5. T EMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI
5.3 Gli Indigeni di Flaiano
5.3.2 L’incontro con Mariam: oltre la letteratura coloniale
L’ambientazione esotica di questo romanzo non ci impedisce di riconoscere altri modelli letterari che potrebbero aver ispirato la scena della prima apparizione di Mariam. In
questo episodio si intrecciano diversi archetipi: uno di questi è sicuramente quello della
fanciulla che si bagna al fiume, nuda e bellissima, suscitando gli appetiti sessuali di un
corteggiatore nascosto. La mitologia classica è piena di racconti che descrivono giochi
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improvvisamente interrotto dall’arrivo di una presenza maschile. Pensiamo per esempio al mito di Diana e Atteone, raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio:
C’era una valle tutta coperta di picee e di aguzzi cipressi, chiamata Gargafìa, sacra a Diana dalle vesti succinte. In fondo a essa, nel più folto del bosco, c’era una grotta, perfetta, ma non per arte umana; la natura, col suo estro, aveva fatto un lavoro che pareva artificiale: con pomice viva e tufo leggero aveva costruito spontaneamente un arco. A destra fruscia e luccica una fonte d’acqua trasparente, con larga sorgente incorniciata da un bordo erboso. Qui la dea delle selve, quando era stanca di cacciare, era solita spandere puri fiotti sulle sue membra di vergine.
E anche allora giunse. […]
Mentre Diana si bagnava lì alla sua solita fonte, ecco che il nipote di Cadmo (Atteone), prima di riprendere la caccia, vangando più o meno a caso per il bosco che non conosceva, arrivò in quel sacro recesso: ce lo portò il destino. Appena entrò nella grotta stillante della sorgente, le ninfe, nude com’erano, alla vista del maschio si batterono il petto e riempirono tutto il bosco di urla improvvise, e corsero a disporsi intorno a Diana e la coprirono con i propri corpi. La dea però, più alta di loro, le sovrastava tutte dal collo in su110.
L’episodio si conclude con la trasformazione di Atteone in cervo, espediente con cui la dea riesce ad allontanare il pericolo di un’aggressione e a preservare il proprio pudore.
La valle in cui Flaiano ambienta l’incontro tra il protagonista e la sua “ninfa” esotica non ha niente a che vedere con il locus amoenus descritto da Ovidio: non vi sono archi di
pietra costruiti dalla natura, né fonti di acqua limpida, ma solo una «sinistra» e intricata
boscaglia africana intorno a una pozza stagnante, definita «uno specchio da poche lire»
che «rimandava un’immagine sconnessa» (p.18).
Nella letteratura classica il topos del locus amoenus è al centro della poesia pastorale e
bucolica, nata in età ellenistica con gli Idilli di Teocrito e ripresa nel mondo latino dalle
Bucoliche di Virgilio. Le prime composizioni in lingua volgare hanno invece esaltato la
bellezza della vita campestre usando generi letterari diversi dalla poesia bucolica: il
genere della pastorella, ad esempio, molto diffuso tra i componimenti in lingua d’oc, raccontava dell’incontro di un cavaliere con una pastora in ambiente agreste, cui faceva seguito un tentativo di seduzione della fanciulla supportato da false lusinghe. Il locus
110 Cfr. PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Marzolla Torino, Einaudi, 2013,
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amoenus, in queste liriche provenzali, si trasformava quindi in un piacevole scenario per
il rapporto amoroso tra i protagonisti. La particolarità del genere della pastorella
consisteva nel fatto che il tentativo di approccio era rivolto a una donna appartenente ad
un rango sociale inferiore, una popolana. Questo è uno degli aspetti che ritroviamo anche
nel romanzo di Flaiano, dove i modelli letterari antichi e medievali si mescolano con la
precedente tradizione coloniale, individuando nella donna nera il gradino più basso della
gerarchia umana. Essa quindi diventa facilmente oggetto del desiderio erotico maschile e
la violenza viene giustificata dall’inferiorità naturale della vittima.
Il motivo del locus amoenus continua a essere presente anche nella poesia pastorale del
tardo Medioevo e dell’Umanesimo. Il componimento per noi più interessante è tuttavia
la celebre canzone di Petrarca Chiare, fresche e dolci acque, che descrive una situazione
simile e allo stesso tempo antitetica a quella dell’incontro tra il tenente e Mariam in Tempo
di uccidere:
Chiare fresche e dolci acque ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna; gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna; erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l'angelico seno; aere sacro sereno
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse: date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme. S'egli è pur mio destino, e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda, qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda; la morte fia men cruda
se questa spene porto a quel dubbioso passo, ché lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto né in più tranquilla fossa
136 Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta, e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno, volga la vista disiosa e lieta, cercandomi; ed o pietà! già terra infra le pietre vedendo, Amor l'inspiri in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m'impetre, e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo. Da' be' rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo; ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo; qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch'oro forbito e perle eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l'onde, qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore". Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in paradiso!". Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e'l dolce riso m'aveano, e sì diviso
da l'imagine vera, ch'i' dicea sospirando:
"Qui come venn'io o quando?" credendo esser in ciel, non là dov'era. Da indi in qua mi piace
quest'erba sì ch'altrove non ò pace. Se tu avessi ornamenti quant'ai voglia, poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente111.
Il poeta rievoca la visione di Laura, la donna amata, in un luogo totalmente idealizzato,
fatto di sorgenti limpide, erba fiorita, aria serena e fiori profumati.
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Secondo gli stilemi della poesia stilnovistica, cui Petrarca si ispira, l’io lirico esprime un
sentimento d’amore nobile e puro verso colei che è oggetto dei suoi desideri, mentre la donna è raffigurata come una creatura angelica («Costei per fermo nacque in paradiso»)
con «trecce bionde», «belle membra», «begli occhi», «divin portamento» e «dolce riso».
È ricoperta da una veste leggiadra e da un manto di fiori che la natura fa cadere su di lei
per omaggiare la sua bellezza.
Nel romanzo di Flaiano, invece, il protagonista osserva Mariam di nascosto con un fare
voyeristico che ha qualcosa di morboso e perverso: le sue intenzioni infatti sono tutt’altro
che nobili e l’Amore puro e disinteressato del Dolce Stil Novo cede il posto al bisogno di
un facile soddisfacimento delle proprie pulsioni sessuali.
Non c’è nessuna natura trionfante ad incorniciare l’apparizione di Mariam, bensì un
paesaggio scarno e ostile. L’indigena è inizialmente nuda perché immersa nelle pozze,
ma una volta terminato il bagno indossa soltanto una tunica bianca che lascia trasparire i
suoi seni.
Benché il suo portamento sia elegante, la sua condizione non viene mai elevata a quella
di creatura celeste, ma piuttosto abbassata a quella di bestiola, secondo gli stereotipi della
letteratura coloniale. Mariam è infatti un «buon animale domestico», un animale fedele e
devoto ma privo di ragione: nulla a che vedere con la «fera bella e mansueta» di Petrarca.
D’altra parte, se Laura è per il poeta «colei che solo a me par donna», Mariam è uno «spettacolo comunissimo» (p. 16) tra i boschi della sua terra. Infatti, come dice il
narratore: «La donna era soltanto una donna, aveva un nome, un giaciglio e quelle pozze
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