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La via alla scienza: il significato

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

3.2 La via alla scienza: il significato

Qual è dunque la via battuta da Aristotele per accedere a un livello di discorso propriamente epistemico e oggettivo, in cui il linguaggio funzioni con quella univocità/trasparenza semantica che per lui è il requisito della “scienza”? Si tratta come si è visto di trovare una forma di espressione che riesca a “sganciarsi” dal tipo di evidenza linguistico-doxastica, “logikôs”320. Credo che per raggiungere questo

315 106b 32 e ss., ma si guardi tutto il capitolo. 316 165b 32-34.

317 E che tuttavia è davvero difficile considerare come meri casi di omonimia, che è la posizione di Aristotele sia in Top. I 15 che in Soph. El. 4. Aristotele all'epoca di questi scritti sembra convinto che esistano alcuni ambiti scientifici specifici o locali (in cui è possibile tramite definizione fissare alcuni significati univoci e avere discorso “teorico”), ma non ha un modello capace di far fronte al problema generale del significato, che sia concorrenziale rispetto alla situazione doxastica. 318 Tale competenza, come si vede proprio in Top. I 15, consiste anche nel saper usare tutta una

serie di strumenti linguistici, come le antitesi, per individuare le differenze di senso.

319 Per esempio il significato di “giusto” e il giudizio in cosa consista il giusto o la giustizia ecc.

320 Aristotele accetta il fatto che esistono molti discorsi di tipo diverso e anche diverse dimensioni pragmatiche in essi, in netto contrasto con la “dialettica” socratico-platonica (per la quale il discorso è uno solo, è una dimensione unitaria e tutto sta per così dire allo stesso livello, tutto è messo in

obiettivo Aristotele faccia un uso spregiudicato e autonomo di opzioni e istanze diverse che le tradizioni inimicissime del socratismo-platonismo e del protagorismo mettevano a disposizione. L'obiettivo socratico-platonico (assiologico) di fondo viene perseguito adottando strumenti sostanzialmente differenti.

Quand'è dunque che noi “tocchiamo” tá prágmata, ossia un livello di discorso pienamente oggettivo?321 Aristotele fa insieme due mosse, riassumibili così: (a) riabilita (a differenza di Platone, e con Protagora) l'asserzione - ma un certo suo tipo, dotato di una specifica caratteristica pragmatica, quella di poter “stare in piedi” assolutamente; (b) le attribuisce un funzionamento speciale nel campo del linguaggio: quella di valere in modo del tutto indipendente da qualsiasi elemento di giudizio-valutazione (contro Protagora, ma anche contro Socrate), per semplice vis semantica. Vediamo meglio.

Ho messo in rilievo in precedenza come per Protagora atto dell'asserzione e giudizio-valutazione (discorsiva, di secondo livello) siano componenti essenziali sia della comprensione linguistica (piano del significato) sia della scelta fra gli asserti (piano del giudizio). Per Aristotele questa situazione è insostenibile, perché sposta interamente sul dokeîn il peso dell'oggettività, e questo a suo parere dissolve ogni cogenza e necessità nel linguaggio e nel pensiero; tuttavia anche lui assume che è dalla situazione dell'asserzione che bisogna partire, dai suoi specifici caratteri evidenziali. Se si indaga l'evidenza delle asserzioni infatti, secondo Aristotele si può tracciare una linea chiara322 tra ciò che è evidente semplicemente per virtù semantica e ciò che invece lo è per una funzione del giudizio umano, il che implica invece il

rapporto con tutto: da qui l'aporeticità e lo scetticismo); queste dimensioni sono poi affrontate ampiamente da Aristotele in Topici, Confutazioni Sofistiche, Retorica, Poetica. Il problema centrale per lui è invece trovare un ambito linguistico-discorsivo speciale capace di oggettività e univocità: come è possibile accedere a un livello in cui parlo senza residui delle “cose”?

321 Si noti come il problema della “scienza” non è risolto facendo ricorso a semplici capacità noetiche. Certamente Aristotele presuppone una capacità naturale di cogliere eîda, asýntheta ecc. - si tratta di un dato primario che per Aristotele (a differenza dei moderni) non ha nemmeno senso discutere. Qualunque nome si voglia dare alla facoltà di cogliere le determinazioni, nell'ottica di una scienza generale resta il fatto che 1) noi comunque le “tocchiamo” solo passando per il giudizio, come

subjecta e objecta di enunciazioni corrette, 2) il problema aristotelico è trovare una via pragmatico- discorsiva che permetta di isolarle, di catturare cioè quelle evidenze in modo anaporetico, sufficientemente evidente e ripetibile; in altri termini di riferirvisi e avere una procedura indicale che

funzioni e sia precisa.

