Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le
1.4 Socrate: politica e discorso
Non è chiaro se Socrate sostenesse davvero la (apolitica) identificazione della virtù con le leggi che ci propone Senofonte nei Memorabili, perché almeno qui è evidente una elaborazione selettiva del “materiale” socratico, volta alla nuova situazione politica ed ideologica del IV secolo. Ma non c'è dubbio che Socrate ebbe un impatto enorme, culturale e anche politico, sulla vita ateniese, e che la svolta della cultura oligarchica successiva al fallimento dei colpi di stato alla fine del V secolo vada nel solco del suo insegnamento, e non del naturalismo radicale della sofistica di Crizia o Antifonte. Socrate aprì letteralmente una nuova dimensione culturale e intellettuale, una dimensione fortemente antagonista alla filosofia “democratica” di Protagora. Vorrei contenere entro pochi punti ciò che penso a proposito.
La grande invenzione di Socrate è stata quella di un genere di discorso e di spazio intellettuale completamente diverso tanto da quello sapienziale ed elitario (sophoí che propongono ogni tipo di asserzioni e di argomenti su tutto) tanto da quello pubblico-politico approfondito dai sofisti. È evidente che Socrate si sia confrontato a fondo con i meccanismi del linguaggio messi al centro dalla sofistica; anzi le fonti che abbiamo, che perlomeno ci restituiscono la forma dei “flussi” socratici167, ci consegnano innanzitutto l'elaborazione di una serie di modalità retorico-argomentative originali (il tí estí, opposizione fra qualcosa “in sé” o
166 Elleniche I 7, 12-15.
167 Alle fonti normalmente impiegate vorrei aggiungerne una normalmente poco considerata, quanto invece dettagliata e critica: l'Ippolito di Euripide. Euripide mette in scena nientemeno che dei flussi socratici (l'evidenza testuale è indiscutibile), e li fa drammaticamente naufragare contestando alla radice la nozione di sōphrosýnē promossa da Socrate. Non si tratta affatto di una “parodia” (come quella abbastanza esterna e generica delle Nuvole di Aristofane), ma di una precisa presa di posizione intellettuale di Euripide, sostenuta da una concezione differente del linguaggio. Questo Euripide del terzo decennio del V secolo (le opere più tarde vireranno rispetto alle idee dell'Ippolito) propone persino, in alternativa alle pretese discorsive socratiche un uso ponderato dell'opinione! Su Euripide si veda il capitolo successivo, par. 2.5.
“relativamente ad altro”, la modalità interrogativa attraverso due alternative contrarie e con ciò conduzione dell'interlocutore all'aporeîn) che sembrano essere concepite in modo tale da non lasciare scampo entro questo spazio discorsivo inedito. La forza demonica di questo formidabile inventore ed esecutore di un sistema di tricks dovette essere grande, se Socrate fu capace di inaugurare non solo un nuovo discorso filosofico, ma anche un'intera dimensione dialogica e letteraria, che resterà impressa nella cultura non solo antica: quel “genere socratico” di cui parla Bachtin nel
Dostoevskij168.
A questo aspetto se ne può aggiungere un altro: il mimetismo sociale e culturale. Socrate è tanto elitario quanto popolare: è tanto il maestro degli oligarchi quanto l'iniziatore di una filosofia popolare e di generi popolari: nei Memorabili Senofonte lo chiama ripetutamente “demotikós”, anche se disprezza l'assemblea e gli istituti politici democratici. Si inquadra benissimo, pur con tutta la sua eccezionalità, in un fenomeno culturale cui Tucidide accenna nel primo libro delle
Storie (I, 6, 3-4): quello per cui le élite ateniesi del V secolo progressivamente non si
distinguono più dal resto del corpo sociale attraverso contrassegni esteriori, come la vecchia aristocrazia, ma si confondono con il popolo169. Tutto ciò ha a che fare evidentemente con i mutamenti politici e culturali profondi di una potenza imperialista in cui la battaglia ideologica per l'opinione pubblica diventa decisiva negli ultimi decenni del V secolo.
