Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le
2.6 Le Storie di Tucidide: un confronto sistematico e critico con le dottrine protagoree
Ho già rilevato verso la fine del paragrafo su Socrate (par. 1.4) come un altro tipo di naturalismo emerga negli ultimi decenni del V secolo, quello della “seconda sofistica” di Antifonte, Crizia, Trasimaco. Tanto per Socrate quanto per i due grandi socratici Platone Aristotele l'obiettivo epistemico è posto nella capacità pervenire, pure in modi molto diversi tra loro, a un livello di trattamento univoco dei termini e dei concetti che viene considerato la base di tutto il nostro sistema cognitivo. Una posizione diametralmente opposta (sebbene altrettanto polemica verso Protagora) è quella elaborata da Antifonte (e condivisa da un circolo più ampio di intellettuali): il linguaggio funziona come una molteplicità di trópoi256 che non sono riconducibili a un
255 Non c'è discorso, dimensione di secondo livello, capace di ricomporre questa situazione: in questo Euripide è perfettamente in linea con l'atteggiamento greco antico, a confronto con quello moderno (v. supra) . È come se ci fosse solo l'espressione primaria, l'enunciazione semplice. Anche il ruolo specifico delle asserzioni corali si può considerare sotto questo rispetto. Generalmente si nota a proposito di Euripide la riduzione e la marginalità del ruolo drammatico del coro; tuttavia è possibile considerare lo strumento del coro in una prospettiva diversa e del tutto funzionale, correlata al problema dell'asserzione. Il coro euripideo marca precisamente il tentativo estremo di poter dire qualcosa di assoluto: esso sembra avere un ruolo d'eccezione proprio come spazio dotato della possibilità poetica dell'asserzione assoluta. Non a caso un tale tipo di asserire, che raccoglie il consenso più generale e l'immunità da obiezioni, è per lo più linguaggio intimo del desiderio, del lamento ecc.: quasi fossero le uniche aree “illocutorie” di libertà e immunità dal dubbio che rimangono all'asserzione.
256 A quest'ambito intellettuale è da ricondurre un tipo di analisi e di interrogazione differente da quella socratica, che si concentra sui modi in cui qualcosa si presenta: come ho osservato sopra ne è rimasta traccia nelle Fenicie (vv.390 e ss.), dove Giocasta incalza Polinice chiedendo “tís ho
quadro coerente ed univoco, ed è (non diversamente che in Euripide) solo un'intelligenza nuda e naturale, la gnṓmē, che riesce a cogliere la realtà e l'adeguatezza delle espressioni linguistiche. Si tratta di una posizione esplicitamente dichiarata in un prezioso frammento (DK 87 B1): “Capito questo, saprai che non c'è nulla di unitario [inteso: nel lógos257], né nelle cose più grandi [da intendere proprio nel senso di macroscopiche, evidenti] che si colgono con la vista, né nelle cose più grandi che si conoscono con la mente [gnṓmēi]”. Gli esigui frammenti del trattato
Sulla verità di Antifonte lasciano cioè intuire un razionalismo (empirista) guidato da
una gnṓmē alinguistica, che è capace di guardare la realtà senza impigliarsi negli automatismi e nei trabocchetti delle parole, per esempio nella considerazione di ciò che è identico o opposto nel linguaggio: è una posizione nettamente antisocratica, ma anche polemica verso Protagora e la sua idea di un razionalismo interno all'evidenza linguistica, discorsiva. Si tratta inoltre di una posizione apertamente
antiscettica: ad Antifonte è da attribuire il trattato ippocratico De Arte, di cui ho già
parlato, che attacca lo scetticismo verso le téchnai in generale258, e afferma la capacità della intelligenza di cogliere le essenze delle cose (“eídea”259).
