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5. T EMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI

5.3 Gli Indigeni di Flaiano

5.3.1 Mariam e le donne abissine

Il personaggio di Mariam è perfettamente inquadrato da Flaiano entro quel repertorio

tradizionale di stereotipi e clichés con cui la letteratura esotica ha da sempre rappresentato

le donne nere. Potremmo anzi affermare che la descrizione dell’indigena fa parte di quegli

elementi che ci permettono di inserire Tempo di uccidere all’interno della tradizione del

romanzo coloniale, impiegato però come veste formale da demolire al suo interno.

Il protagonista incontra Mariam nella più tradizionale delle circostanze: la scorge di

lontano, tra le frasche, mentre la ragazza si sta lavando nuda e indifesa presso un fiume.

Questa improvvisa apparizione risveglia in lui l’istinto del “signore”, un desiderio primordiale che gli suggerisce di sedurla, usarla e abbandonarla. Azione più che lecita per

un conquistatore europeo che vuole cogliere dalla terra sottomessa ciò che gli spetta di

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Quando mi scoprì tra le piante seguitò a lavarsi con calma, senza curarsi di me e forse non curandosene davvero. Ebbi quasi voglia di ridere e pensai che uno di noi poteva essere un miraggio, ma non io. E lei, non era troppo simile a quelle beltà che i soldati cercano per fotografare o per altri scopi? Avevo finito la sigaretta e mi avvicinai, dovevo passare dì lì per raggiungere il sentiero. Lei si rimise nella pozza e riprese il suo monotono divertimento. Guardava l’acqua scendere sulla pelle e questo le bastava. I suoi pensieri, se ne aveva, si muovevano pigramente e non riguardavano la mia persona. La donna non supponeva che in quegli istanti la valle mi stava apparendo estremamente fittizia, creata da un desiderio che non avevo mai osato confessarmi. Non supponeva davvero che la desiderassi; oppure non si muoveva appunto perché rispettassi la sua calma. Una donna che fugge attira l’inseguitore, anzi lo crea. Istintivamente lei doveva pensare questo e perciò stava ferma, aspettando di vedermi proseguire. O pensava che potevo dirglielo chiaramente. Ero un “signore”, potevo anche esprimere la mia volontà. [...] No, la bellezza che si ritrova nei sogni è prudente lasciarla sul cuscino (o nelle boscaglie), e non portarsela in giro: si rischia di dover fornire troppe spiegazioni. (p.18-19)

La visione della donna è completamente filtrata dallo sguardo coloniale del narratore, per

il quale l’indigena non è altro che il miraggio di una bellezza esotica ad uso e consumo dei soldati italiani, priva di un pensiero autonomo («I suoi pensieri, se ne aveva…») e quindi di una propria volontà.

Mariam intravede a sua volta l’intruso, ma continua a lavarsi come se non sospettasse

affatto le intenzioni dell’ufficiale, o come se volesse soltanto prendere tempo. La sua ingenuità e la sua purezza, caratteristiche tipiche di ogni “buon selvaggio”, infiammano

ulteriormente il desiderio del tenente: più la donna si sottrae alle sue attenzioni

continuando a lavarsi, più egli se ne sente attratto («Una donna che fugge attira

l’inseguitore, anzi lo crea»). Persino la valle circostante si fa proiezione delle pulsioni erotiche del protagonista, diventando ai suoi occhi, improvvisamente, un fondale fittizio

pronto ad accogliere la scena di stupro che si sta preparando.

Nonostante il tenente cerchi sulle prime di non assecondare la propria libido («la bellezza

che si ritrova nei sogni è prudente lasciarla sul cuscino (o nelle boscaglie)»), alla fine non

potrà fare a meno di cedervi e dare vita al copione di una classica seduzione:

La osservai. Si stava infilando la tunica e per un attimo la sua testa scomparve nel cotone e rimase quel corpo nudo, quel seno che stentava a passare alla cintola e doveva essere raccolto dalle mani. Tornai indietro, presi la toga che lei già si stava acconciando, la stesi per terra e costrinsi la donna a sedervisi. Mi respinse, quando la toccai, e fece il gesto di levarsi. S’era rabbuiata. La rimisi a sedere bruscamente, la stessa febbre di prima m’aveva ripreso; e lei mi respingeva con fermezza, ma il mio desiderio, così male espresso, non l’offendeva: non ne faceva una questione di belle