Ma a parte l'aspetto politico e dei conflitti ideologici del V secolo (che sono a mio parere centrali per comprendere anche le posizioni dei principali attori filosofici), in che consiste la “cosa” di Socrate? Una lettura incrociata dei Memorabili e di dialoghi platonici come Protagora e Menone restituisce secondo me un quadro
168 Questo libro, oltre a offrire alcune pagine strepitose su Socrate, è un esempio vertiginoso della capacità di identificare un “genere” di discorso e la sua continuità di fondo nella storia umana. Che i discorsi socratici fossero diventati presto un “genere” lo conferma anche la Poetica di Aristotele (1447b 11), non un testo generoso in termini di questo tipo di riconoscimenti (cfr. infra par. 3.5). 169 E' un fenomeno con cui noi abbiamo grande familiarità, e che nel mondo contemporaneo si è
dispiegato ben oltre: si pensi al tipico understatement delle élite americane, che è un elemento decisivo del loro modello di potere. Socrate è un fenomeno estremamente moderno, che non va scambiato per l'apparente semplicità da lui propugnata (come quando propone, nel Protagora platonico, uno sconcertante modello di sapienza-semplicità spartana, 342a-343b). Credo che Bachtin colga un fatto molto profondo guardando a Socrate (e al dialogo socratico) come la prima apparizione dell'ideologia sulla scena occidentale. Per questa dinamica generale dell'ideologia cfr. anche le osservazioni sferzanti di Finley ne La politica del mondo antico, p. 208.
abbastanza compatto e coerente del “nucleo” socratico. Socrate inaugura un tipo di discorso molto specifico, se vogliamo persino idiomatico, di tipo dialogico- interrogativo e apertamente antagonista al modello del discorso pubblico di Protagora; ma anche profondamente diverso – questo è meno scontato, ed è il punto per me fondamentale - dal tipo di analisi da cui sono partito, quello protagoreo del giavellotto. Esso ha la caratteristica capacità (apparentemente non arginabile dall'interno, per effetto della messa a punto di una serie di dispositivi retorici “neutralizzanti”), di assorbire e insieme far soccombere ogni asserzione o discorso comunemente praticato (ogni giudizio/dóxa e ogni tipologia letteraria, sapienziale, scientifica170) come unilaterale, promuovendo invece una dimensione assiologica sua propria. Rapidamente, per punti, alcuni tratti per me rilevanti:
a) Socrate accoglie molti aspetti dell'antilogica sofistica, e anche di Protagora, come la necessità di persuadere/essere persuasi, o quella di improving l'asserzione (anche se in modo molto differente, e per lo più portandola al collasso argomentativo,
non facendola funzionare nei suoi contesti). Socrate è senz'altro un sofista171, perché la sua operazione è eminentemente discorsiva: il suo controllo sulla materia argomentativa dipende in gran parte da un sistema flessibile di argomenti capaci di neutralizzare e indirizzare il discorso.
b) Tutto ciò però con obiettivi suoi propri, decisamente nuovi. C'è innanzitutto il rifiuto del livello primario del giudizio tout court, cioè per esempio del “sapere” dei
sophoí, dei giudizi e dei tentativi argomentativi che pretendono in qualunque modo di
“parlare” direttamente della realtà, che riescano a essere veri o accettabili in virtù di
se stessi, della loro semplice asserzione. È, detto in termini più ampi, che
coinvolgono anche Protagora, il rifiuto del potere e dell'autorevolezza autonoma
170 Cfr. per es. come nel Protagora Socrate rifiuti tanto la forma dei discorsi lunghi (pubblici) protagorei (334 d), quanto la forma dei giudizi semplici, assoluti, propria dei sophoí (343 b, dove il “trópos” della “filosofia degli antichi” è individuato in una certa “brachilogia spartana”).