dokeîn (e lo status di éndoxon). Il criterio per arrivare a porzioni puramente

“semantiche” o oggettive di linguaggio, da cui partire per costruire la “scienza”, è di fatto pragmatico: per Aristotele esistono una serie di asserti semplici che hanno la caratteristica precisa di essere pienamente espressivi se asseriti assolutamente. Quando infatti dico ad esempio “Socrate è seduto” oppure “Socrate è un uomo”, “l'uomo è seduto”, o ancora “l'uomo è un animale” e “l'uomo è un animale bipede”323, mi trovo di fronte ad asserzioni la cui evidenza non solo non è revocabile in giudizio (antiscetticismo di Aristotele), ma nemmeno rinforzabile. Non posso dire nulla di più per avvalorare quello che sto dicendo, essi si rivelano materialmente asserti espliciti in assoluto, haplôs: se un tale asserto è vero, e uno non è d'accordo, vuol dire non che costui giudica diversamente, ma che non ha capito324. C'è un ambito di asserti, sia empirici che scientifici, che hanno la caratteristica di non comportare alcuna “valutazione” di senso: è solo questione di “cogliere” o “non cogliere”325. In questi casi secondo Aristotele non parliamo né pensiamo compiendo una valutazione, ma accogliamo una mera cogenza semantica: pensare oggettivamente è per lui quanto di più impersonale vi sia. Questa è la caratteristica del linguaggio apodittico.

Per Aristotele una parte consistente e speciale dei nostri asserti è portatore di una tale assolutezza. La mia tesi è che tutto il linguaggio apodittico abbia questa caratteristica pragmatica, che lo rende qualcosa di pienamente oggettivo e funzionante su base puramente semantica e avalutativa. Per essere chiari, schematicamente sto parlando di: a) tutti quegli asserti non necessari, anche empirici, di cui noi cogliamo il senso con tutta la chiarezza/evidenza esigibile (“Socrate è seduto”, “Socrate è nero”, “Socrate è un uomo”, per esempio326). Si può

323 Intendo cioè una definizione corretta (come in Topici I) ma non necessariamente la definizione da usare in ambito scientifico, che va poi scelta secondo alcune esigenze supplementari. In realtà anche questo, il “contenuto” delle definizioni - è un problema molto scivoloso, ci tornerò dal mio punto di vista.

324 È una situazione analoga a quella delle proposizioni fregeane (cfr. Ricerche Logiche) : capire e

sapere se un asserto è vero è la stessa cosa. La comprensione di questi enunciati, per restare ad

Aristotele, coincide col giudizio di verità.

325 Questi termini (Thigheîn e mḕ thingánein, 1051b 24-25) in un capitolo importante, Metaph. Theta 10, v. infra nota su questo passo.

326 Quello che è importante notare è che questa non è invece la situazione di “Socrate è giusto” oppure “la democrazia è un bene”. Certo, anche questi enunciati hanno un loro nucleo puramente “semantico”, assoluto, che sono le scienze dell'etica e della politica che consentono di mettere a fuoco, fornendo le nozioni “centrali” di “giusto” o di bene politico (cfr. infra); ma in ogni caso qui

guardare molta parte dell'impresa della metafisica come un modo di isolare e di fissare gli standard e gli schemi di tale porzione di linguaggio, quelle che sono pienamente oggettive, “teoriche”; b) tutte le verità necessarie, e in particolare quelle selezionate e asserite all'interno delle varie scienze, che ovviamente sono anch'esse linguaggio apodittico, a partire dai princìpi327; c) c'è poi un terzo aspetto governato da questa caratteristica semantica e avalutativa, che riguarda la formazione gli enunciati in generale: la pertinenza dei termini usati in una predicazione. Il fatto stesso cioè di usare/cogliere un soggetto e predicarne qualcosa, in generale di esprimersi

sensatamente, ha alla base una sorta di assolutezza semantica, indipendente da

valutazione, di pertinenza328 - basti osservare su questo punto che anche la

pertinenza è considerata da Aristotele, contro Protagora, un fenomeno avalutativo.

l'evidenza viene raggiunta attraverso complessi procedimenti anche “dialettici”, dunque linguistico- doxastici, di valutazione e argomentazione, come è il caso di tutte le scienze umane, dall'etica alla medicina. “Socrate è buono” non sta in piedi da solo, se non dopo un complesso processo valutativo.

