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4. T EMPO DI UCCIDERE : ANALISI DEL ROMANZO

4.5 L’impresa coloniale di un inetto

4.5.5 L’oscillazione del pensiero

Oltre ai motivi di inettitudine finora accennati – a cui andrebbero aggiunti il ricorso alla

menzogna, lo scaricare sempre le colpe sugli altri e il deludere chi gli sta a fianco – si

possono individuare altre tracce tematiche che ricorrono con insistenza maggiore nel

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Una di queste è l’oscillazione, vero Leitmotiv di Tempo di uccidere che coinvolge anche

lo stile narrativo. Essa consiste in un continuo andirivieni di pensieri del narratore, la cui

mente revisiona e contraddice sistematicamente quanto pochi istanti prima era apparso il

comportamento più naturale o l’atteggiamento più giusto da assumere. Questa altalena interiore tra una prima scelta A e un’alternativa B si ripercuote anche sui movimenti del protagonista, che, pur spostandosi di continuo, si ritrova sempre negli stessi luoghi. Il

tenente mostra i suoi ragionamenti al lettore e subito dopo l’azione si svolge in contraddizione con le premesse, rivelando un profondo scarto tra intenzione e azione.

Il motivo dell’oscillazione si riscontra sin dalla prima pagina di Tempo di uccidere, quando il protagonista avverte il forte impulso di abbandonare il suo compagno di viaggio

dopo il ribaltamento del camion, ma subito dopo avverte un sentimento contrario, una

specie di dispiacere nel deludere chi si aspettava da lui solidarietà e compagnia. Il «debbo

andarmene», dopo quella prima volta, torna continuamente nelle intenzioni dell’ufficiale durante l’incontro con Mariam, salvo poi differire ogni volta il distacco da lei. La situazione opposta si verifica nella sequenza successiva al ferimento della donna, in cui

il Leitmotiv «debbo andarmene» è sostituito con «dovevo soccorrerla, non c’è dubbio»

(p. 40), salvo poi sostituire questo primo pensiero con quello dettato dall’ansia di «uscire al più presto da quel pasticcio» (p. 40), che porta il protagonista a valutare un’alternativa

allettante: «Pensai che dovevo andarmene, abbandonarla» (p .40). Ma poi di nuovo

«Certo, non l’avrei abbandonata» (p. 43), e ancora:

Ora che non la vedevo, il pensiero di abbandonarla si fortificò. Dovevo abbandonarla. […] Oppure dovevo restare, accettare tutte le responsabilità […] No, sarei rimasto. Vada al diavolo la rispettabilità, la legge e tutto il resto. Non potevo abbandonarla, anche se il mio gesto fosse rimasto incompreso. […] Inutile aggiungere che questa risoluzione svanì mentre facevo bere la donna e la sua mano toccò la mia (p. 44)

E mentre il soldato passa in rassegna tutte le possibili soluzioni per salvare la donna,

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Ecco (ricordo che pensai questo): c’erano molte cose da fare, ma tutte insidiose. Potevo correre al villaggio che la donna mi aveva indicato: ma c’era poi un villaggio o non soltanto la sua capanna? […] E se avessi trovato il villaggio, che cosa avrei ottenuto? L’avrebbero operata di laparotomia, costoro che non sanno curarsi uno sgraffio, e trascinano piaghe larghe come fazzoletti? Avrei potuto mandare qualcuno al ponte, a chiedere aiuti, e dopo quattro ore sarebbe venuto l’infermiere […]. Non potevamo certo portar giù la donna, per vederla morire dissanguata lungo il percorso, ammesso sempre che avessi trovato il villaggio e i servizievoli indigeni. […] Inutile muovere la macchina dei burocrati, suscitare inchieste, nuove circolari del corpo d’armata e, forse, un processo. Anzi, sicuramente un processo. […] E la licenza di un mese, che sarebbe diventata congedo alla scadenza? Ecco, non potevo disconoscere che i miei argomenti erano meschini, ma erano quelli; e proprio la loro meschinità me li faceva apparire assai forti. Un processo, una licenza revocata, lo scandalo. Ma dovevo dunque temere lo scandalo?

Non avevo ancora pensato a Lei. (p. 42-43)

Mentre la donna è agonizzante, si fa strada una terza alternativa che potrebbe realizzare

le due precedenti in una sola volta: uccidere Mariam dandole il colpo di grazia, come si

fa con un animale morente. Abbreviare le sofferenze dell’indigena coincideva infatti con

l’unico soccorso possibile in quella situazione e al contempo avrebbe concesso al protagonista di abbandonare la vittima evitando le conseguenze di un rovinoso processo.

Un’altra forma di oscillazione è quella che riguarda i giudizi espressi dall’io narrante sugli altri personaggi. Una componente primaria dell’inettitudine del tenente si manifesta proprio nel non saper mai valutare con sicurezza chi gli si trova davanti. Questa altalena

di giudizi positivi e negativi raggiunge l’apice nel periodo che l’ufficiale trascorre al

villaggio con Johannes. L’anziano indigeno è visto, nel giro di poche pagine, come un santo anacoreta o come un vecchio insolente e infido, sinistra prova vivente della sua

colpa e ammirevole, fiero sacerdote dei suoi morti, indifferente nemico pronto a tradire il

conquistatore bianco e figura paterna a cui chiedere protezione.

