Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le
1.1 Il nucleo della posizione di Protagora
Per fornire un quadro generale della posizione protagorea vorrei partire della testimonianza celebre ma sottostimata di Plutarco (Pericle, 36), quella che racconta di una disputa che sarebbe durata una giornata intera tra Pericle e Protagora, che verteva su chi si sarebbe dovuto considerare responsabile/colpevole/causa (“aitíous”) della morte accidentale di un tale colpito da un giavellotto durante una gara di pentathlon. Vengono prese in considerazione tutte le possibilità (il giavellotto, chi lo aveva lanciato, gli arbitri ecc.), cioè le asserzioni sensate in materia, individuate nello spettro più ampio possibile, e si cerca di valutare/giudicare quale fra esse funzioni meglio, “secondo il ragionamento più corretto” (“katà tòn orthótaton
lógon”). Benché tramandato per la sua stravaganza, questo aneddoto è secondo me
molto prezioso, perché restituisce uno stile di pensiero e la natura concreta dei dibattiti protagorei; la cosa notevole è che qui non c'è traccia né di scetticismo (si cerca ciò che è più convincente e perché), né di relativismo (non tutte le opinioni sono pari, e c'è una procedura discorsiva, razionale/decisionale per stabilire cosa funziona meglio ed è da considerare con ciò oggettivo), né ancora di sensismo- fenomenismo (ciò che viene valutato non è una percezione, ma le asserzioni possibili in materia specifica, di aitía: si tratta cioè di un giudizio di secondo livello sulle
enunciazioni).
Credo che l'aneddoto possa fornire indicazioni molto serie sul tipo di analisi razionale che Protagora introdusse a metà del V secolo, e dare con ciò alle celebri quanto enigmatiche enunciazioni protagoree superstiti un significato diverso da quello della tradizione antica e moderna. Quello che farò subito sarà estrarre alcuni aspetti determinanti di questa forma di discorso/argomentazione, tenendo conto che non si tratta di un caso limite (o addiritttura bizzarro): costituisce invece una modalità ben precisa, carica di presupposti sulla natura del discorso, della comprensione, della verità. Una prova chiara della rilevanza di questo aneddoto (che contiene un'espressione chiave del pensiero protagoreo) è nel fatto che la sua modalità di discussione e di confronto si trova replicata esattamente (e proposta in modo
programmatico, come mostrerò) in Erodoto, nella celebre disputa tra i persiani sulle forme di governo contenuta nel terzo libro delle Storie. Anche qui vengono asserite e confrontate più opzioni differenti di giudizio, sostenute dalla ricerca (più estesa possibile) di tutti gli argomenti migliori a loro favore51.
Si possono delineare alcune caratteristiche notevoli di questa forma di indagine- discussione: a) il reperimento del campo più ampio possibile di enunciazioni-dóxai su un certo argomento, cosa che avviene in modo molto diverso dall'intento aporetico che viene normalmente attribuito alla “sofistica”; al contrario, si cercano tutte le opzioni sensate fra le opzioni offerte da ciò che noi oggi chiamiamo linguaggio naturale, dal sistema dei suoi giudizi e dall'immaginazione. Ci si trova precisamente di fronte a una procedura antiscettica, che si svolge proprio dando credito a tutte le possibilità assertive che hanno un certo grado di ragionevolezza52 e di evidenza
doxastica; b) tali opzioni sono perfettamente comprensibili e confrontabili, (è
possibile dire quale convince di più, i.e. la più forte, e perché, e scartare quelle che non hanno alcun senso apprezzabile/immaginabile), esiste cioè un campo comune del discorso in cui esse possono essere asserite l'una accanto all'altra (“et...et...”) e si può discutere e valutare (assessment) la loro evidenza53: esse sono tutte “vere” o “oggettive” nella misura in cui sono cariche di evidenza doxastica, ma è possibile valutare e scegliere l'opinione (più) corretta (o il “discorso più forte”) entro questo campo discorsivo; c) bisogna in particolare notare con attenzione il fatto che per
pensare e valutare queste opzioni bisogna asserirle: è solo con l'atto generale
dell'asserzione che noi per così dire “guardiamo dentro” gli enunciati (nel loro contesto discorsivo), ne cogliamo cioè il contenuto e ne valutiamo il grado di evidenza. La comprensione e valutazione umana (significato e giudizio insieme) sono possibili solo dall'interno del linguaggio e nel contesto assertivo-discorsivo, non partendo da elementi assoluti (per esempio aitía/aítios) già dotati di un significato univoco o definito - al contrario si usano tutti i sensi immaginabili letterali e non, che
riusciamo a cogliere, grasp. Ciò che comprendiamo e valutiamo sono esiti discorsivi;
d) si osservi ancora come essenziale in questa concezione sia la capacità discorsiva di secondo livello di riferirsi a quelle enunciazioni, a ciò che intendono dire e in che
51 Prenderò in considerazione Erodoto e altri passi decisivi delle Storie a sostegno delle mie tesi più avanti, nel secondo capitolo.