Non mi soffermo qui sul fatto noto e ampiamente riscontrabile che in campo politico questo naturalismo ostile alla legge democratica (criticata come convenzione) e all'ambito “artificiale” della sua asserzione politica260, avesse un significato e obiettivi oligarchici; osservo solo come alla fine del V secolo si possono individuare ad Atene, per ciò che possiamo leggere, tre opzioni intellettuali rilevanti che connettono organicamente concezione del linguaggio-conoscenza ed esiti politici, in una situazione triangolare di reciproca contrapposizione: 1) lascito protagoreo, 2)
257 Come si evince chiaramente dal passo di Galeno in cui è riportato (in Hipp. de med. off. XVIII B 656).
258 Esso è intriso di termini e concettualizzazioni antifontee (non diversamente da un altro trattato importante del Corpus Ippocraticum, il De Natura Hominis): l'evidenza di questa provenienza mi pare schiacciante. Non è possibile fornirne in queste pagine un'analisi dettagliata, ma anche qui si trova l'endiadi fondamentale “ciò che si vede con gli occhi e si conosce con la mente” (II, 6-8, XI 9- 11), e anche qui si mette con decisione in secondo piano tutto ciò che è affermato invece a partire dal lógos o dai termini (cfr. De Natura Hominis, I 29-35), in favore di una intelligenza naturale capace di cogliere cosa è essenziale e cosa no.
259 II 14 e 17. È persino possibile che l'elemento più manifestamente non socratico di Platone, la dottrina delle idee, venga da qui (cfr. anche il De Natura Hominis).
260 Il primato della natura sulla legge-convenzione mette chiaramente da parte anche il ruolo epistemico dell'asserzione e del suo contenuto doxastico.
socratismo e 3) naturalismo della seconda sofistica.
A quest'ultimo milieu intellettuale è sicuramente collegato Tucidide, forse allievo di Antifonte261, che in ogni caso ne lascia un ritratto eccezionale nella sua opera, dalle tinte chiaramente antagoniste a Socrate262. Tucidide scrive dando ormai per scontata l'acquisizione della seconda sofistica per la quale il linguaggio è costituito da una molteplicità di modi e impieghi delle parole non riconducibili a un'unità razionale: allo stesso modo che per Euripide, Socrate appare un avversario con il quale i conti sono già chiusi. Il vero terreno di confronto intellettuale delle Storie è invece ancora Protagora e il suo razionalismo incentrato sulla forza epistemica interna al discorso e sulla struttura pragmatica dell'asserzione. Sostengo cioè che l'opera di Tucidide è in modo non secondario un'indagine intellettuale condotta dispiegando ad ampio raggio una serie di discorsi contrapposti (vere e proprie
antilogie) presentati nei loro contesti materiali e condotti al meglio delle possibilità
retoriche dei loro protagonisti, un'indagine approfondita che tocca in alcuni momenti anche il nucleo di verità contenuto nelle tesi protagoree, ma che è volta in ultima analisi a confutarle, proponendo un modello differente dell'intelligenza umana e della sua capacità di accedere a contenuti e verità generali.
Per mostrare queste cose sarebbe necessaria una analisi più approfondita dei discorsi di Tucidide, cosa che non mi è possibile fare in questa sede; vorrei tuttavia
261 Cfr. su questo argomento Canfora, Il mondo di Atene, pp. 67-68, 91-96 e 273. Lo stile spregiudicato delle analisi di Canfora è illuminante nell'analisi delle dinamiche politiche e intellettuali della fine del V secolo; dissento tuttavia dalla associazione tout court, condotta sempre nel vasto affresco di questo libro, di Tucidide ed Euripide (che sostengono tesi abbastanza convergenti sul linguaggio, e probabilmente in qualche modo collegate, cfr. per esempio il ruolo della sképsis) alle posizioni politiche di Crizia e di Antifonte. Non che non ci sia un collegamento chiaro con quell'ambito politico e culturale, e si può anche accettare la tesi di Canfora che Tucidide nell'ottavo libro delle sue Storie abbia descritto eventi ai quali era presente come parte in campo della fazione oligarchica; ciò che stride secondo me è l'idea interpretare il lascito enorme di questi due autori sulla base di queste dietrologie. Credo invece che sia molto più corretto leggere sia Tucidide che Euripide attraverso le posizioni assunte nelle loro opere, che sono molto più articolate. La loro critica si spinge su tutto il ventaglio degli atteggiamenti e degli orientamenti politici della democrazia ateniese; è difficile attribuire loro una critica della democrazia che vada oltre l'analisi delle dinamiche interne alle istituzioni democratiche (anche se moderatamente oligarchica pare la formula “mista” approvata da Tucidide in VIII 93). Anche dal punto di vista politico tra Tucidide e il continuatore della sua opera (probabilmente sulla base del suo lascito materiale), Senofonte, c'è un abisso.
