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5. T EMPO DI UCCIDERE E I MODELLI COLONIALI

5.1 Rappresentazioni dell’alterità nella scrittura dell’Occidente europeo

5.1.1 Letteratura e colonialismo

La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo può essere considerata l’archetipo di tutti i successivi atti di conquista e sottomissione realizzati dalle grandi potenze europee occidentali ai danni delle civiltà preesistenti sui territori colonizzati.

L’arrivo dell’Ammiraglio genovese nel Nuovo Mondo rappresenta il primo modello di incontro dell’uomo moderno con un’alterità rispetto alla quale egli si percepisce immediatamente superiore dal punto di vista culturale e tecnologico, rafforzando e

legittimando così il proprio desiderio di conquista.

La presa di possesso dei territori americani da parte dei primi esploratori del XV-XVI

sec. si esplica – in un primo momento – nell’atto di nominare o ri-nominare le cose,

nell’intento di cancellarne l’identità precedente e di crearne una nuova, conforme agli schemi mentali e culturali dell’Occidente. Allo stesso scopo concorrevano altre azioni linguistiche messe in pratica dai colonizzatori, come ad esempio la stesura di lettere,

cronache, diari e testimonianze; da questi primi resoconti scritti di viaggiatori e missionari

– frutto di un tentativo di “testualizzare” il territorio circostante e quindi di appropriarsene da un punto di vista cognitivo – fecero seguito studi scientifici, storici e geografici, mirati

ancora una volta a inquadrare la diversità entro strutture conoscitive precostituite che ne

appiattivano l’originalità e le peculiarità, fino all’annullamento77.

Lo sguardo dei primi conquistadores sui nativi americani, al pari di quello dei successivi

esploratori a contatto con nuovi mondi, fu quindi filtrato da una coscienza europea

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fortemente centralizzante, intrisa di pregiudizi e fondata sulle istanze che promuovevano

l’azione coloniale stessa: come nota Sergio Zatti, nelle lettere di Cristoforo Colombo gli indigeni vengono dapprima descritti come “buoni”, “timorosi”, “ospitali” e “affabili”, ma non appena oppongono resistenza all’invasore divengono “cattivi cannibali”78.

Anche la presenza di figure femminili dalla sessualità deviata, bramose di unirsi

carnalmente ai loro conquistatori – nota ancora Sergio Zatti – era chiaramente una

proiezione, da parte dell’uomo occidentale, della sua stessa paura di confondersi con altre

razze fino allo smarrimento della propria identità. Il timore della perdita dell’integrità individuale si scontrava però inevitabilmente con l’appetito maschilista del possesso che, attraverso quella delle donne, sanciva anche la sottomissione di un’intera civiltà. Il primo romanzo della tradizione borghese europea, Robinson Crusoe di Daniel Defoe,

rappresenta non solo l’emblema della nascente società capitalista, ma anche un perfetto prototipo di narrazione coloniale. Pubblicato nel 1719, all’apice dell’espansionismo mercantile inglese, il romanzo pone al centro delle vicende il mercante Robinson, che,

naufrago su un’isola sperduta, riesce a sopravvivere in quel luogo ostile e a ricostruire, con l’intraprendenza caratteristica dello spirito puritano, il mondo protoborghese lasciato in patria; a partire poi dal suo incontro con un indigeno di pelle scura, da lui ribattezzato

Venerdì, egli diviene il modello del colonialista che non esita a sottomettere il selvaggio

e a cancellarne l’identità precedente attraverso l’imposizione di un nuovo nome. Robinson, come tutti i padroni, non mette mai in dubbio la sua superiorità né si mostra

desideroso di conoscere le usanze o la lingua del suo schiavo. L’atteggiamento europeo

di fronte alle culture straniere infatti, anche quando l’esistenza di tali culture è riconosciuta, è sempre di diffidenza o di disprezzo: tale negazione o svalutazione del

78 S.ZATTI, L’universo degli Studies: gli studi postcoloniali, in S.BRUGNOLO,D.COLUSSI,S.ZATTI,E.

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diverso si traduce inevitabilmente – come abbiamo già visto – nell’annullamento della

nomenclatura locale.

Il rapporto tra esploratore e indigeno non è tema originale di Defoe. Già un secolo prima

Shakespeare, nella Tempesta, aveva rappresentato l’allegoria dell’incontro coloniale

attraverso l’indagine della dialettica servo/padrone. Protagonista è ancora una volta un uomo bianco, Prospero, approdato in un’isola dei Caraibi in seguito a un naufragio. In queste terre sconosciute l’europeo incontra Caliban, il sovrano dell’isola, con il quale deve necessariamente scendere a patti. Tuttavia Prospero, pur essendo un uomo colto e

illuminato, si comporta esattamente come tutti i conquistatori occidentali: insegna a

Caliban la sua lingua, gli impone i propri usi e costumi, si appropria di tutte le cognizioni

dell’indigeno spacciandole per proprie scoperte. Per gli spettatori del Cinquecento, la commedia shakespeariana si pone come parabola dell’incontro coloniale allora nascente, fondato su due ruoli ben riconoscibili: quello dell’eroe occidentale buono e del selvaggio malvagio. Non è un caso che la Tempesta, come Robinson Crusoe, sia stata oggetto di

numerose riletture in chiave revisionista da parte della critica postcoloniale.

Nel corso del Settecento, le popolazioni di pelle nera divennero metafora di una

condizione esistenziale oscura, che doveva essere rischiarata dai lumi della ragione

occidentale. Si era capillarmente imposto l’assioma “bianco=luce; nero=buio”, con tutte le implicazioni ideologiche, politiche e morali da esso derivanti. L’Europa era il centro del mondo, la patria conosciuta, razionale, evoluta; le colonie la periferia irrazionale,

anormale e sottosviluppata. Pertanto, conformemente ai criteri della ragione,

all’Occidente spettava il compito di addomesticare i popoli d’oltremare portando loro la civiltà.