52 Si veda ancora in Erodoto il ruolo fondamentale giocato dallo eikós.
53 Cfr. le tesi fondamentali sulla necessità dell'asserzione e del confronto tra opinioni espresse da Artabano a Serse nel settimo libro delle Storie, v. par. 2.1.
senso, e anche che tipo di asserzioni siano: in altri termini la capacità di parlarne di “toccarle” attraverso una serie di nozioni discorsive, o di secondo livello54. L'ambito del discorso e del pensiero razionale non è solo l'ambito in cui si esprime il proprio pensiero per enunciazioni primarie, che “parlano” direttamente, tout court o da sé55, ma in cui ci si riferisce alle asserzioni e al discorso ed è possibile discuterle, motivarle ecc. nella stessa “lingua” e con lo stesso tipo di evidenza con cui esse parlano. Più in generale questo significa che non si può dire qualcosa senza al contempo riferirsi a questo atto enunciativo, e questo è il carattere interno e generale dell'asserzione.
Il quadro generale che ho appena abbozzato consente di valutare meglio le scarne enunciazioni protagoree, e anche di motivare in modo secondo me più persuasivo la loro portata dirompente per le concezioni di Socrate e dei suoi successori. L'intero lavoro che segue è teso a confermare e a dare sostegno concreto a questo nucleo di concezioni, anche attraverso il confronto profondo con Protagora che si può rintracciare in molti autori coevi; e a fornire con ciò uno sguardo essenziale sui problemi dell'asserzione e del discorso nel V secolo. In questo paragrafo rileverò innanzitutto il nesso di questo quadro con gli asserti protagorei e le informazioni/confutazioni offerte dai suoi avversari.
1) Un importante nucleo di posizioni attribuite a Protagora riguarda alternativamente il fatto che “tutto è vero” o che “non è possibile contraddire” (ouk
ésti antiléghein)56. Risulta d'altro canto che proprio Protagora avrebbe “fondato”
54 A partire da quella di orthòs lógos. Protagora è colui che avvia l'analisi anche pragmatica dei tipi di discorso e di atti linguistici, cfr. la notizia più estesa di Diogene Laerzio, oltre ad Aristotele, Poetica 19.
55 Che poi è il caso, si vedrà, delle enunciazioni “assolute” dei sophoí.
56 Platone, Eutidemo 286b e Sesto Empirico, Contra Logicos I 60, (cfr. anche il Sofista di Platone, in cui viene attribuita al “sofista” la posizione che non esista il falso, 260 c-d; idem nel Cratilo, 429 c- d). La stessa formula è attribuita da Aristotele ad Antistene (anche Diogene Laerzio osserva che fosse di Antistene e che fu poi discussa da Protagora), che doveva aver formulato un'aporia importante (di cui Aristotele tiene particolarmente conto, come si vedrà): quella per la quale gli enunciati non possono entrare in contraddizione tra loro perché si comportano come nomi, e significano dunque ognuno qualcosa di individuale (e come tale diverso, non confrontabile). Ma la situazione di Protagora che propongo qui si trova agli antipodi di questa idea: per lui siamo in grado di comprendere e confrontare gli asserti perché essi sono espressi in un linguaggio comune (sono inoltre enunciazioni, per cui costituiscono un livello ben diverso dai nomi) e condividono esattamente la generalità in virtù della quale soltanto possiamo confrontarli. Mostrerò nel terzo capitolo (par. 3.1) come Aristotele abbia grande considerazione di questa idea.