171 Senza dare al termine l'accezione negativa socratico-platonica, e invece considerandone la specificità: la riflessione avanzata sul linguaggio e in particolare alla sua dimensione pragmatica (cfr. le ottime osservazioni di Ostwald sul significato preplatonico di “sofista” in From Popular
Sovereignty to the Sovereignty of Law, pp. 230-240). Quello che veramente Socrate dice secondo
me è in gran parte comprensibile in termini non teorici, ma di pragmatica discorsiva. A parte questo è sorprendente notare come Aristotele, anche forte della propria critica della dialettica socratica che considererò nel terzo capitolo, nelle Confutazioni sofistiche a volte finisca per delineare dei tratti dei procedimenti sofistici che sono difficilmente distinguibili dai dispositivi socratici, cfr. per esempio il capitolo 12.
dell'asserzione, del livello primario in cui il linguaggio materiale “parla” e viene
considerato sensato: tutta questa dimensione è considerata da Socrate doxázein,
dóxa, e come tale bocciata (Memorabili, Menone). Socrate mette a punto una serie di
automatismi capaci di resistere a, anzi di far arenare, ogni determinazione e posizione specifica asserita da sophoí e “sofisti”. L'arte di portare allo aporeîn l'interlocutore concentrando il discorso sul piano inedito del tí estí e di alternative
opposte e assolute, tra le quali Socrate impone di scegliere, ha il ruolo di dimostrare
l'incapacità dell'interlocutore di dare ragione di qualunque cosa stia dicendo, di impiegare tout court qualunque nozione unitaria: in una parola Socrate ne dimostra l'incapacità di asserire realmente172.
Tipico per esempio è il trópos per cui, quando ci si chiede per esempio cosa sia la sapienza o la virtù, iniziano domande del tipo se, a sua volta, essa sia giusta o
ingiusta, e simili (cfr. Protagora e Memorabili): è l'invenzione cioè di contesti d'uso
che prima non avevano alcun significato, in cui i termini sono pertinenti, indifferentemente, a tutto, e i giudizi formulati con queste applicazioni inedite sono tutti sullo stesso livello, sono parte di un unico discorso. Questo procedimento equivale anche all'uso assoluto, “a tutto campo”, dello strumento delle contrarietà (enantíōsis) come mezzo sia di argomentazione positiva sia di invalidamento di qualunque posizione. È un procedimento/principio discorsivo agli antipodi dell'impiego, invece, di un principio di pertinenza, che valuta invece la sensatezza
nei contesti materiali (assertivi e discorsivi) dell'uso dei termini e delle contrarietà (per
esempio: la valutazione se una coppia di contrari si possa impiegare sensatamente in un certo contesto o no e perché, come nelle analisi protagoree). Si noti come proprio questo, il problema della pertinenza, sia ciò che il debole Protagora nel dialogo omonimo tenta di obiettare a Socrate (Prot. 334 a-c)173.
172 È il percorso lampante del Protagora platonico, del tutto corrispondente, si noti, ai procedimenti raccontati da Senofonte (quarto libro dei Memorabili). Protagora in sostanza non è in grado di sostenere la sua nozione unitaria di virtù (politica), da cui Platone lo fa partire, di fronte ai paralogismi socratici (sfiderei chiunque a sostenere di prenderli veramente per buoni). Protagora tenta in alternativa di difendere la “multiformità” e la distinzione delle nozioni o delle parole, e a quel punto Socrate attacca con il suo discorso (351b e ss., che continua poi nel Menone), che raccoglie le diverse determinazioni e tutta la ricchezza linguistica (analizzata da sofisti come Prodico) entro la realtà postulata, unitaria e ordinatrice, del bene-sapere. Si entra così nella nuova dimensione discorsiva di Socrate, quella assiologica.