esporre a grandi linee e con qualche esempio le conclusioni alle quali sono pervenuto a questo proposito.
La formula (estremamente articolata) delle Storie si può riassumere considerando che Tucidide afferma un'idea naturalistica dell'intelligenza umana, che è capace di cogliere la realtà delle cose oltre il campo delle formulazioni linguistiche; e che questa tesi, in sostanza negativa nei confronti delle virtù del discorso e del razionalismo protagoreo, è perseguita attraverso un confronto serratissimo tra discorsi nella sua opera e attraverso l'analisi della loro concreta portata sia epistemica che persuasiva.
C'è un modello chiaro di intelligenza umana nelle Storie, che si può leggere nel ritratto esemplare di Temistocle in I 138: qui Tucidide tratteggia un'intelligenza eccezionale, spontanea e autonoma (oikeía xýnesis), non dipendente (lo dice a chiare lettere) da un contributo specifico dell'educazione, un'intelligenza che è una disposizione naturale (phýseōs mèn dynámei) a giudicare e spiegare ogni cosa e che è anche capace di acquisire rapidamente abilità nel campo di altre lingue e culture263. È un ritratto polemico, chiaramente antitetico all'idea di Protagora, per il quale il ruolo dell'educazione nella formazione politica del cittadino era essenziale264, ma anche ad Erodoto: entrambi insistono sul carattere discorsivo e legato al confronto di opinioni, dell'intelligenza265. Se per Erodoto la generalità della conoscenza viene dal confronto anche transculturale di enunciazioni e discorsi, l'intelligenza di Tucidide è semplicemente una innata capacità di assimilare e impiegare una pluralità non sistematica di trópoi, cioè modi: il carattere distintivo di questa gnṓmē è la sua ricchezza di risorse, la sua polytropía (III 83)266267.
263 Anche Pericle è un esempio di tale intelligenza, cfr. per es. II 60, 5.
264 È dichiarato in modo esplicito nel grande monologo del Protagora platonico e ancora si ritrova nelle notizie della Costituzione di Thurii di cui ho già parlato.
265 Cfr. in Erodoto (par. 2.1 supra) l'affermazione importante del saggio Artabano che afferma di parlare, letteralmente, “non per una personale sapienza [sophíēi oikēíēi]” (VII 10 γ). Le concezioni di Protagora sono richiamate nel grande discorso di Pericle nel secondo libro delle Storie di Tucidide, che riecheggia chiaramente le formule protagoree del lógos e della orthótēs in II 40, 2, e ancora nella compatta teoria della democrazia esposta da Atenagora in VI 39.
266 Per questa concezione naturalistica e antidiscorsiva di Tucidide cfr. anche il passo celebre (I, 23) della cosiddetta Archeologia in cui egli afferma polemicamente che il motivo “più vero” (tḕn
alēthestátēn próphasin) del conflitto è quello meno dichiarato nei discorsi (aphanestátēn dè lógōi)
(la crescita della potenza ateniese e il timore che essa incuteva negli spartani).
