4. T EMPO DI UCCIDERE : ANALISI DEL ROMANZO
4.4 Storie che sfuggono ad un’indagine: tematiche di un romanzo sui generis
I temi principali che ispirarono Flaiano nella sua prima e unica performance romanzesca
sono gli stessi che ricorrono anche nella sua produzione successiva: egli infatti può essere
a buon diritto definito un autore sostanzialmente monotematico, poiché affronta
determinati argomenti con un’insistenza quasi ossessiva, come dei veri e propri
Leitmotive.
Uno di questi è sicuramente il ruolo che il destino – o meglio il caso – riveste nella vita
di ogni individuo: Tempo di uccidere si basa su una serie di fatti casuali, o incontri fortuiti
del protagonista, che in seguito si rivelano determinanti per la vicenda (si pensi per
esempio al rovesciamento iniziale dell’autocarro, all’incontro con l’operaio biondo che indica al protagonista la scorciatoia fatale, ecc.). È quanto asserisce anche il sottotenente
alla fine del romanzo, nel tentativo di trarre una morale da questa storia; secondo lui, la
responsabilità degli eventi deve ricadere su una serie di «disgraziate circostanze», da cui
segue la domanda: «quale fu la prima di queste? Se potessimo saperlo, avremmo la chiave
della tua storia. Invece così, ci appare non più importante di una partita di dadi, dove tutto
è affidato al caso57» (p. 247). E infine conclude: «Come tutte le storie di questo mondo,
56 A. LONGONI, «Tempo di uccidere» e la narrazione frantumata, cit., p. 33
57 Sergio Pautasso ha osservato che in questa espressione è possibile ravvisare un richiamo intertestuale al
componimento Un coup de dés jamais n’abolira le hasard di Mallarmé. Non è difficile infatti ipotizzare che Flaiano fosse lettore della poesia simbolista francese. Cfr. S. PAUTASSO, Tempo di uccidere: un romanzo profetico, cit., p. 21
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anche la tua sfugge ad un’indagine» (p. 247-48), quasi a suggellare la mancanza di senso di una realtà sfuggente, indecifrabile. I “punti oscuri” della vicenda sono infatti destinati
a rimanere tali, nonostante le molte possibili interpretazioni dei fatti.
Altra costante tematica, strettamente legata alla precedente, è quella degli errori, della
vita intesa come una catena ininterrotta di sbagli, casuali o forse inconsciamente voluti
da chi, come il protagonista, non è capace di affermare il proprio Io di fronte agli eventi
che lo travolgono inesorabilmente. «A meno che non si voglia ammettere che le
“disgraziate circostanze” ti seguivano, perché facevano parte della tua persona. Obbedivano soltanto a te. Eri tu, insomma.» (p.248), afferma ancora il sottotenente nel
dialogo finale.
Errori sono anche gli equivoci, i fraintendimenti che si originano quando l’ufficiale non
riesce a decifrare in maniera corretta le diverse situazioni che gli si presentano: non
capisce i gesti e le azioni di Mariam, confonde i segni del possibile contagio, non
comprende il comportamento degli indigeni, legge manifestazioni di ostilità là dove c’è
solidarietà e di amicizia dove c’è tradimento. Tutte queste caratteristiche – lo vedremo meglio nel capitolo seguente – delineano in primis la personalità di un uomo debole e
inetto.
Frequente è anche il motivo della noia, una sorta di paralisi che sembra cancellare ogni
responsabilità morale e affligge tanto gli indigeni quanto i conquistatori. Nella sua prima
apparizione, Mariam si lava pigramente in una pozza ripetendo i suoi gesti con
«melanconica monotonia», come se il corpo da lavare non fosse il suo; «Ma erano brevi
parentesi in quella noia», commenta il protagonista. Lo stesso stato d’animo si manifesta
nelle ragazze con cui l’ufficiale si intrattiene insieme al maggiore nella cittadina di A., e
nella prostituta incontrata a Massaua. Il desiderio sessuale dei conquistatori verso le
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lunga noia dell’esilio». Di noia soffrono anche il maggiore, il dottore, il sottotenente, i soldati e i musicisti; essa si ritrova persino nelle fotografie, nelle giornate, nei ricordi e
nelle città.
