 M.A.GALANTI, Smarrimenti del sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, Pisa, Edizioni ETS,
2012, p. 98
121 M.A.GALANTI, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all’ansia, alla fragilità e alla solitudine,
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I romanzi di Conrad e Flaiano sono dunque due delle numerose testimonianze letterarie
che tra Ottocento e Novecento hanno registrato il disagio della moderna civiltà
occidentale, la cui identità è andata sgretolandosi di fronte alla presenza di una diversità
sconosciuta e insondabile. Il percorso regressivo di Kurtz viene esasperato dalle paure e
dagli incubi di una società che teme l’esperienza dello smarrimento e la rivelazione delle
proprie debolezze: il viaggio del protagonista verso i primordi del proprio Io diventa
quindi una follia delirante e (auto)distruttiva.
Il “contagio” della terra straniera origina nell’uomo bianco una vera e propria malattia, come dimostrano la pazzia di Conrad e la lebbra di Flaiano; espressione fisica o mentale
di un morbo che gli occidentali attribuiscono all’«immensità selvaggia» e ai suoi abitanti,
essa è in realtà manifestazione corporea di una verità indicibile che appartiene al loro
mondo. Risalendo lungo i meandri della coscienza occidentale fino a intravederne
l’orrendo degrado, l’anonimo tenente italiano e Marlow scoprono che la vera brutalità è quella insita nel colonialismo e nella sete di potere di chi lo promuove. In Tempo di
uccidere, il senso metaforico della malattia come colpa di un’intera civiltà viene svelato
dalle parole dell’ufficiale medico, ma solo alla fine del racconto il protagonista riuscirà a