173 Come mostrerò nel terzo capitolo, Aristotele rileva e critica chiaramente la caratteristica dell'uso incondizionato delle contrarietà nella “dialettica” socratica (cfr. Metaph. M 4 e frammenti dell'opera
c) L'intento non è però scettico, è di un tipo nuovo, assiologico. Impiego il termine “assiologia” perché il contenuto della posizione socratica è in buona parte l'avanzamento di una pretesa, di uno standard, e l'affermazione della formula discorsiva che la sostiene.
La pretesa è che esista una realtà unitaria e univoca del bene-sapere, e che ogni realtà che venga fatta oggetto di inchiesta sia indagata attribuendola a questa sorta di “metagenere” o a ciò che gli è opposto174. Ed è insieme la pretesa che esista un tipo di discorso, l'assiologia, che è superiore all'asserzione semplice e sia capace di trattare quel metagenere.
d) Come sta in piedi questo “metagenere”? In Socrate non si tratta una posizione noetica (e nemmeno ontologica), che è contributo autonomo di Platone175. Sembra piuttosto che il “bene” venga elevato a termine “in sé” e capace di determinare ogni azione-decisione (e anche l'ordine dei giudizi: assiologia) in virtù del fatto che contiene in sé una sorta di “tautologia pragmatica”176: la questione affonda cioè le sue radici in una situazione di pragmatica linguistica. Mi spiego: se si pensa nei termini “protagorei” che ho esposto, “bene” (e “giusto”, “corretto”, ecc.) sono costitutivi dell'asserzione e della valutazione in essa contenuta, e quindi di qualsiasi giudizio o pensiero; le interrogazioni socratiche impiegano e insieme ribaltano questo fenomeno. Siccome “bene” è tutto ciò che approviamo, Socrate può interrogare sul bene in relazione a qualunque “cosa” in modo pertinente e anche
Sui contrari tramandati da Simplicio); e assorbe invece molto della considerazione contestuale di
Protagora.
174 Il momento clou delle interrogazioni socratiche è sempre quello in cui con uno scarto scatta la domanda sulla conoscenza del bene e l'invito all'interlocutore a mettere le cose nella “casella” del bene (o del termine corrispondente, il “giusto”, la “virtù” ecc.) o nel suo opposto (cfr. per es.
Memorabili IV, 2, Protagora 358a e ss., Teeteto 186a): ecco il metagenere. Connaturato con
questa assiologia è il probabilismo che regge le attribuzioni: dato che bisogna per forza attribuire, vale quanto di meglio si trova per farlo, anche solo la similitudine che suoni meglio. C'è da dire che qui si cammina sempre sul filo di una tensione aporetica col lo spettro del dokeîn, visto che Socrate stesso invita a considerare: “Non ti sembra allora che...”, “non sarà allora che...”. Il probabilismo come dispositivo razionale è un tratto che si ritrova anche in Aristotele, il quale riprenderà l'impostazione assiologica di Socrate anche se in modo completamente diverso.
175 Che raggiunge il suo apice argomentativo nei dialoghi maturi e nelle posizioni che ho abbozzato sopra. Platone in fondo è un eleate nei fini e un socratico negli strumenti.
176 Si è già osservato, a proposito di Platone e Protagora, che l'autoconfutazione è qualcosa come una una contraddizione “pragmatica”.
cogente; tuttavia trasforma la valutazione del linguaggio, cioè interna all'asserzione,
in un una realtà autonoma (il bene, appunto), che risulta automaticamente ciò che è preferibile e che determina le nostre scelte ex vi termini. Non mi dilungo qui su come questo “bene” venga combinato/identificato col “sapere” per costituire una realtà autonoma; è importante solo notare l'intento parallelo d i espellere qualunque elemento valutativo (dokeîn) dalla realtà del bene-sapere: il risultato è l'inversione per la quale solo se “conosciamo” il “bene”, allora giudichiamo/valutiamo le cose buone177.