Spesso associato al tema della noia è quello della pigrizia, una stanchezza del pensiero e
dei gesti che riguarda indigeni e ufficiali. Il personaggio pigro per eccellenza è il dottore,
definito «uno di quei pigri che amano la solitudine e sanno difenderla». Ma pigri sono
anche gli animali di quest’Africa singolare: il coccodrillo a guardia della valle, il camaleonte incontrato lungo il sentiero, gli uccelli appollaiati nella vegetazione. Pigra è
la folla cittadina, le note di un violino, il seno delle donne nascosto sotto la tunica.
A questi motivi si accompagna poi quello della solitudine: quasi tutti i personaggi di
Tempo di uccidere sono figure profondamente sole, sia che accettino di buon grado questa
loro condizione, sia che la subiscano. In generale gli indigeni sembrano sopportare meglio
la lontananza dai propri simili, come il vecchio Johannes che si ostina a vivere nel
villaggio abbandonato, tanto che «il suo stato naturale era ormai la solitudine». I
conquistatori invece – con l’eccezione del dottore – ne restano profondamente turbati e
la colonia è per loro fonte disagio non meno che la vita in patria, di cui si parla in questi
termini:
Ma ridivenni triste quando rammentai che, pur tornando in Italia, troppi processi mi attendevano. Troppi processi, e l’ospedale. E verrebbe Lei a visitarmi? Porterebbe libri, arance, tabacco? E ogni volta una scusa per andarsene un po’ prima? Oppure non verrebbe affatto? Una solitudine vale l’altra, insomma. (p. 236)
Dirimpetto, oltre il ciglio emergevano le tetre montagne della regione dove, a distanza di cento e più chilometri l’uno dall’altro, piccoli conventi ospitano persone che vanno là a cercare soltanto la solitudine. Probabilmente, una solitudine diversa da quella che ci rende tristi nelle città, e ci spinge nelle strade, nei caffè, nei teatri, per confortarci al calore di un’umanità altrettanto triste. (p. 248)
Uno sguardo all’onomastica ci introduce in un altro importante filone tematico, quello dei riferimenti alle Sacre Scritture. In Tempo di uccidere gli unici nomi propri sono quelli
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è invece negato il conferimento di un nome, forse perché essi sono ormai considerati parte
di un enorme ingranaggio coloniale. I conquistatori, di conseguenza, sono identificabili
non in base alla loro identità, ma in base al grado e alla funzione che ricoprono: tenente,
sottotenente, maggiore, dottore, contrabbandiere, operaio, ecc. Anche la compagna
italiana del protagonista viene definita sempre e soltanto “Lei”.
I tre nomi biblici ci indirizzano verso la dimensione religiosa del testo giudaico-
cristiano58, a cui il lettore era stato già introdotto dal titolo e dall’epigrafe del romanzo.
Di riferimenti al Vecchio e al Nuovo Testamento è intessuta l’intera storia: basta pensare
alla piaga della lebbra, il più biblico di tutti i mali, ai simbolici quaranta giorni59 di
espiazione trascorsi dal protagonista nel villaggio di Johannes, o ancora alla scena
dell’Arcangelo che uccide il dragone, raffigurata sulle pareti della capanna migliore. Nell’ultimo capitolo, il richiamo un po’comico di una tromba – annuncio dell’imminente partenza per l’Italia – sembra al protagonista il suono di una burlesca Tromba del Giudizio:
«La tromba ripeté in fretta il segnale. Sembrava che lo ripetesse per noi, gli altri dovevano essere già tutti a posto, non si sentiva il minimo brusio. “È una tromba abbastanza comica per il mio Giudizio,” dissi “ma a ciascuno la sua tromba.”» (p. 255)
«A ciascuno la sua tromba» è una sentenza amara che il tenente pronuncia sulla sua stessa
condotta. Dal confronto con il testo sacro il protagonista esce infatti inesorabilmente
sconfitto: ogni volta che ci si aspetterebbe un suo riscatto, la storia ci conduce a
58 Non dobbiamo dimenticare che la regione etiope ha radici cristiane molto antiche, risalenti addirittura al
IV sec. Le scelte onomastiche di Flaiano sembrano quindi giustificate dalle tradizioni culturali e religiose di quella terra.
59 Nel linguaggio religioso cristiano, il numero quaranta rimanda alla penitenza e alla purificazione dello
spirito dal peccato. Quaranta sono i giorni trascorsi da Gesù nel deserto per fuggire le tentazioni del demonio (rievocati liturgicamente nel periodo della Quaresima), quaranta gli anni durante i quali gli ebrei camminarono nel deserto per raggiungere la terra promessa.