l'antilogica57, e raccolto loci communes attraverso questo principio ordinatore. L'esempio da cui sono partito mette tuttavia di fronte a una situazione differente da quella poco perspicua di questi vaghi accenni. L'analisi razionale che ho evocato ha infatti chiaramente un carattere eterogeneo, politropo: si tratta di prendere in considerazione i discorsi e le asserzioni possibili e metterli in relazione, confrontarli, più che sviluppare forme di argomentazione monolineare. Più possibilità di giudizio (non solo due antitetiche fra loro) possono essere asserite e accostate in uno spazio generale, comune del discorso, in cui esse vengono considerate in relazione tanto al loro senso che alla loro persuasività e rilevanza. In particolare qui non si vede quel
pivotal role della negazione, ossia il ruolo dell'alternativa secca (sì o no, aut aut), che
invece caratterizza ciò che più tardi si chiamerà “dialettica”. Lo “et...et...” di Protagora appare invece come una ricognizione vasta di giudizi/opzioni su un argomento58, e a questo livello assertivo tutte le opinioni sensate sono “accettate”: si può dire che tutto è “vero” (nella formulazione aporetica dei suoi avversari) per il fatto di essere portatore di un qualche grado di evidenza/oggettività sottoponibile a discussione; ma questo non esclude la capacità di confrontare e decidere/scegliere quella più corretta o più forte59. Su questo piano è possibile persino asserire un enunciato e la sua
negazione, se ci sono dei sensi in cui entrambi hanno plausibilità.
Mi pare che in questo modo lo “ouk ésti antiléghein”, questa formula residuale così generica e difficile da identificare, assuma un significato più perspicuo60. Si noti inoltre come sia difficile parlare di qualcosa come un principio di non contraddizione nei termini logico-formali che saranno inventati dopo. Per un verso infatti vengono accettate più opzioni assertive, che nello spazio della discussione si contrappongono
materialmente in molti modi, non semplicemente come un asserto e la sua
57 Antilogie e Dissoì Lógoi sono tra titoli ipotetici di Protagora tramandati.
58 In termini moderni non è che una ricognizione nel campo più esteso delle possibilità assertive- discorsive, dei contenuti intenzionali (generali) che esse toccano.
59 Il che non esclude che il Protagora maestro di retorica abbia potuto insegnare anche a “rendere più forte il discorso più debole". Attaccare l'insegnamento retorico e agonale per colpire la concezione del linguaggio e della conoscenza è un luogo comune dei suoi avversari e della critica generica alla “sofistica”. Il kreíssōn lógos ha al contrario un significato molto profondo in termini di forza/prevalenza evidenziale, ed è persino ripreso da Aristotele come argomento “pesante” a favore del principio di non contraddizione, cfr. infra par. 3.4.
60 Cfr. infra par. 2.5 le conferme e le osservazioni più specifiche sul problema dello antiléghein che farò considerando passi di Erodoto ed Euripide.
negazione61. Per un altro verso ci si trova di fronte alla situazione per cui, detto in termini aristotelici, non ogni antifasi è contraddizione. Non esiste un'esclusività a priori contenuta nell'uso di un termine, un operatore “ricorsivo”, la negazione, e non esiste una contraddizione che “scatti” in automatico per effetto della sua occorrenza
formale: anche l'esclusione o la contraddizione, quando si trovano, sono il risultato di
una valutazione interna al linguaggio, cioè una valutazione materiale, e di una scelta in base ad essa62. In una parola: è il carattere materiale dello assessment, e il fatto di valutare esiti linguistici (assertivi/discorsivi) il punto fondamentale, non la nostra contraddizione logica.
2) Il centro della posizione di Protagora (e la pietra dello scandalo per i socratici) è la rivendicazione del “principio” del dokeîn, e del carattere ad hominem della conoscenza63. La mia tesi, che ho introdotto attraverso la testimonianza di
61 Lo antiléghein è così piuttosto un fatto pragmatico. Si può anche richiamare qui quanto dice Austin sulla contraddizione in Come fare cose con le parole: esistono molti modi di contraddire oltre a “p e non p”, tutti quelli in cui ci si trova in un caso di incompatibilità materiale di asserti (es.: “è vero ma non ci credo”).
62 È un modo di intendere comprensione e giudizio descritto bene da Putnam, cui rimando brevemente in questa nota. Per usare una sua formulazione, noi possiamo accedere a nozioni oggettive solo dall'interno delle nostre prestazioni intenzionali: per spiegare la dimensione del “significato” e del riferimento, “bisogna, per così dire, guardare dall'alto [look from above] - […] dal punto di vista delle nostre nozioni intenzionali, piuttosto che cercare di spiegarle dal basso [from below]” (cioè da livelli sottodeterminati, come le scienze e vari tipi di naturalismo, “Realism without absolutes”, in Words and Life, pp. 290-1). Si può aggiungere: dall'interno delle nostre stesse prestazioni linguistiche o discorsive, dal loro esito materiale, ossia dalla nostra capacità pragmatica di coglierne uno o più sensi, come avviene per Putnam persino per le nozioni logiche più elementari (come quella di coerenza) e per la matematica (cfr. per esempio “Rethinking mathematical necessity”, ivi, pp. 256 e 354, o Etica senza ontologia, pp. 56-57). Anche se Putnam non sviluppa oltre il problema della natura discorsiva di questa dimensione, è fondamentale anche per lui il fatto che qui ci si trova di fronte a valutazioni di secondo livello, che sono centrali tanto per l'etica, poniamo, che per la matematica: cfr. ancora Etica senza ontologia, pp. 103-7. In ultima analisi la distinzione quineana tra asserzioni/nozioni di primo livello (oggettive) e di secondo non regge (“A comparison of something to something else”, in Words and Life, v. pp 347-8); e ciò che conta è “l'oggettività del discorso” (Etica senza ontologia, pp. 110-1), non l'individuazione naturalistica di un campo di entità privilegiate. Cfr. supra Introduzione e l'Appendice al terzo capitolo per il mio punto di vista.