L'idea è che esista un qualche ordine univoco (e di fatto universale) di questo tipo, che deve guidare il nostro giudizio e il nostro ordinamento della realtà: questa è l'assiologia. È anche evidente che è inevitabile una scissione della nozione così ottenuta di bene-sapere da contenuti concreti; o, appena diversamente, che i contenuti e le valutazioni specifiche che vi sono associati (spesso per via di probabilità e similitudine, come si è accennato) risultano tendenzialmente arbitrari, frutto di associazioni locali. Qui si apre il campo dell'ideologia.
Le tesi sull'unità del bene e delle nozioni generali che impieghiamo dovette avere molti avversari anche al di fuori delle posizioni protagoree. Ben al di là di intenti eristici, la scoperta che le parole sono capaci di esiti e valenze molto diversi in contesti differenti – che vuol dire in altri termini la scoperta del carattere non univoco e non naturalistico del linguaggio - è al centro della posizione intellettuale di molti intellettuali della seconda metà del V secolo, da Euripide ad Antifonte sofista, del quale è rimasto un frammento notevole in proposito178. E Antifonte è molto probabilmente il maestro di Tucidide, per il quale la “polytropía” del linguaggio (il
177 A questo punto l'opinione (anche quando “vera”, nella formulazione platonica del Menone) è accomunata recisamente al falso e all'ignoranza per il fatto di non essere sapere. Che il sapere sia scisso dalla dóxa e dalla valutazione, e che anch'esso abbia un tratto tautologico (parlo sempre di una sorta di tautologia pragmatica) è espresso anche nei Memorabili (IV, 6, 7). Qui Socrate, spiegando la “vera” sapienza in termini di epistḗmē (sapere) dice: “Credi che la sapienza sia qualcosa di diverso da ciò di cui [rendo così il dativo] siamo sapienti?” Ossia: se so, so in virtù di
ciò che so; è il sapere (in senso oggettivo, senza termine ad quem, cioè senza ad hominem) che è
la condizione del nostro sapere (l'esserne persuasi), che è una posizione radicalmente antidoxastica. Aristotele ribadirà questa posizione autonoma, fondandola tuttavia su una base completamente diversa, semantica (v. terzo capitolo).
178 Metterò in evidenza queste posizioni nel secondo capitolo: parr. 2.5 (Euripide) e 2.6 (Antifonte e Tucidide).
termine è tucidideo179), ossia la molteplicità dei significati e degli impieghi delle parole, e dunque l'impossibilità di un razionalismo centrato sull'unità dei termini, sono ormai fatti scontati. Aristotele, come si vedrà, tenterà una via diversa per ristabilire un naturalismo del linguaggio e del significato.