Anche il soldato di Flaiano trascorre una propria quaresima presso il villaggio di Johannes, dove il vecchio conduce una vita da asceta sull’esempio di Cristo («È un saggio e, come tutti i saggi, detesta il denaro perché ne sospetta il fascino. Vuol fuggire le tentazioni. In questo deserto!»). Al termine di questa esperienza, il protagonista vede le sue piaghe del tutto risanate, ma non ottiene nessuna guarigione dello spirito, a riprova del rovesciamento del paradigma biblico.
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un’abiezione sempre più irrimediabile. Non può esserci redenzione per chi porta con sé una Bibbia nello zaino ma non mostra il minimo rispetto verso il suo contenuto; per questa
mancanza di coerenza, il tenente si interrompe sul più bello, quando, alla fine del
romanzo, sta nuovamente per riecheggiare un’espressione evangelica: «“Eppure,” dissi
“questa valle...”. Ma non seguitai. (Inutile citare un autore, quando di un foglio del suo libro abbiamo fatto cartine per sigarette. Non è vero, Johannes?)» (p. 255). A fornire lo
spunto per le ultime battute dell’ufficiale potrebbe essere stata l’immagine cristiana della “valle di lacrime”, proverbiale luogo di pene e sofferenze umane come quell’Africa martoriata che il protagonista si appresta a lasciare.
Su questi puntini di sospensione, Tempo di uccidere, che si era aperto con un’epigrafe
biblica spezzata, si conclude simmetricamente con un’altra citazione religiosa lasciata
cadere nel vuoto.
Anche la categoria del tempo, di fondamentale importanza in questo romanzo, sembra
regredire ad un passato mitico-edenico. Appena imboccata la scorciatoia che lo porterà al
fiume, il protagonista ha subito la sensazione di addentrarsi in un universo temporalmente
distante dal proprio, dove tutto è rimasto fermo al momento della Creazione del mondo:
«Una pace antica, in quel luogo. Ogni cosa lasciata come il primo giorno, come il giorno
della grande inaugurazione» (p. 12). L’apparizione di Mariam, che si bagna nuda in una pozza, gli ricorda una visone magnifica e primitiva. La donna sembra vivere nel tempo
più che nello spazio: è vestita con una tunica, così «nobile nel suo manto romano» (p.
28), come «le donne romane arrivate quaggiù, o alle soglie del Sudan, al seguito dei leoni
e dei proconsoli» (p. 21); i suoi occhi lo guardano da «duemila anni» di distanza e lei
stessa è «stupefatta di trovarsi viva accanto ad un uomo vestito di tela marrone.». Il
tentativo di seduzione dell’ufficiale assume presto i contorni di una seduzione ancestrale, quella del primo uomo nei confronti della prima donna («Respingeva le mie mani perché
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così Eva aveva respinto le mani di Adamo, in una boscaglia simile a quella» p. 22) e ben
presto il protagonista perde la pazienza, invitando Mariam a dismettere i panni della
recita: «Su, sorella, coraggio, la scena biblica è durata anche troppo» (p. 22).
Allo stesso modo, le pagine delle Sacre Scritture prendono quasi forma nei villaggi di
quella civiltà povera ed essenziale, nella saggezza dei suoi abitanti:
Lessi una pagina di Proverbi e due pagine dell’Ecclesiaste, e poi ancora qualche pagina di Proverbi. Mi accorgevo, leggendo, che quei versetti prendevano vita laggiù, in armonia con le cose che mi circondavano: con quelle capanne, con quella natura scarna. E con Johannes, profeta senza popolo, che aveva nelle ossa la verità di quelle sentenze senza conoscerne una. (p. 220)
L’esperienza del tempo nell’Africa di Flaiano è dunque molto distante da quella lineare che appartiene al vissuto degli esploratori europei: il tempo degli indigeni è infinitamente
dilatato, fermo ad un’antichità eterna ormai stanca e in decadenza, ma ancora in grado di esercitare il suo fascino sui conquistatori. «Peccato vivere in epoche così diverse!»,
commenta il protagonista constatando l’enorme distanza che lo separa da Mariam. Il contatto con questo mondo primitivo sprofonda l’ufficiale in un passato torbido e
languido; lentamente il suo concetto di tempo si sfalda, passato e presente iniziano a
coesistere come nella dimensione dell’inconscio. Simbolo di questo smarrimento è
l’orologio guasto che il tenente porta con sé, inservibile fin dall’inizio della storia, come se non potesse avere alcuna funzione in quel luogo primordiale60.
