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4. T EMPO DI UCCIDERE : ANALISI DEL ROMANZO

4.5 L’impresa coloniale di un inetto

4.5.6 Confronto inetto-forte

Accanto al motivo dell’oscillazione, il tema dell’inettitudine nel romanzo passa anche

attraverso il confronto tra l’inetto e un personaggio forte, cioè tra chi si sente inadeguato

alla vita e chi invece sembra possedere ad abundantiam le doti adatte ad affrontarla. I

71 Questo motivo è anche al centro del celebre componimento di Montale Avrei voluto sentirmi scabro ed

essenziale, in cui il soggetto rimpiange di non saper vivere la responsabilità della scelta che l’esistenza comporta. La sua sensibilità di «uomo che tarda all’atto» lo condanna all’irresolutezza e al perenne rimpianto di scelte che non ha avuto il coraggio di compiere (vv. 16-19 «Seguito il solco d’un sentiero m’ebbi / l’opposto in cuore, col suo invito; e forse / m’occorreva il coltello che recide, / la mente che decide e si determina.»). Cfr. E.MONTALE, Ossi di seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, Milano, Mondadori, 2006, pp. 146-148.

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personaggi forti, a differenza del tenente, vengono descritti fisicamente e non appaiono

mai da soli, ma sempre in compagnia del protagonista per evidenziare meglio la distanza

che li separa dall’inetto. La loro apparizione è legata ad ambienti specifici: il fiume per Mariam, il villaggio per Johannes, la baracca o le case delle indigene per il maggiore, la

piazza per il sottotenente, l’Italia per Lei, la veranda tra gli eucalyptus per il dottore. I forti sembrano avere pertanto delle sfere d’azione specifiche, mentre il protagonista le attraversa continuamente.

Il maggiore è a tutti gli effetti il prototipo dell’ufficiale corrotto e senza scrupoli; il

sottotenente – personaggio mediatore per eccellenza perché dà informazioni e scioglie

contraddizioni – è simbolo dell’uomo che sa e capisce, tutto il contrario dell’inetto. Tra i

forti rientra perfino un mulo, che il protagonista sente come superiore perché riacquista

la salute mentre lui si ammala sempre di più.

Anche tra le figure minori possiamo trovare personaggi che rivelano, sia pur per breve

tempo, l’inettitudine del tenente. Tra queste vi è sicuramente quella del sergente che, in cerca di una promozione, agisce al fianco del narratore con sicurezza, rispettando ordini

e regolamenti. Egli non ha sfumature di personalità e non nutre dubbi sulla colpevolezza

dei due abissini trovati impiccati nel bosco, ritenendo la loro morte esemplare per gli altri

ribelli: il sergente è insomma perfettamente ligio al proprio dovere tanto quanto il

protagonista è inadempiente e inaffidabile nello svolgere le sue mansioni di comando.

Un altro personaggio forte è il contrabbandiere, che sa adottare il comportamento giusto

al momento giusto e con pochi e semplici gesti riesce a conquistarsi subito la simpatia di

Elias e Johannes: restituisce il pantalone al bambino e gli regala metà del suo pane, non

partecipa ai discorsi inopportuni che il protagonista rivolge al vecchio intento a seppellire

i suoi morti. Il tenente sente la superiorità e l’efficacia del comportamento del contrabbandiere, così come avverte l’inadeguatezza del suo.

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Più forte del narratore è anche il piccolo Elias che, pur comportandosi come un cucciolo

fedele, domina psicologicamente il protagonista. L’ufficiale non riesce infatti a sopportare nemmeno la presenza fisica del bambino, membro secondo lui di una congiura

ordita insieme a Mariam e a Johannes per alimentare i suoi sensi di colpa. Non sapendo

come liberarsene, arriva perfino ad aggredirlo. Sarà invece Elias a lasciarlo: astuto e

intraprendente, il piccolo abissino ricomparirà trionfante nel villaggio dove il tenente si è

rifugiato, come un «piccolo David che aveva vinto il gigante». Il soldato si trova costretto

a chiedergli di non rivelare a nessuno la sua presenza e così facendo si mette in suo potere.

Sfavorevole al protagonista è anche il confronto con le figure femminili più importanti,

Mariam e Lei. L’anonima compagna italiana dell’ufficiale non compare mai di persona,

ma solo attraverso le lettere che i due si scambiano, veri e propri oggetti-simbolo custoditi

gelosamente dal tenente. Nella prima parte del romanzo la donna esercita sul narratore

una funzione rassicuratrice: è la prova vivente che esiste per lui un passato di normalità,

una felicità perduta che deve essere riconquistata a qualsiasi prezzo. Lei è l’ancora di salvezza alla quale l’inetto tenta disperatamente di aggrapparsi per superare le angustie del presente e del futuro, legate alla malattia. Ma nella seconda parte del romanzo il

protagonista finisce con l’individuare nella moglie il vero mandante dell’omicidio commesso: lui infatti ha ucciso perché voleva ad ogni costo tornare da Lei e Mariam

avrebbe costituito un intralcio per la licenza, il rischio di un processo scandaloso e

un’offesa per la compagna. Dunque, poiché Lei è colpevole, lui dovrà lasciarla.