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maniere e di opportunità. Respingeva le mie mani perché così Eva aveva respinto le mani di Adamo, in una boscaglia simile a quella. O forse per aumentare il valore dell’impresa, perché il respingere è una fase del gioco, o perché aveva paura. Ma paura di che? Non era certo la paura di essere violata, ma quella più profonda della schiava che cede al padrone. Doveva pagare la sua parte per la guerra che i suoi uomini stavano perdendo o forse sottilizzavo troppo? Quel sapone dell’esercito... Non era soltanto timore che non la compensassi? Avevo in tasca due monete d’argento. Gliele misi sul palmo della mano. Non era questo. Sembrava molto tentata di prenderle, eppure me le restituì. C’era qualcosa che non capivo. L’odio per i “signori” che aveva distrutto la sua capanna, ucciso il suo uomo? Il timore di essere sorpresa là da qualche abitante del villaggio che mi aveva indicato? La feci alzare e la condussi nel più folto degli alberi. Mi seguì docilmente, ma appena ritentai di afferrarla, di nuovo cominciò la sua lenta e tenace resistenza. Si difendeva cortesemente, senza crederci e, oso dire, pensando ad altro. Le chiesi se era sposata, questo sapevo chiederlo. Scosse violentemente la testa. Allora, quale ostacolo si opponeva ai miei desideri abbastanza giusti? “Su, sorella, coraggio, la scena biblica è durata anche troppo!” dissi. Ma cominciavo a non capirci più, e la lasciai. Ebbe il torto di sorridere, e la ripresi; e daccapo si difese. […]

La lotta continuò ancora, e avrebbe potuto continuare: anch’io pensavo ad altro. E invece, com’era cominciata così bruscamente finì: ma evitava di guardarmi. (p. 22-23)

Mariam respinge ripetutamente le avances del tenente, opponendogli una resistenza

istintiva ma poco convinta, come se presentisse già l’inevitabile sconfitta cui sta andando

incontro. La ragazza inoltre non ha ancora varcato le soglie dell’età adulta, è giovane e

forse anche lusingata di ricevere per la prima volta le attenzioni di un uomo. Il tenente,

da parte sua, è di nuovo preso da una febbre di conquista che lo rende impaziente di

concludere il rapporto con lei.

Per guadagnarsi la fiducia della donna e piegarla definitivamente alla sua volontà, il

protagonista mette in atto una serie di strategie che suscitano nella fanciulla stupore,

divertimento e gratitudine: inizialmente le regala un sapone dell’esercito, poi la intrattiene facendo disegni sul suo taccuino e infine le dona il suo orologio guasto. Il ricorso a questi

espedienti ha origini antiche e risale ai primi esploratori e viaggiatori coloniali. Quasi

sempre, l’intento che si nasconde dietro questi gesti è quello di ottenere la venerazione dei vinti, mostrando loro prove tangibili di una società evoluta e civilizzata.

Un altro topos coloniale adoperato da Flaiano è quello dell’accostamento della donna nera

ad elementi naturali e paesaggistici, con l’effetto di sottolineare, una volta di più, la sua

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prima apparizione: «Tra gli alberi c’era una donna che stava lavandosi. La donna non si

accorse della mia presenza. Era nuda e stava lavandosi a una delle pozze, accosciata come

un buon animale domestico» (p.16). «Un buon animale domestico» è una metafora

zoologica pregnante, tramite la quale il narratore sminuisce la donna dal rango di persona

a quello di cane, animale fedele, remissivo e obbediente. Tali erano infatti le qualità

attribuite alle indigene quando dovevano rapportarsi all’uomo bianco.