Il protagonista si mostra significativamente ossessionato dallo scorrere del tempo che
sempre più sfugge al suo controllo: ora la fretta lo incalza e non vorrebbe cedere a nuove
distrazioni, ora la noia insopportabile lo induce a cercare futili passatempi per riempire
momenti di vuoto.
60 Un proverbio africano recita: «Noi abbiamo il tempo, voi avete l’orologio». In un mondo in cui l’esistenza
è sempre più regolata da ritmi frenetici e artificiali, il continente africano continua a rispettare lo scorrere naturale della vita, lontano dalla scansione fittizia degli orologi.
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Gli indigeni sono invece del tutto estranei alla nozione occidentale di tempo. Esso ha
consegnato l’Africa al «sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati» (p. 34), in cui gli uomini sono abbandonati ad una «disperata indolenza» e a
«una tremenda rassegnazione» (p. 112). Così, le ragazze della cittadina di A. si sono
ormai arrese ad un’esistenza che si trascina stancamente: «Nei loro occhi non si poteva leggere nulla, se non la noia della decadenza. Il tempo le aveva definitivamente sconfitte»
(p.59)
I conquistatori guardano talvolta con disprezzo, talvolta con interesse, a questa diversità
del popolo africano. Ecco alcune considerazioni del protagonista in un dialogo con il
maggiore:
Allora feci un elogio delle ragazze indigene: erano semplici come colombe, dolci, disinteressate, incluse nella natura. Non restava che coglierle. “Lei s’illude” disse. Ora mi dava del lei. “Nient’affatto” risposi. Aggiunsi che non sarebbe durato ancora molto, in pochi anni avrebbero acquistato il concetto del tempo, che adesso mancava loro totalmente. “Quando scopriranno il Tempo61” dissi “diverranno come tutte le ragazze di questo mondo, ma di un genere inferiore, molto inferiore. Ora mi divertono,” aggiunsi “perché sanno perdere tempo, proprio come gli alberi e gli animali.62” (p. 68)
Il tenente sembra inizialmente ammirare l’innocenza e la semplicità della ragazze
abissine, dando l’impressione di aver riscoperto in loro qualità rare da preservare e rispettare. Ma ecco che subito dopo l’istinto del “predatore” chiude miseramente l’elogio
delle indigene nel segno della dissoluzione e del libertinaggio: «Non restava che
coglierle». Interessante è il contrasto quasi blasfemo tra l’immoralità delle intenzioni del
protagonista e la citazione biblica racchiusa nel suo discorso, ennesimo esempio di come
il messaggio evangelico venga tradito e calpestato. Il riferimento è al Vangelo di Matteo,
in cui Gesù invita gli Apostoli ad essere «prudenti come serpenti, semplici come
61 La parola tempo è scritta con la maiuscola in quattro delle sue occorrenze, probabilmente in quei contesti
in cui Flaiano ha inteso sottolineare una volta di più l’importanza di questa categoria in rapporto alla contraddittorietà con cui è vissuta nel mondo africano.
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colombe» (Mt 10, 16) per sfuggire alle persecuzioni che verranno63. Il sermone indica al
buon cristiano, attraverso i paragoni con il mondo animale, quali sono i due poli opposti
tra cui mantenersi in equilibrio: l’intelligenza del serpente, che permette di sopravvivere
sulla terra svelando gli inganni del prossimo, e la semplicità delle colombe, che si
rivolgono con fiducia a Dio elevandosi verso il cielo. Secondo l’insegnamento di Cristo,
dimensione terrestre e dimensione celeste devono quindi coesistere dentro ogni uomo e
far dialogare le proprie opposte istanze.
Nell’Africa di Flaiano, come sappiamo, il mondo indigeno incarna una realtà molto più
saggia e spirituale di quella degli europei, così corrotti e avidi di potere; non stupisce
quindi che le ragazze siano definite «semplici come colombe» per la purezza e
l’innocenza del loro animo, qualità attribuibili solo a creature prive di peccato. La loro natura – osserva il tenente – inizierà a degenerarsi non appena avranno acquisito il
concetto occidentale di tempo, perdendo per sempre il senso dell’autenticità delle cose.