La formula antilogica in cui sono inquadrati tutti i discorsi più rilevanti delle
Storie268, è lo strumento impiegato da Tucidide per misurare tanto i risultati raggiungibili dall'uso più accorto e pragmaticamente consapevole del discorso, quanto i limiti di esso rispetto alla comprensione umana più profonda delle cose. La costruzione dei discorsi antitetici dei primi due libri delle Storie è un esempio eccezionale di questa ricerca: Tucidide con una efficacia eccezionale propone in sostanza due modelli concettuali e procedurali completamente diversi, quello spartano (centrato sul rispetto dei nó mo i e del buon ordine tradizionale, tò
eúkosmon), e quello ateniese (nel quale prevale l'ingegno e la spregiudicatezza, i trópoi e lo sviluppo dell'arte del discorso e delle altre téchnai). I discorsi di Pericle (I
140-145 e II 60-64, II 34-46) hanno un chiaro controcanto, in un sistema fittissimo di riprese e rimandi reciproci, rispettivamente a quello dei corinti in I 119-125 e dello spartano Archidamo in I 79-86; Tucidide riproduce in concreto e al meglio delle proprie possibilità due modi di ragionare, giudicare e procedere sugli stessi argomenti radicalmente differenti tra loro, e nei quali le stesse parole-chiave funzionano spesso diversamente e hanno un significato non confrontabile269. Essi hanno cioè trópoi differenti, e pur parlando la stessa lingua emettono giudizi diversi e contrari270; entrambe le impostazioni sono autorevoli e persuasive (Tucidide porta
semplicemente una capacità articolata di confrontare ciò che si dice con la realtà delle cose. Con ciò si perde il problema filosofico specifico di Protagora (e anche di Erodoto), quello cioè della linguisticità e della discorsività della comprensione e valutazione.
268 E quasi tutti i discorsi più articolati in assoluto. Questa è la lista dei confronti principali: 1) corciresi vs. corinti (I 31-44); 2) corinti vs. ateniesi a Sparta (I 67-78); 3) Archidamo in I 79-86 vs. Pericle in II 34-46; 4) corinti in I 119-125 vs. Pericle in I 140-5 e in II 60-64; 5) plateesi vs. Archidamo in II 71- 72; 6) esortazione dei comandanti spartani vs. quella di Formione, II 87 e 89; 7) Cleone vs. Diodoto in III 36-49; 8) plateesi (III 52-59) vs. tebani (III 60-68); 9) melii vs. ateniesi in V 84-116; 10) Nicia vs. Alcibiade in VI 8-26; 11) Ermocrate vs. Atenagora in VI 32-41; 12) Ermocrate vs. ambasciatore ateniese in VI 76-88. Restano fuori solo alcuni discorsi di media entità, dettati da opportunità differenti (Ermocrate in IV 59-64, Brasida in IV 86-87, Alcibiade agli spartani VI 89-93 e la lettera di Nicia all'assemblea ateniese in VII 10-16). In tutti i casi ci troviamo di fronte a costruzioni argomentative densissime, spinte all'estremo della capacità concettuali e pragmatiche dei loro protagonisti, con esiti che a loro modo non hanno eguali nella letteratura mondiale.
269 Sul fatto che le stesse parole possano avere significati o presiedere a valutazioni completamente diverse in momenti storici o in contesti diversi cfr. i drammatici capp. III 82-83 sugli effetti della guerra civile.
270 Si veda per esempio la valutazione di ciò che è giusto in materia di diritto e dello eikós a proposito della guerra futura nei discorsi dei corinti (che giudicano alla maniera spartana) e di Pericle. In
all'estremo dell'efficacia lo sforzo intellettuale e discorsivo dei suoi protagonisti), ma risultano semplicemente posizioni incomparabili e indecidibili. La tesi (antiprotagorea) è cioè che non è dall'interno di questi discorsi, dalla loro evidenza o dal loro
confronto antilogico che è possibile vedere la verità; al contrario è solo lo sguardo
“esterno” dell'intelligenza nuda, naturale che ci fa vedere cosa c'è in essi di vero, al di là della forza propria del linguaggio.