La ragazza diventa inoltre agli occhi dell’europeo un essere la cui dignità si situa molto

al di sotto di quella di una donna europea e appena al di sopra di quella di una pianta:

Eppure, non mi sembrava che valesse tanto la vita di una persona che si incontra per sbaglio – sì, per sbaglio –, la vita di una persona che ci è sembrata qualcosa di più di un albero e qualcosa di meno di una donna. Non dimentichiamoci che eri nuda e facevi parte del paesaggio. Anzi, eri qui a indicarne le proporzioni.” (p. 218)

Notiamo a questo punto anche la presenza di un altro topos strettamente correlato al

precedente, ossia la perfetta fusione della donna con la vegetazione e il paesaggio

circostante, di cui diventa «pura componente cromatica e scenografica dello spettacolo

ambientale107». Nel passo che segue, il narratore afferma che il turbante bianco indossato

da Mariam era l’unico elemento che permetteva di distinguerla dalla natura di quel luogo, rompendo l’armonia della figura femminile con il paesaggio in cui si trova immersa. Il tenente – ignaro del significato di quell’indumento – non è ancora consapevole del fatto

che quel pezzo di stoffa avrebbe poi capovolto in maniera drammatica la sua sorte:

Per lavarsi la donna aveva raccolto i capelli in una specie di turbante bianco. Ora che ci penso: quel turbante bianco affermava l’esistenza di lei, che altrimenti avrei considerato un aspetto del paesaggio, da guardare prima che il treno imbocchi la galleria. Quel fazzoletto di cotone definiva ogni cosa, e io non sapevo allora che avrebbe definito tutto. (p. 17)

107 F.SURDICH, La rappresentazione dell’alterità africana nei resoconti degli esploratori italiani di fine

Ottocento, in L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la littérature et la société italiennes. Représentations et témoignages. Actes du colloque de Caen (16-17 novembre 2001) publiés sous la direction de Mariella Colin et Enzo Rosario Laforgia, France, Presses universitaires de Caen, 2003, p. 47

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Risale alla letteratura esotica anche la più generale associazione tra donna nera e terra

nativa, due realtà che nell’immaginario del conquistatore europeo si sovrappongono

facilmente, perché condividono lo stesso destino di sottomissione, sfruttamento e morte.

L’Africa è una terra stanca e decadente, il cui fascino si rivela proprio in quello stato di torpore simile alla morte in cui è precipitata. Su queste basi, anche il narratore di Tempo

di uccidere stabilisce una connessione tra Mariam e la sua terra:

Profonda bellezza di lei nel sonno. Soltanto nel sonno la sua bellezza si rivelava completamente, come se il sonno fosse il suo vero stato e la veglia una tortura qualsiasi. Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati che non sorgeranno finché il “signore” non sarà sfinito dalla sua stessa immaginazione e le cose che inventerà non si rivolgeranno contro di lui. Povero “signore”. Allora questa terra si ritroverà come sempre; e il sonno di costei apparirà la più logica delle risposte. (p. 34)

La donna e l’Africa sono in grado inoltre di risvegliare nell’invasore forti pulsioni vitali, in un miscuglio di attrazione e repulsione:

Mi ricordava la prima volta che avevo inforcato un cavallo e avevo sentito tra le ginocchia una forza che obbediva aspettando tempi migliori. O l’acqua marina lontano dalla riva, che vi spinge e vi custodisce ma è pronta a inghiottirvi se appena vi mostrate indiscreto e volete saperne troppo: mi ricordava tutte le cose per le quali avevo provato un’attrazione incontrollata. (p. 35)

Ritornai verso gli alberi, lasciandomi condurre e la cosa ricominciò. Di nuovo lo sgomento di cadere in quel fiume secolare108, di nuovo la gioia di caderci e la certezza che era inutile uscirne (p. 27)

Pensavo che qualcosa era nato in me, che non sarebbe più morto109. Era nato al contatto di quella buia donna. Oppure avevo ritrovato qualcosa? (p. 24)

La descrizione dell’aspetto di Mariam, infine, è anch’essa espressione di un topos coloniale molto diffuso, nonché un ulteriore riflesso del punto di vista eurocentrico con

cui il narratore sta guardando la ragazza. Si tratta di una vaga somiglianza dei tratti

somatici della fanciulla con quelli delle donne bianche, coincidenza che rende l’indigena

108 Il «fiume secolare» è metafora della distanza temporale che separa il protagonista da Mariam, quei

«duemila anni» di differenza che ciascuno intravede negli occhi dell’altro. Il rapporto carnale con la donna trascina l’ufficiale indietro nel tempo come lo scorrere di un fiume, verso un passato ormai dimenticato.