327 Voglio dire subito che non credo minimamente al fatto che in Aristotele ci sia una fondazione “dialettica” delle scienze: gli asserti alla base di esse, i princìpi, sono individuati attraverso un processo di semplice “asciugatura”, cioè di restrizione dei candidati a disposizione (éndoxa), fino a trovare quello che riesce a stare in piedi assolutamente e anaporeticamente: anche l'evidenza dei princìpi è sorprendentemente un fatto di pragmatica dell'asserzione!

328 Aggiungo questo aspetto perché è l'argomento di un passo importante su semantica e intenzionalità che ho richiamato poco sopra, Metaph. Theta 10, 1051b 17 e ss. Qui Aristotele osserva, considerando i termini base degli enunciati, i cosiddetti “asýntheta” (si riferisce probabilmente soprattutto al ruolo di subjectum): o ne colgo il significato (che poi è un eîdos, questo è ciò che Aristotele ha in mente qui) e quindi li uso in modo pertinente e pienamente intenzionale, oppure non sto dicendo nulla. La cosa in realtà vale tanto per il soggetto che per il predicato: se dico “l'uomo è nero” (o anche “l'uomo è buono”, non è importante se a loro volta siano asserti apodittici o no), il problema riguarda tanto l'uso corretto di “uomo” quanto il fatto che se ne possa predicare sensatamente il colore. Il passo necessiterebbe di un'analisi più serrata, quello che mi interessa è notare che Aristotele sta puntando qui questo fondo semantico, avalutativo, che è ciò che “si coglie” in ogni enunciato sensato (che poi è come dire il suo senso primario; ogni enunciato sensato ha un suo contenuto apodittico). Usare pertinentemente e intenzionalmente i termini nel proferire un enunciato non è una questione di “giudizio” (predicazione positiva o negativa, che è qualcosa di “composto”), ma ne è alla base: a proposito dell'uso dei termini, dice Aristotele, “l'alternativa è tra cogliere e dire bene [phánai alēthés] (non è la stessa cosa infatti affermare [katáphasis, intesa come l'opposto di negare, apóphasis] e asserire [phásis]) oppure ignorare e non cogliere” (24-25). Fin dall'inizio del capitolo Aristotele fa leva sul

Quando Aristotele dunque parla di dire o valere “assolutamente” (haplôs), fa leva proprio sulla caratteristica di pragmatica discorsiva329 di questi asserti. Proprio questa assolutezza ne fa i portatori di un'evidenza speciale e unica nel campo del discorso. Noi siamo sempre in grado di dire “in che senso” si dice qualcosa - è la capacità di riferimento discorsivo, di secondo livello, sviluppata da Protagora -, e anche in questi casi assoluti possiamo in qualche modo attirare l'attenzione sul senso principale (kýriōs); ma nel caso del linguaggio apodittico nulla parla in modo più evidente dell'asserto in questione, non si può dire nulla di più manifesto330. Si tratta in altri termini di nuclei che “parlano” in modo del tutto primario, e che sfuggono a un trattamento protagoreo; qui si tocca una pura virtù semantica e “autonoma” rispetto al nostro giudizio del discorso o dell'enunciazione.

Ora, l'idea di scienza aristotelica è in buona parte reperimento, distinzione e organizzazione nello spazio linguistico di tutto quello che funziona in questo modo, per virtù semplicemente semantica. È ricerca di necessità semantica. Quanto la distinzione che sto facendo vada in profondità si può vedere con un esempio che trovo particolarmente illuminante, quello di “cittadino” in Politica III, 1-2. Il libro III della Politica riparte da zero dopo i primi due331, tentando un inquadramento della disciplina politica a partire appunto dalla nozione di “polítēs”. Qui ci si trova, si noti, proprio di fronte a uno di quei termini generali e polisemici che ho inquadrato come “categoremi”: Aristotele osserva come il termine abbia significati diversi e

incompatibili in ordinamenti diversi, il che è la base di una serie di aporie che chi

ricerca deve essere in grado di disinnescare. La soluzione viene trovata individuando un tratto comune, oggettivo (per quanto “tenue”) esprimibile in una definizione, che unifichi il significato del termine (per “cittadino” è la partecipazione, in qualche misura, ai tribunali e alle magistrature). Ora, per affrontare le obiezioni sofistiche e socratico-platoniche (entrambe di tipo scettico) che ne scaturiscono, Aristotele fa una distinzione importante: la definizione, egli dice, deve trovare ciò che si dice “cittadino”

329 L'elemento pragmatico dell'asserzione qui è fondamentale, perché devo passare non solo dalla “forma” enunciativa, ma anche dal fatto dell'assolutezza, dal carattere perentorio, senza repliche o precisazioni, dell'asserto. Per Protagora ogni evidenza è di tipo discorsivo-valutativo; Aristotele scinde invece il campo dell'evidenza assertiva in due parti.