Tucidide conduce al massimo della loro capacità ed evidenza concreta le antilogie di Protagora, ma per sostenere una tesi differente, che non le considera più centrali per l'accesso alla verità. L'opera di Tucidide è in ogni caso una prova lampante del fatto che le antilogie protagoree fossero qualcosa di molto più avanzato delle antitesi schematiche (ridotte alla semplice contrarietà logica271) che ci sono consegnate da molta tradizione filosofica (specialmente socratica) sulla sofistica272. La produzione intellettuale del V secolo si trova in una situazione problematica, che non è facile da interpretare e che bisogna secondo me tenere ben presente, e cioè che le posizioni più consapevoli e le formulazioni più avanzate sull'uso del linguaggio che possiamo leggere non sono quelle dei sophoí, e che l'opera non “filosofica” di Erodoto, Tucidide e anche Euripide mostra una competenza sull'asserzione e sulle forme di discorso superiore alla capacità di trattarlo della tradizione socratica e dei tentativi globali di Platone e Aristotele273.
Il confronto con le tesi razionalistiche di Protagora è continuo nei discorsi
questi discorsi antitetici c'è anche una posizione diametralmente opposta sul ruolo del dokeîn nella decisione politica: i corinti in I 120, 5 disprezzano la procedura pubblica di decisione (e il fatto di decidere in essa ciò che sembra bene, hà kalôs dokoûnta), mentre proprio su questo punto si incentrano gli argomenti periclei, richiamando l'impegno a ciò che è sembrato giusto e intelligente (toîs koinệ doxásin) ed è stato così deciso in assemblea (I 140, 1 e II 61, 2, dove compare tò
orthón), riproponendo di fatto la concezione di Protagora entro il campo più ristretto, idiomatico, del modus operandi ateniese (cfr. anche II 40, 2).
271 Come ho già detto si tratta invece delle concrete possibilità discorsive materiali producibili su vari argomenti: l'antiléghein di Protagora è un fatto pragmatico, non logico.
272 Si confrontino le dispute risibili dei sofisti che compaiono in Platone (per esempio l'Eutidemo) o nei Memorabili di Senofonte con il modo con cui la produzione di Tucidide (ma anche di Erodoto ed Euripide) è un'analisi profonda e concreta dei problemi conoscitivi e decisionali che si giocano sul piano del discorso e dell'argomentazione.
273 Questo si iscrive forse in una caratteristica degli antichi che ho già osservato sopra (par. 2.4) e che è una parte importante del loro enigma: lo squilibrio, rispetto a noi moderni, fra l'entità del discorso primario e quella del discorso critico, di secondo livello, che si riferisce ad esso e lo tratta.
contrapposti di Tucidide, e conferma anche altri tratti della posizione protagorea che ho proposto nel primo capitolo. Nel par. 1.1 (punto 3) supra ho osservato come un elemento centrale della dottrina protagorea dovette essere la concordanza pragmatica interna all'asserzione e al discorso. Nel caso più generale del discorso, si tratta di considerare la concordanza tra ciò che il discorso dice di fare (riferendosi a sé stesso e anche alla posizione pragmatica di chi parla e argomenta) e ciò che fa effettivamente, a livello primario: si tratta di un ambito di analisi indagato a fondo da Tucidide riprendendo di Protagora e con esiti polemici nei suoi confronti. La capacità anche retorica di riferirsi, nel proprio discorso, a ciò che si sta facendo e alla propria posizione retorica è un elemento-chiave che caratterizza i discorsi più importanti delle Storie: è il caso per esempio della grande orazione di Pericle (II 34-46)274, ed è poi il tema specifico delle prime due “antilogie” del terzo libro275. Nella prima di esse la faziosità di Cleone è segnalata dal fatto che questi in assemblea dichiara il suo disprezzo per le procedure di discussione democratiche e la capacità di giudizio dell'assemblea (37-38)276, mentre la posizione di Diodoto è corretta (e si impone) proprio per il fatto di proporsi insieme a una analisi profonda del modo in cui i discorsi devono confrontarsi in assemblea ed essere valutati per la loro evidenza, senza cadere in trappole pragmatiche (42-43). Questi discorsi ripropongono chiaramente l'idea protagorea della correttezza pragmatica del discorso mostrandone l'indubbia parte di verità; ma Tucidide intende affermarne anche la debolezza, e in ultima analisi l'incapacità di costituire un modello generale. Con un gusto dell'inversione delle posizioni che è tipico delle Storie, non è il capo dei democratici (Cleone) ma un avversario (Diodoto) a difendere la formula del confronto fra discorsi e il criterio della loro correttezza pragmatica277. E nella seconda coppia di discorsi (plateesi vs. tebani)
274 Non soltanto nel suo consumato esordio (tutto il cap. 35), ma proprio nel fatto (chiaramente problematico per Tucidide) che esso è interamente pronunciato al plurale: è il “noi” degli ateniesi che parla di sé e del proprio modo di giungere alle corrette decisioni comuni (v. 40, 2-3), costituendo quel soggetto politico pragmatico unitario che valuta e delibera (e che può anche tornare sulle proprie decisioni) di cui ho parlato in par. 1.4.