Allo stesso modo anche il piccolo villaggio diventa rifugio e poi trappola, locus amoenus

edenico dove riposarsi e guarire e squallido spiazzo dove Johannes e le capanne vegliano

i loro morti. Luogo da cui il protagonista vorrebbe fuggire, ma nel quale finisce sempre

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Non diverso è l’atteggiamento del soldato nei confronti della «capanna migliore», l’abitazione isolata di cui non si conosce il proprietario, nella quale l’ufficiale si sente minacciato da una scritta – vivens iterum Deo69 – che sembrerebbe confermare le sue

paure sulla malattia, eppure, nonostante questo, sceglie di trasferirsi proprio in quel luogo.

Tra gli esempi più eclatanti di oscillazione offerti dal romanzo, c’è poi tutto il succedersi

di sentimenti, pensieri ed emozioni riservate a Mariam e alla sua morte. Arrivato

all’Asmara in cerca di un dentista, la vita cittadina distrae l’ufficiale e sembra restituirgli un po’ di tranquillità, tanto che la tragica avventura con la ragazza gli sembra già «uno sbaglio», che però non poteva essere «sbagliato altrimenti» (p. 64). Quando il tenente

osserva il vecchio Johannes scavare la fossa per gli abitanti del villaggio sterminati dagli

zaptié70, egli sente addirittura, come abbiamo già notato, che la sua «colpa era quasi

svanita», perché se Mariam fosse rimasta con la sua gente sarebbe comunque morta, o

avrebbe dovuto assistere allo straziante massacro dei suoi.

Il processo di assopimento della coscienza dell’inetto viene però drammaticamente interrotto dall’incontro con le due lebbrose nel cortile della chiesa. Tutta la vicenda assume allora un significato diverso: le resistenze opposte dalla donna sono interpretate

come paura di diffondere il contagio, mentre Mariam subisce un processo di

trasformazione e da «angelica farfalla» diventa «verme immondo», da vittima diviene

traditrice. Al protagonista non resta che uccidersi, ma non ne ha il coraggio e preferisce

tornare alla prima versione dei fatti: Mariam si era inizialmente opposta per essere vinta

e il turbante bianco che portava in testa serviva solo a non far bagnare i capelli.

Ma ormai il sospetto della malattia si è insinuato come un tarlo nella mente dell’ufficiale,

inducendolo a pianificare altri due omicidi, altri due «delitti indispensabili» (quello del

69 Formula già incontrata dal protagonista in un libro sulla lebbra. Si tratta di un’espressione rituale

pronunciata nel Medioevo durante la cerimonia della separatio leprosorum

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dottore e del maggiore). Il tenente a questo punto della storia si dichiara nuovamente

compiaciuto di aver ucciso Mariam, vendicandosi così del contagio che lei gli aveva

trasmesso; per la prima volta il narratore ammette di aver abbreviato la fine di lei non per

pietà ma per non compromettere una possibile licenza per l’Italia. Entrambi devono quindi perdonarsi a vicenda.

Il tortuoso itinerario di valutazioni sul delitto e sulla vittima non giunge ad un approdo

stabile nemmeno verso la fine del romanzo, dove la colpa dell’uccisione di Mariam è addossata a Lei, alla compagna italiana, per tornare dalla quale il protagonista si è

trasformato in assassino.

L’epilogo è affidato alle parole del sottotenente che, nel capitolo conclusivo, si fa portavoce di un’ennesima valutazione: la morte di Mariam viene attribuita al caso, a una serie di «disgraziate circostanze» (p. 247) che possono essere ricondotte al rovesciamento

dell’autocarro, al bivio-scorciatoia, alla sosta dell’ufficiale al fiume, alla sua paura, alla pietra che ha deviato il proiettile ferendo la donna, alla bestia nascosta nella vegetazione

che lo aveva impaurito, ai dolciumi di Lei che gli avevano procurato il mal di denti.

«Quale fu la prima di queste? Se potessimo saperlo, avremmo la chiave della tua storia.

Invece, così, ci appare non più importante di una partita a dadi, dove tutto è affidato al

caso» (p. 247).

Ecco che allora il tenete cambia nuovamente prospettiva:

Tacemmo. L’aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile, non per le ragioni che me l’avevano suggerito. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso. Amavo, ora, la mia vittima e potevo temere soltanto che mi abbandonasse. (p. 248)

La figura di Mariam rimane fino alla fine avvolta dal mistero; anche in questo caso

l’ultima parola spetta al sottotenente, per il quale la donna era forse una pazza che si stava lavando con un cappello da prete in testa.

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Il motivo dell’oscillazione del giudizio è proprio della fisionomia dell’inetto che non sa catalogare con certezza né il reale né se stesso. Tuttavia le difficoltà incontrate nel

valutare con esattezza persone e situazioni rimanda anche ad un altro tema centrale del

romanzo, quello dell’inconoscibilità del reale e dell’inadeguatezza dei nostri desideri e della nostra volontà.

L’alternanza nel sentire e nell’agire, già presente nei personaggi sveviani – basti pensare a Zeno che fa tre proposte di matrimonio in un’unica serata e che, pur amando Ada, sposa Augusta – e nella narrativa russa di fine Ottocento71, si trasforma in Flaiano in una vera

e propria procedura narrativa dominante, alla quale si accompagnano i vagabondaggi

senza meta del protagonista. Spinto dall’intreccio degli eventi che assume quasi le forme di una congiura, l’inetto ufficiale compie movimenti circolari che lo riconducono sempre sul luogo del delitto e sulla tomba di Mariam: più egli vorrebbe allontanarsi dal quel

luogo, più è costretto dalle circostanze a farvi ritorno. L’inquietudine deambulatoria del tenente, con i suoi inconcludenti andirivieni, lo rende un personaggio ancora più

tormentato dei protagonisti di Svevo, dediti alle loro passeggiate solitarie e al girovagare

cittadino.