330 Aristotele è il prototipo antico, per dirla in termini sellarsiani, del sostenitore della “immagine manifesta”. La verità si persegue, in breve, cercando l'analiticità - che è l'atteggiamento più antitetico si possa immaginare a Sellars e al suo modo di riproporre la “sintesi” di Kant.

correttamente332, non dikaíōs, giustamente (1275b 34 – 1276a). In altri termini ciò che la scienza coglie (attraverso una definizione valida assolutamente333) , è il

significato, distinto dal campo del giudizio, della valutazione. Si noti inoltre come

Aristotele accolga il piano della orthótēs protagorea (o anche socratica), ma la

collochi nel campo semantico e non valutativo.

Scindere significato e valutazione, concentrandosi sul trattamento del primo (i

tratti necessari degli item fissati dalle definizioni e le loro implicazioni deduttive), spiega bene il procedimento di fondo con cui Aristotele isola, nel campo multiforme del discorso e dei giudizi, un particolare tipo di giudizi, quelli scientifici. Questo tipo di distinzione è infatti essenziale per poter affrontare “scientificamente” le discipline che trattano ambiti “dialettici” di valutazione. Vorrei far vedere meglio questa distinzione ricorrendo all'Etica Nichomachea e alla Politica, per poi tornare a un profilo più generale.

Le valutazioni in campo etico e politico sono di tipo tipicamente dialettico e contestuale (come la medicina e l'arte della navigazione, gli esempi per eccellenza di Aristotele), in cui in particolare a) il giudizio-valutazione di ciò che è bene/giusto/sano ecc. dipende in modo decisivo dalla particolarità delle situazioni concrete, visto che questi termini significano di volta in volta cose (determinazioni) diverse; b) il modo di procedere è tipicamente logikôs, perché si impiega ogni tipo di strumento linguistico- evidenziale (cfr. di nuovo Topici I, 101b) per “mettere a fuoco” il giusto aspetto (cfr.

332 Il riferimento alla correttezza è nel termine diṓrthosis, 1275a 20 e 1275b 13.

333 “Cerchiamo infatti ciò che è detto cittadino in senso assoluto (haplôs), che non dia adito ad alcuna obiezione per la quale poi ci sia bisogno di correzioni o aggiunte [diōrthṓseōs]”(1275a 19-20): che possa dunque “stare in piedi” assolutamente. Di fatto il gioco, quando riesce, consiste nel trovare un tratto semplice, che riesca a tradurre in un fatto oggettivo e definibile quei termini generali, categorematici, così vaghi e ricchi di aspetti (pollachôs legómena) . L o euporeîn (risolvere positivamente le aporie, “sciogliere il nodo”, cfr. Metaph. Beta 1), non è altro che questo eurismo

semantico, che è inscindibile dalla caratteristica pragmatica dell'assolutezza della definizione. Nella Politica questa capacità di semplificazione e penetrazione è particolarmente felice, come nei passi

acutissimi e giustamente celebri in cui Aristotele individua nella ricchezza la vera differenza e il reale nodo di conflitto fra olígoi e dêmos. Altre due cose si possono notare qui. Questa “nozione centrale” di cittadino, può avere tante “declinazioni” diverse nei vari ordinamenti, ma esse non sono “gestite” dagli schemi categoriali. Il pros hen qui non gioca alcun ruolo e non risolve nulla. Infine, come altrove, non c'è alcuna “dialettica” alla base del ritrovamento del “princìpio” di cittadinanza: qui si tratta solo di trovare una definizione che funzioni assolutamente (e il risultato, si potrebbe aggiungere, è tanto più acuto quanto più si rinviene un tratto concreto e non astratto, truistico, cosa che riesce più nella politica che nell'etica)

sempre il ruolo centrale del loghízein in Etica Nic., VI 10 ecc.). Non è un rapporto “teorico” col bene, il giusto ecc. che determina la scelta, visto che tali termini significano cose di volta in volta molto diverse, ma appunto una complessa capacità d i valutazione contestuale, che consiste ne l krínein orthôs ed è una capacità

doxastiké334. Il contrassegno del fatto che qui non c'è “teoria” è costituito da una situazione che metterò meglio in rilievo più avanti, ossia che in questi casi non si può procedere acriticamente, senza un vaglio contestuale, attraverso le antitesi linguistiche: non posso procedere attraverso i contrari/contrarietà come nella dialettica socratica, come se fossero tutte valide e automatiche, e, per dirla con i

Topici, asserzione e negazione di un enunciato si indagano distintamente335, come accade nei “problemi” (I, 101a 36, “pròs amphótera”). Siamo in un campo interamente protagoreo di valutazione locale e Aristotele lo ha ben presente336.