63 Il celebre frammento dell'homo mensura (DK 80 B1) è riportato da Platone (Teeteto, cfr. anche
Cratilo 386a) e Sesto Empirico (Contra Logicos I); i riferimenti ad esso sono poi innumerevoli, per
Plutarco, è che sia molto più semplice64, smarcandosi dalle indicazioni incongrue e spesso chiaramente manipolatorie della tradizione “nemica”, intendere il ruolo attivo di questo dokeîn in termini di valutazione (assessment) interna a tutto ciò che
asseriamo. Per Protagora noi pensiamo e conosciamo (e siamo così in grado di
accedere a un qualunque grado di oggettività o di verità) per il fatto di essere capaci di asserire e insieme valutare la nostra enunciazione, i suoi esiti; e l'uomo è, detto in breve, nient'altro che tale capacità doxastica interna all'enunciazione e al discorso. Questo non ha nulla a che vedere con l'arbitrarietà di ciò che “significhiamo” o “giudichiamo”65, ma è piuttosto una presa di posizione sulla natura dell'evidenza di ciò che pensiamo o diciamo, dei nostri contenuti intenzionali: per Protagora è un'evidenza interna all'asserzione, intimamente discorsiva. Tanto alla base della
comprensione del linguaggio (in che senso diciamo qualcosa ecc.) che della valutazione di quale enunciazione sia vera/più pertinente (o giusta, accettabile
ecc.66), c'è un dokeîn esercitato dall'interno della dimensione linguistica materiale, cioè dell'asserzione o del discorso67. È la natura discorsiva, non assiologica e antinaturalistica68 di questa evidenza il grande motivo del dissenso dei socratici. Ed è importante osservare come questa posizione contenesse una tesi essenzialmente “modernista” sul linguaggio, sosteneva cioè la capacità umana e sociale di
64 Direi proprio realistico, se non si vuole ridurre un pensatore come si vedrà fondamentale sia per la tradizione socratica che per l'opera di Erodoto, Euripide, Tucidide (v. secondo capitolo) a un nucleo esotico di asserzioni paradossali o provocatorie.
65 Come argomenta Aristotele contro i “sofisti”, v. per es. Soph. El. 10 (cfr. infra terzo capitolo). Questa mia impostazione equivale anche a escludere letture soggettivistiche della posizione di Protagora.
66 Qui c'è un'ineliminabile componente pragmatica che fa parte del fatto stesso dell'intenzionalità. 67 Preciso qui che la nozione di “discorso” che impiego non è altro che un'estensione di quella di
asserzione: il discorso sta a qualsiasi “oggetto” verbale intenzionale in generale (dalla battuta al libretto di istruzioni al romanzo) come l'asserzione sta all'enunciato o alla forma del giudizio classicamente inteso. Inoltre la caratteristica di questa asserzione/discorso (che, per ragioni logico- schematiche a cui accennerò, non è realmente possibile distinguere) non è affatto la relazione speciale alla verità che ha intrigato tanti filosofi anche recenti, ma semplicemente l'intenzionalità: ossia il dire qualcosa. Asserire non è una vis speciale del linguaggio in mezzo a tante altre (domandare, narrare, prendere in giro ecc.), magicamente ed elettivamente agganciata alla verità, ma è la dimensione più generale del dire, dell'enunciazione, alla quale ci si “riferisce” per forza in qualsiasi “atto” intenzionale.
68 Affronterò più nel dettaglio il problema della portata antinaturalistica di questa posizione nel terzo capitolo, cfr. anche l'Appendice ad esso.
riformulazione (in modi nuovi e più adeguati) delle asserzioni e di ciò che vale in
generale69.