Come le ragazze di A., anche Mariam sa perdere tempo. Mentre si lava lentamente al
fiume, sembra presa dal divertimento di far scorrere ripetutamente l’acqua sul corpo, prolungando all’infinito quel piacevole istante:
La donna alzava le mani pigramente, portandosi l’acqua sul seno e lasciandovela cadere, sembrava presa in quel giuoco. Forse era là da molto tempo, decisa a lavarsi senza fretta, per il piacere di sentirsi scorrere l’acqua sulla pelle, lasciando che il tempo scorresse egualmente (p. 16)
Anche Johannes vive immerso in un eterno presente, ripetendo quotidianamente i suoi
rituali con estrema lentezza e senza andare mai oltre ciò che lo circonda. Il narratore ne è
quasi irritato e riflette sull’indolenza del vecchio: «Anche Johannes, suppongo, non
63 La colomba è tuttavia presente anche in altri luoghi delle Sacre Scritture e assume significati diversi in
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conosceva il valore del Tempo, e laggiù le stagioni mutavano appena il colore dell’aria; e così egli viveva un’unica stagione senza mai chiedersi se un giorno finirebbe.» (p.187) Nemmeno il piccolo Elias è in grado di concepire questa categoria tipicamente
occidentale: «Quattro o cinque giorni: la stessa cosa, per Elias. Anzi, quattro giorni o
quattro mesi. Possedeva, sì, un orologio, ma soltanto per vanità» (p. 234-35).
Diverso è il caso della prostituta di Massaua, un’indigena «evoluta» che ha imparato a leggere e a fare affari. Dalla sua frequentazione assidua con i conquistatori ha appreso il
concetto del tempo e perso definitivamente la sua originaria vicinanza allo stato di natura.
L’incontro del protagonista con questa donna avviene in una situazione del tutto antitetica rispetto a quella di Mariam. Anche la prostituta infatti viene colta nell’atto di lavarsi, ma
il contesto è completamente mutato: non siamo più presso le rive di un fiume ma in un
bagno con doccia, dove la visione della nudità femminile è inizialmente impedita da un
paravento.
Subito dopo la prostituta si spoglia tranquillamente davanti allo straniero, esibendo una
consapevolezza di sé che era del tutto estranea all’ingenuità della giovane vittima: «Poteva restar nuda non per estrema innocenza, ma perché aveva superato tutti i pudori»
(p. 177).
Un altro tema fondamentale del romanzo è la tragedia del fallimento della comunicazione
tra i personaggi64. Il linguaggio verbale infatti sembra inadatto a interagire con il mondo
degli indigeni, mentre tra gli italiani è spesso fonte di inganni e malintesi.
Per dialogare con gli africani, i conquistatori sono costretti ad avvalersi di codici gestuali
o pittografici, regredendo ad una condizione umana primitiva. È il caso del tenente, che
cerca di comunicare con Mariam attraverso gesti o rapidi schizzi disegnati sul taccuino
64 Cfr. A. LONGONI, Un piccolo maestro postumo, introduzione a E. FLAIANO, Opere scelte, Milano,
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per farla divertire. Inutile cercare di ottenere da lei qualche informazione sul luogo, visto
che a qualsiasi domanda posta dall’ufficiale la ragazza risponde meccanicamente con un “sì”, parola che – in quel contesto – è stata del tutto svuotata del suo significato.
Se i “sì” di Mariam non vogliono dire più nulla, i discorsi del tenente durante la ricerca dell’oro vanno invece incontro ad un grosso fraintendimento da parte dei suoi commilitoni: gli altri soldati infatti lo credono avido del bottino prezioso, quando in realtà
il protagonista cerca solo di depistarli dal luogo dove è sepolta Mariam.
Il romanzo contiene poi molti esempi di parole menzognere, come quelle che l’ufficiale
rivolge, in apertura, al suo compagno di viaggio per abbandonarlo e darsi
vergognosamente alla fuga. Denso di sottintesi è invece il dialogo con il dottore, un vero
intermezzo metaletterario in cui si illustra l’arte del non detto. Infine, l’imbroglio riguarda
anche le parole che il protagonista rivolge al maggiore, in apparenza innocenti ma in realtà
allusive al piano omicida.
Per mantenere aperto il canale della comunicazione, probabilmente occorre possedere un
vocabolario di cento parole, come quello degli indigeni, ma soprattutto cercare con loro
una relazione profonda e autentica. Il soldato contrabbandiere, ad esempio, riconosce nel
vecchio Johannes e in Elias la sua stessa condizione di povertà e la comune appartenenza