Lo spazio (molto stretto) per una epistḗmē e una “teoria” in campo etico e politico viene individuato da Aristotele su un altro versante, quello semantico. Il compito della filosofia è indagarlo fin dove è possibile e mettere così dei punti fissi. Nell'Etica e nella Politica “scienza” significa infatti: (1) indagare, attraverso lo strumento essenziale della definizione, quali caratteri assoluti pertengano al bene (e al giusto ecc.), ossia ciò che se ne può dire senz'altro; (2) se ciò riesce, questo vuol dire che esiste un nucleo semantico-oggettivo del bene, che sfugge alle aporie (come si è visto per polítēs); (3) esso viene usato non come principio teorico o di determinazione, visto che la realtà sfugge a questo livello di precisione o determinazione, ma come semplice principio assiologico: esso infatti supporta l'assunzione che in ogni situazione esista la decisione buona, giusta ecc. e sia univoca337. La sua individuazione passa per la complessa valutazione contestuale vista sopra, e tuttavia la persona esperta è capace di individuarla e coglierla

334 È una terminologia molto comune nell'Etica Nichomachea, cfr. III 6 1113a 29-30, VI 5 1140b 26- 27, VI 12; cfr anche l'orthòs lógos di VI 1.

335 Non posso dedurre “a” se trovo che “non a” è falso, e viceversa. Questa cosa infatti non funziona nel linguaggio in generale, ma solo nell'ambito ristretto, teorico, del linguaggio apodittico. V. infra paragrafo su Metaph. Iota.

336 Come si è detto, il linguaggio preso in generale ha anche per Aristotele questo profilo, contro ogni tentativo di assimilazione unitaria entro un discorso coerenziale, come vorrebbe Socrate. Il “linguaggio comune” funziona come dice Protagora, non come pretende Socrate.

337 Gli errori sono tanti e la valutazione giusta è una sola, dice Aristotele a un certo punto dell'etica (Eth. Nich. II 5, 1106b 28 e ss.)

correttamente (orthôs) . È difficile in effetti concepire un'opera più priva di contenuti della grande etica di Aristotele: l'unico ambito “scientifico” è la definizione generale338 e il chiarimento semantico dei termini più specifici, che per lo più non fa che mettere in evidenza relazioni analitiche. Per un moderno è sorprendente come non ci sia nulla che riguardi processi e criteri decisionali, problemi di prevalenza eccetera: di essi non si può dire niente, visto che sono risolti in un ambito dialettico e contestuale. Vale solo l'assunto che esista sempre una soluzione corretta dei conflitti decisionali e un punto d'incontro ottimale fra tutti gli aspetti differenti della virtù339. Il socratismo di Aristotele sta in questa assiologia di fondo (e nella tendenza ad essa collegata al probabilismo con cui spesso determina il contenuto delle nozioni).

Quanto ho appena mostrato per l'etica è un procedimento generale di Aristotele per uscire dal regno multiforme del giudizio e della valutazione (il campo generale del

dokeîn) ed entrare nell'ambito della scienza o della necessità propriamente

scientifico-apodittico

Non è un caso che in Metaph. Gamma 2, introducendo la teoria semantica del

pròs hén, Aristotele prenda come esempi due termini che appartengono alla

disciplina “dialettica” per eccellenza, la medicina. Quello che Aristotele intende mostrare infatti è che anche quando ci troviamo di fronte a termini come “sano”, che identificano di volta in volta cose diversissime e non ricomponibili in un piano teorico- deduttivo340, c'è tuttavia un nucleo di significato fisso, raggiungibile tramite la definizione corretta e declinabile secondo gli schemi categoriali. Il medico, che fa una serie di valutazioni, emette giudizi contestuali; quello che rimane identico – pur non essendo qualcosa di “teoretico” - è il significato, che in qualche modo (ma non è possibile dire come e seguirlo deduttivamente) determina la correttezza del giudizio.

338 Che di fatto si limita a mettere il bene in relazione all'ambito specificamente umano.

339 Il caso della Politica è diverso e più appassionante per il fatto che, nonostante l'assiologia di fondo, Aristotele si trovi di fronte a ordinamenti di fatto differenti, dei quali ognuno ha specifiche caratteristiche e punti di forza da rilevare. La ricerca delle loro virtù intrinseche e dell'ordinamento migliore mette Aristotele di fronte a un conflitto di princìpi, con esiti a volte sorprendenti.