109 Potrebbe trattarsi del senso di colpa per la violenza appena commessa, ma, più probabilmente, si fa qui

riferimento proprio a quelle passioni risvegliate dal contatto con l’alterità, al ritrovamento di un’identità perduta e ritrovata in quel mondo primitivo.

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straordinariamente bella agli occhi dell’italiano. Essa infatti è di «pelle molto chiara», ha

i capelli «lisci e non intrecciati» e le pupille «molto chiare, verdi e grigie, comunque non

di quel prepotente color nocciola comune a tutte le dame di quaggiù» (p. 29). La sua non

è un’alterità radicale, bensì sfumata, edulcorata. Subito il tenente attribuisce queste caratteristiche al sangue europeo che probabilmente scorre nella ragazza, segno di una

discendenza da antichi conquistatori bianchi e quindi di un passato in comune con il suo:

«Gli antenati portoghesi avevano lasciato un segno, a meno che non fosse stato il

proconsole o il cacciatore di leoni» (p. 29).

L’apprezzamento della bellezza esotica si mescola in questo caso con una componente del romanzo coloniale fascista, in cui – come abbiamo visto – il culto della razza

imponeva una giustificazione dello smarrimento del protagonista di fronte ad una bellezza

ammaliante come quella qui rappresentata da Mariam: quanto più chiaro era il colore

della pelle della donna, tanto più accettabile era il desiderio dell’eroe nei suoi confronti. Fedele ai canoni descrittivi della letteratura coloniale è anche la rappresentazione delle

altre figure femminili del romanzo, per le quali vale la stessa equazione donna-natura

impiegata per Mariam. Le ragazze con cui il protagonista si intrattiene insieme al

maggiore nella cittadina di A. hanno il sorriso «di un buon animale domestico che

aspetta» (p.72) e il loro odore è «un odore vegetale, da albero paziente» (p.72), oppure

«un odore denso, da animale cristiano»; nella loro abitazione «c’era odore delle sacristie

e dei cani randagi e anche l’odore delle tuberose in una stanza calda.» (p. 74).

Benché queste donne vengano ancora accostate dal narratore ad animali o piante, il loro

legame con lo stato di natura si è ormai indebolito: esse infatti vivono nelle case di una

cittadina frequentata da italiani e accolgono nelle loro stanze i “signori”, per i quali fanno

suonare un fonografo. Hanno imparato ad accettare il concubinaggio con scaltra

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Vi è infine la prostituta di Massaua, della quale abbiamo già parlato come figura antitetica

rispetto a quella di Mariam. Questa donna occidentalizzata, che non trova più riprovevole

offrire il proprio corpo in cambio di denaro, è l’esatto opposto dell’innocente fanciulla, che invece aveva rifiutato le monete del tenente come compenso. Nella casetta

dell’indigena, il protagonista si trova nuovamente alle prese con un atto di seduzione, ma stavolta le parti si sono invertite:

Ero alla finestra quando la donna mi venne vicino e fece il gesto di tendere le mani verso il mio collo. “Andiamo” disse. La fermai: “Non toccarmi”. Si scostò come se l’avessi schiaffeggiata, divenne livida, pensava che non valeva l’avermi ospitato e offerto i suoi risparmi, davvero sudati. Non potevo perdonarle di essere una donna diversa da quelle che popolavano le sue letture? “Perché?” chiese. Quando capì che non volevo discutere, scoppiò a ridere e ancora tese le braccia verso il mio collo. La fermai. Pensavo che stavolta toccava a me la parte di Mariam. (p. 152)

In questo contesto è la donna – ormai priva di pudore – a prendere l’iniziativa, mentre

l’ufficiale deve respingere le sue avances come Mariam aveva respinto le sue tra le frasche della boscaglia. Allo stesso modo, la prostituta che si sente offesa e indignata per

il rifiuto del tenente ricorda l’ira suscitata in lui dalla resistenza della giovane. Potremmo

quasi affermare che la figura di questa indigena «evoluta» sembra provenire più dal

background storico della guerra d’Etiopia – con il dilagare della prostituzione, il

fenomeno del madamato, ecc. – che dall’universo del romanzo coloniale.