Detto tutto questo, vorrei tuttavia osservare che il grande impatto di Socrate sul suo tempo non sia un fatto di dottrine in senso stretto. Credo che esso stia invece nell'inaugurazione di una dimensione nuova del discorso: un discorso non pubblico e
monologico, perché in contrasto con la molteplicità ed eterogeneità delle forme
discorsive protagoree (che capta e neutralizza in sé) e retto dal pivotal role della non contraddizione180, dei contrari usati a tutto campo e dalla pretesa di univocità dei termini più generali; un discorso che si candida ad essere il “luogo” in cui soltanto si può decidere tutto il resto, e che fagocita (come farà chiaramente in Platone, che lo fa suo) ogni altra forma discorsiva nel suo campo superassertivo, che impiega un potente meccanismo di “controllo” di tipo coerenziale su se stesso e su ogni suo momento. Non voglio affatto dire, sia chiaro, che si tratta di una degenerazione; anzi, a l di là della specificità degli argomenti e delle tecniche socratiche, l'idea della filosofia come ricostruzione “controllata” di ciò che sappiamo e come procedimento speciale che consenta di scegliere tra i giudizi possibili del linguaggio, anche attraverso definizioni e argomenti, inizia da qui. Il problema in cui ci si imbatte con Socrate è piuttosto come si debba concepire questa analisi/ricostruzione/procedura decisionale (cfr. Introduzione). Penso che nessuno accetterebbe veramente molti argomenti socratici181; ma Socrate con le sue domande tocca senza dubbio un punto
179 III 83, 3
180 Non c'è principio di contraddizione in senso strettamente logico, ma l'idea è che tutto quello che si dice deve “armonizzarsi”, non stridere, ossia evitare l'aporia. La linea monologica è spiccatamente
coerenziale, indirizzata cioè dalla non contraddizione/contrarietà e dalla ricerca di dove essa può
insorgere. Essa contiene anche una posizione tendenzialmente scettica. Quanto invece all'elemento “dialogico”, credo sia semplicemente ridicolo, anche se è un luogo comune, pensare che quello con cui abbiamo a che fare qui sia un pensiero “dialogico” in senso più che formale, stilistico, cioè un pensiero costruito davvero sul confronto e il dialogo fra soggetti diversi. Se lo si vuole guardare in quest'ottica è un modello filosofico sospetto fin dalle origini, che si ripete nelle pretese recenti del pensiero “dialogico”: è la pretesa dei filosofi di dialogare con chi non lo è nel
proprio campo discorsivo.
181 Quelli del tipo, per essere chiari: siccome di cose buone ce ne sono tante e spesso opposte tra loro, noi non sappiamo “cos'è” il bene; e se non sappiamo cos'è il bene non siamo in grado di sapere e giudicare cosa è bene, ecc.
vivo delle nostre convinzioni più ineradicabili: il pensiero che, nonostante tutto ci sia una verità, o un bene, è certo una linea profonda del nostro procedere nella realtà, ed è probabilmente persino la condizione del nostro stesso valutare e pensare. Non è detto che su questo si debba assumere una posizione negativa; tuttavia puntare sull'assiologia o sulla teoria fa perdere per strada molto di quello con cui secondo me si ha qui realmente a che fare.
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Prima di passare ai capitoli successivi, vorrei chiarire alcune cose sulla mia impostazione generale e sullo spirito di questa trattazione. Prendere posizione sul pensiero protagoreo, di cui non è rimasto quasi nulla, e su molte altre questioni apparentemente indecidibili, può essere considerato un azzardo. Credo che il lettore possa tenere conto di due ordini di considerazioni:
1) Invece che tentare congetture inverificabili, ipotesi su pezzi mancanti del puzzle che facciano “tornare” i conti, invece che tentare di ristabilire il “vero” Parmenide o il “vero” Socrate (per esempio), penso che sia molto più utile leggere questi autori, o quello che ci è pervenuto ed è associato in un modo o nell'altro ad essi, per le posizioni e gli argomenti cui oggettivamente essi ci mettono di fronte. E questo mi sembra anche il modo migliore, date le paurose voragini di una tradizione che ci restituisce un quadro estremamente parziale dei dibattiti, per aprire uno squarcio su come andarono le cose e sul vero “peso” delle posizioni in gioco. C'è un corpus tangibile di formulazioni, carico di dibattito interno: tutto l'avvertimento storico e la sensibilità testuale hanno senso in relazione al fatto che noi ci chiediamo se questi pensatori abbiano qualcosa di valido da dirci e non siano semplici antiquitates; che siamo sicuri che essi, pure con strumenti e da punti di vista molto diversi, abbiano a che fare con gli stessi problemi che affrontiamo noi - o altrimenti leggiamo altro. Per questo non ha senso risparmiarsi tutti gli strumenti di analisi moderni e contemporanei per saggiare questi testi e la tradizione spesso molto parziale in cui essi hanno continuato a parlare.
Viceversa l'idea (rortyana, per esempio) che i sistemi concettuali siano