Questo quadro equivale a dire, espresso in termini moderni, che ogni asserzione non è solo enunciazione primaria, ma contiene un'evidenza di secondo livello, che è insieme pragmatica (mi riferisco a cosa sto facendo parlando, dicendo) e discorsiva (che tipo di asserzione/discorso sto facendo)70. La “scoperta” di Protagora è anche che questo dokeîn interno all'asserzione è a sua volta un fatto
discorsivo: noi asseriamo e siamo insieme capaci di riferirci discorsivamente a questi
stessi asserti e alla loro persuasività, cioè di giudicarli, spiegarli/parafrasarli, motivarli71; l'asserzione e la capacità di parlarne sono lo stesso “elemento”, costituiscono lo stesso livello enunciativo. C'è un elemento comune e generale, la
discussione, in cui ciò che diciamo viene valutato e confrontato; essa non è di fatto
nemmeno un “metodo” o una modalità specifica, ma è semplicemente il modo generale, “koinón”, di funzionare del linguaggio e dell'intelligenza umana72.
La formulazione dell'homo mensura reca una traccia importante di questi problemi di fondo. Esso infatti non afferma seccamente che l'uomo è misura delle cose, ma enuncia una sorta di tropismo che mette in luce la natura o lo “spessore”
enunciativo di ciò che sappiamo/conosciamo: “L'uomo è misura di tutte le cose, di
quelle che sono come sono [hōs éstin], di quelle che non sono come non sono [hōs
ouk éstin]”73. Diversi aspetti della posizione protagorea e delle obiezioni dei suoi
69 Come osserva acutamente Ostwald, si trattava di una “teoria dello sviluppo culturale” (From
Popular Sovereignty to the Sovereignty of Law, p.262) .
70 Cfr. ancora l'opera essenziale di Protagora di classificazione di tipi di “atti” linguistici e insieme l'inizio, associato sempre a lui (e a Prodico), della critica della letteratura, dei suoi generi: ossia un'indagine ad ampio spettro sulle nozioni di secondo livello, che si riferiscono al discorso, ossia al linguaggio intenzionale.
71 Il che vuol dire, sempre parlando un linguaggio più moderno, che non esiste propriamente una
lingua senza nozioni generali e di secondo livello di questo tipo.
72 Si noti come al contrario di qualsiasi relativismo inteso in senso banale, e di qualsiasi soggettivismo, il dokeîn costituisce esattamente il modo di accesso a tutte le nozioni generali, tà
koiná: sosterrò questo fatto anche sulla base di Erodoto e di Aristotele nel secondo e terzo
capitolo.
73 Esiste una lunga controversia sulla lettura del “come” (“hōs”) in senso modale o no (a favore Kerfeld, I sofisti, contra Di Benedetto, “Protagora ed Euripide” e Burnyeat, “Protagoras and Self- Refutation in Later Greek Philosophy”, p. 45). Nella mia lettura il problema non è la modalità o meno, ma il fatto che lo “hōs” sottolinea il carattere enunciativo del suo contenuto (si può tradurre anche “in quanto sono”); cfr. le importanti osservazioni testuali di McDowell sul dettato di Protagora
avversari diventano più trasparenti se si parte da queste indicazioni di fondo.
È intanto già chiaro che non sono qui in gioco posizioni sensiste o fenomeniste; si può anzi ribaltare il senso di questo tipo di esempi, anche senza considerarli dubbi e attribuendoli a Protagora. Se il dokeîn inerisce all'asserzione in generale - e pertanto la dóxa non viene considerata in un rapporto di contrasto o di dualismo con la verità, che sarà invece il grande assunto socratico - non esiste nemmeno differenza fra giudizi ovvi o semplici e giudizi complessi o problematici: essi sono tutti retti dallo stesso tipo di evidenza. Gli esempi sensisti ed elementari che ci sono stati consegnati da una tradizione avversa (per es. dire che se il miele sia dolce dipende da colui al quale sembra), sono il tipico caso filosofico di trivia o giudizi ovvi (del tipo moderno “la neve è bianca”) che servono a scopi fondazionali (eliminando o rendendo impalpabile ogni elemento pragmatico-assertivo); messi in crisi o in dubbio questi, sembra infatti che non sia possibile dire più nulla o esprimere alcun altro giudizio: è un vicolo cieco in cui si viene facilmente indirizzati sia dalla filosofia sia antica che moderna. In realtà nel caso di Protagora si spiegano molto meglio tenendo conto del loro carattere estremo: anche giudizi di questo tipo, che sono quanto di più immediato, primario, si possa pronunciare74, rientrano in una valutazione contestuale (per esempio di pertinenza) e discorsiva75. L'evidenza che qui si ricerca non è, di nuovo, nulla di “percettivo”: è l'evidenza che pertiene alla dimensione del linguaggio, alla valutazione di qualsiasi asserzione o discorso76.