L’immagine della donna italiana, secondo la regola dell’oscillazione, subisce quindi molti cambiamenti e da pietosa e fedele crocerossina, caritatevolmente coinvolta nella rovina

del marito lebbroso, diviene carnefice pronta all’abbandono e incapace di assistere al degrado del male di lui.

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Ancora più paradossalmente Mariam, la vera vittima del romanzo, domina il protagonista

prima e dopo la sua morte. Da viva lo aveva dominato perché portatrice di un mondo

misterioso e irrimediabilmente lontano da quello dei conquistatori. Il suo fascino, oltre

alla sua bellezza, consiste nella forza di un oscuro passato privo della dimensione del

tempo, che rende l’indigena agli occhi del soldato italiano molto più che un semplice oggetto di desiderio. La donna abissina soggioga e travolge il protagonista, nonostante

questi abbia assunto nei suoi confronti il comportamento tipico del conquistatore europeo,

a cui spetta di diritto il possesso delle donne dei vinti. La pesante sconfitta che Mariam

infligge all’ufficiale – da lui stesso ammessa – non scaturisce tanto dal pentimento di averla uccisa, ma dalla sua incapacità di stabilire con lei, pur avendola posseduta,

un’intesa profonda; infatti sono continue le percezioni di incomunicabilità e di solitudine durante i momenti trascorsi con lei. Anche in questo caso il modello più immediato per

Flaiano è quello di Svevo: come l’inetto Alfonso Nitti si disprezza per aver posseduto

Annetta Maller, non riconoscendosi nei panni del violentatore, così il tenente sente di

aver fatto uno sbaglio che cerca in tutti i modi di minimizzare o rimuovere.

La subalternità del protagonista si ripropone con il maggiore, invidiato dal narratore per

la sicurezza con cui gestisce la sua esistenza, ma anche disprezzato per i suoi loschi

traffici, per la sua spregiudicatezza e per la convinta adesione ideologica alle regole del

colonialismo. Il tenente – pur ritenendosi superiore al maggiore – lo imita nelle sue

malefatte, ma lo fa in modo maldestro, perché in quanto inetto è incapace di emulare

l’esempio di chi sa vivere, come dichiara apertamente: «Ammiravo i suoi difetti, che forse mi sarebbero stati necessari, questo sentivo, per sopravvivere».

Il protagonista, quando cerca di uccidere il maggiore dopo averlo derubato, scopre che

non basta imitare i forti per essere come loro: il furto infatti si rivela inutile e il tentato

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omicidio mancato dopo quello del dottore, la seconda prova evidente che i forti non

possono essere sconfitti dagli inetti. Questi ultimi rischiano infatti di apparire

estremamente grotteschi: nella sequenza in cui il tenente, nascosto dietro una pianta, cerca

di colpire per la seconda volta il dottore dopo averlo mancato, egli si accorge che la pistola

è scarica. C’era infatti un unico colpo in canna, quello caricato da lui stesso la notte prima con l’intento di suicidarsi. All’ufficiale non resta che darsi alla fuga e abbandonarsi ad una risata amara, che diventa presto un accorato lamento72.

L’ufficiale di Flaiano è sì un assassino a tutti gli effetti, ma non regge le conseguenze del crimine commesso e, oppresso dai sensi di colpa, cerca di scaricare sugli altri la

responsabilità del proprio delitto, fino a decidere di eliminarli fisicamente.

Anche nei confronti del vecchio abissino il tenente avverte un senso di inferiorità. Durante

il suo soggiorno forzato al villaggio, indebolito dalla malattia e in preda ad una febbrile

inquietudine, il soldato si scontra con il taciturno Johannes, immerso nelle sue

occupazioni quotidiane che tanto innervosiscono il protagonista. Il vecchio tratta

l’ufficiale come un intruso, a cui si deve ospitalità perché è un vincitore, ma non umano conforto.

Il punto di massima tensione fra i due si raggiunge nella lotta provocata dall’indigeno, in cui il tenente ha la meglio su Johannes ubriaco e ferito: egli ha vinto per una volta, ma la

sua inettitudine gli impedisce di godere del vantaggio ottenuto e non si sente capace di

uccidere di nuovo. Segue l’inevitabile capitolazione, la confessione del delitto. Il protagonista conduce Johannes alla tomba di Mariam dando inizio alla sua espiazione che

si completerà con la guarigione della ferita alla mano per opera del vecchio. Il non saper

sfruttare le circostanze favorevoli è un altro comportamento tipico dell’inetto che non è

72 Nota L.Sergiacomo che questa scena ricalca quella in cui il protagonista inetto de Gli indifferenti di

Moravia, Michele, tenta di uccidere il suo rivale, ma ha dimenticato di caricare la pistola. Cfr. L. SERGIACOMO, cit., p. 50.

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abituato a vincere. Al protagonista del romanzo accade talvolta che la fortuna riservi

qualche evento positivo, come la mancata denuncia del dottore prima e del maggiore poi,

ma il tenente non è capace di collaborare con la vita e diviene così complice delle sue

sfortune.