Nell’Ottocento, con il diffondersi del darwinismo sociale, l’espansione territoriale europea venne interpretata come la prova più evidente della teoria dell’evoluzione

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naturale: poiché gli occidentali apparivano più forti nella lotta per la sopravvivenza, essi

si posero al vertice di una gerarchia biologica comprendente le diverse razze umane.

Mentre la Spagna iniziava a perdere le sue colonie centro e sudamericane già agli inizi

del XIX secolo e la Francia veniva travolta prima dalla Rivoluzione poi dall’epopea

napoleonica, l’Inghilterra viveva un momento di notevole stabilità imperiale i cui effetti si manifestarono anche in letteratura. Rudyard Kipling, in particolare, riuscì ad incarnare

meglio di altri l’immagine dell’imperialismo anglosassone, inteso come luogo di duro lavoro, di servizio e di missione umanitaria spesso non ricompensata. A differenza del

contemporaneo esotismo europeo, in particolare francese, in cui le terre coloniali

venivano viste ora come utopie meravigliose, ora come territori di conquista abitati da

selvaggi nobili o incivili, nel mondo di Kipling trionfano il coraggio, la lealtà, la

disciplina, l’eroismo e lo spirito di avventura dell’uomo bianco. L’ideologia filoimperiale di Kipling trova la sua più evidente realizzazione in Kim (1901), romanzo in cui il

protagonista passa dallo status marginale di europeo nelle colonie a una posizione

dominante all’interno del mondo dei conquistatori. L’autore mostra in queste pagine una fede incrollabile nel progetto dell’imperialismo inglese la cui necessità non viene mai messa in discussione; gli stessi colonizzati, del resto, mostrano di avere ormai accettato

il dominio inglese e di essere soddisfatti della loro condizione.

Ben diverso è però l’atteggiamento di Kipling nei suoi racconti indiani. Anche se l’ideologia che essi veicolano è la medesima di Kim – e residui di eurocentrismo permettono di vedere ancora l’uomo bianco come il portatore del “fardello” della civilizzazione – la descrizione del mondo indiano risulta molto più inquietante: si avverte

infatti il terrore di non riuscire a sopportare quella realtà così diversa, di regredire allo

stato barbarico, di essere contagiati da un’alterità selvaggia. Scrive Silvia Albertazzi a questo proposito:

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Quasi tutte le short stories di Kipling possono essere annoverate in quello che gli inglesi chiamano

Empire Gothic, narrativa d’orrore ambientata nei più reconditi recessi dell’impero, alla cui base

è sempre – sia che le storie di cui tratta abbiano luogo in India, in Africa o nelle desolate praterie del Canada – il terrore di assimilarsi agli indigeni (going native, secondo l’espressione inglese) lasciandosi sedurre fino alla pazzia da quei mondi orribilmente diversi79.

L’idea della contaminazione è insopportabile per l’uomo bianco che, di fronte a questa eventualità, appare del tutto impotente. Ecco allora che la narrativa coloniale diventa un

tentativo di definire l’incomprensibile attraverso le categorie dell’immaginario gotico, caratterizzato da paesaggi sconfinati, individui deformi, presenze misteriose, pratiche

occulte. Ma questi elementi, lungi dall’esorcizzare la minaccia di un mondo inafferrabile, finiscono per amplificarne l’orrore.

La paura del contagio è spesso anche paura del contatto fisico e della sessualità selvaggia.

Nella letteratura coloniale ed esotica si riscontrano di frequente pregiudizi sulla fertilità e

ipervirilità degli indigeni e sull’insaziabilità erotica delle indigene. Lo stesso Flaubert, in

Salambô ed Erodiade, racconta di inquietanti creature femminili, donne misteriose e fatali

capaci di suscitare nell’uomo bianco fantasie sessuali trasgressive e inconfessabili. Si tratta ovviamente di una marca sessista che rappresenta le donne straniere attraverso il

filtro dell’immaginario erotico dell’uomo occidentale.

Ma il grado più alto di perversione si trova nell’archetipo privilegiato delle storie

coloniali: lo stupro. Nella narrativa coloniale europea, lo stupro di un indigeno su una

donna bianca esprime simbolicamente gli incubi di sopraffazione dell’uomo occidentale,

come accade in A Passage to India (1924) dell’inglese Forster. Al contrario, la violenza

su una donna nera da parte di un bianco è stata da sempre tollerata -anche in letteratura-

come un naturale atto di sottomissione delle popolazioni colonizzate.

Un altro modello testuale affermatosi alla fine del XIX secolo è quello della narrazione

di avventure esotiche di Stevenson e Conrad. Le opere di questi due autori sono di

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particolare interesse per il loro sguardo critico sulla legittimità dell’impero e dunque sull’esito della missione coloniale, che viene però contestata senza un effettivo e completo distacco da un’ottica di tipo eurocentrico.

Come vedremo meglio in seguito, Heart of Darkness, romanzo capitale della letteratura

coloniale, è al tempo stesso anche una radicale critica demistificatrice – condotta

dall’interno del sistema imperialista – della “missione di civiltà” che l’uomo bianco sarebbe chiamato a compiere nei confronti dei territori colonizzati, ma che in realtà

costituiva da sempre un alibi per la sua libido di potere e conquista.

5.1.2 L’Africa nell’immaginario degli esploratori europei di fine Ottocento: la letteratura