275 Cleone vs. Diodoto (III 36-49) e plateesi vs. tebani (III 52-68);
276 Mettendosi così in una posizione autoconfutatoria, pragmaticamente aporetica.
277 Diodoto avanza la tesi naturalistica dell'utile contro ciò che è giusto (44, 3-4); e critica l'uso democratico di condannare chi ha fatto una proposta che si riveli sbagliata, come se essa poi non fosse poi votata dall'assemblea intera (43, 4-5). L'intelligenza dei discorsi e la capacità di coglierne adeguatamente il contenuto effettivo è così di fatto sganciata dalla logica specificamente democratica: questo è il chiaro obiettivo di Tucidide
Tucidide mostra come, tragicamente, in altre situazioni l'evidenza e la correttezza del discorso non servano a nulla: il discorso dei plateesi spicca come un capolavoro letterario anche per la sua capacità continua di fare riferimento alla posizione del soggetto dell'enunciazione; e nella sua diatriba i termini della questione, e dove sia la ragione, sono (nonostante i discorsi) fatti chiarissimi: ma gli spartani semplicemente decidono ciò che è più utile per loro278.
Non è certo un caso che la disputa più vicina al nucleo della verità per Tucidide sia un'eccezione nelle Storie: quella tra i melii e gli ateniesi è una consultazione
privata, non di fronte al popolo279, e non è un confronto fra discorsi lunghi, carichi di tutta la loro struttura formale e retorica, ma un scontro nudo, diretto, di argomento contro argomento280. In questa essenzialità l'intelligenza delle cose è spinta al massimo; e con tale dialogo Tucidide propone in ultima analisi un modello intellettuale di discorso e di evidenza alternativo tanto a Protagora che a Socrate281.
Vorrei fare infine qualche breve osservazione, sulla scorta di quanto scritto sopra su Erodoto, sul razionalismo di Tucidide. Tucidide annuncia nei primi capitoli della sua opera (l'Archeologia), e realizza poi, una radicale naturalizzazione tanto della storia che della politica: gli ambiti umani che in Erodoto erano mediati in modo decisivo dalla dimensione dei discorsi prodotti, ora vengono invece ricondotti a brevi linee essenziali di sviluppo naturale, con una valutazione estremamente restrittiva di ciò di cui è pertinente e rilevante parlare. È un naturalismo selettivo, che suona molto vicino ai modelli scientifici moderni di spiegazione, ed è carico di polemica
278 Opponendo tra l'altro al discorso lungo un modo diverso di ragionare e operare, proverbialmente laconico: domanda diretta a cui si può rispondere solo sì o no, e conseguenza immediata (68, 1-2). Mi sono limitato qui a fare un esempio, ma questi problemi sono analizzati a fondo nelle diverse coppie di discorsi delle Storie, in cui Tucidide indaga a fondo combinazioni diverse fra posizioni