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I. TITANISMO E CHIAROVEGGENZA DISINCANTO

1.1 ALCUNE CONSIDERAZIONI PRELIMINAR

La macrosequenza iniziale del Gattopardo, alla quale Tomasi diede il titolo di Parte prima1,offre al lettore un’intensa tramatura indiziaria. In essa, difatti, sono già presenti in nuce tutti i temi fondamentali dell’opera: la precarietà della condizione umana; l’amore carnale per la vita e il fatale, struggente corteggiamento della morte; la desacralizzazione del mito risorgimentale; il rigetto della storia umana come progresso; il nodo degli affetti familiari e quello della memoria, fragile argine alla dissoluzione di anime e cose.

Fedele per forma e contenuto al progetto iniziale a lungo accarezzato dall’autore, quello di “costruire” un libro che fosse in qualche modo affine all’Ulisses joyciano, si dispone in un’unica progressione cronologica compresa tra il pomeriggio del 12 Maggio 1860 e quello del giorno successivo, ma scandita in una serie di microsegmenti temporali, quattordici in tutto, ai quali corrispondono quasi altrettante serie spaziali2.

Possiede, inoltre, una struttura ad anello, perfettamente circolare, che le permette di aprirsi e chiudersi su una medesima scena: la recita del Rosario da parte dell’ intero nucleo familiare dei principi di Salina, nobili siciliani d’antico lignaggio e del suo pater familias, l’imponente don Fabrizio Corbera.

In realtà, sia a livello tematico che strutturale, questa Parte si presenta come un tutto poetico compatto e autonomo, conchiuso in se stesso. Lo stesso

1 Scrive G. Lanza Tomasi: «adotto la dizione di parti, anziché di capitoli, perché così si espresse l’autore nell’indice analitico posto a compimento del manoscritto “completo”, ogni sezione del Gattopardo è infatti propriamente una parte, cioè la trattazione da un’angolazione diversa, ed in sé compiuta, della condizione siciliana», Id., Premessa al Gattopardo, cit., p. 6. Aveva invece optato per una suddivisione in capitoli Giorgio Bassani (che intervenne direttamente anche sul manoscritto gattopardiano) nella I ed. dell’opera da lui curata per la Feltrinelli nel 1958 e preceduta dalla sua ormai famosa Prefazione, ivi, pp. 7-13.

2 Si ricorda che l’edizione del Gattopardo da me utilizzata si trova in Opere, cit.. In essa la Parte I si snoda da p. 27 a p. 64 e le microsequenze cui faccio riferimento hanno la seguente successione: I, pp. 27-30; II, pp. 30-33; III, pp. 33-36; IV, pp. 37-39; V, pp. 39-43; VI, pp. 43-44; VII, pp. 44-46; VIII, pp. 46-48; IX, pp. 48-55; X, pp. 55-59; XI, pp. 59-61; XII, pp. 61-62; XIII, pp. 62-63; XIV, pp. 63- 64.

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Lampedusa, preferiva riferirsi ad essa come a una «novella» o un «racconto», piuttosto che al capitolo iniziale di un romanzo3.

Le linee del quadro d’apertura che vi sono delineate, determinano il cronotopo dell’intero romanzo. Quello di un mondo nobiliare prossimo ormai al tracollo, verticistico e asfittico e pongono le basi di una narrazione fondamentalmente priva di intreccio, dominata dalla straordinaria figura di un gigantesco uomo-gattopardo4.

Lampedusa dà inizio al suo romanzo affidandosi a una visione d’interni. Ricorrendo a un metodo che molto ha in comune con un procedimento cinematografico, lo scrittore propone una ”carrellata in avanti” sul salone rococò della villa padronale e sulle persone che lì vi si trovano raccolte. La riunione quotidiana gli offre il pretesto per delineare, con poche pennellate rapide e sicure, le caratteristiche salienti di alcune comparse e comprimari del suo romanzo e per preannunziarne il loro compimento futuro come personaggi del «mondo dell’opera»5.

3 In una lettera del 31 marzo del ’56, si legge: «Carissimo Guido […] ho scritto un romanzo: per meglio dire tre lunghe novelle collegate tra loro», in Lettere a Licy, cit., p. 20. In quella successiva del 7 giugno ’57, lo scrittore precisa: «Esso [Il Gattopardo]» è composto da cinque lunghi racconti», in A. Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cit., pp. 335-336, a p. 336. Le parole di Lampedusa ci suggeriscono che egli pensasse alla sua opera come a una sorta di «romanzo in racconti». In questo stesso senso vanno anche lette riflessioni di Lanza Tomasi sulle Parti/sezioni in cui si articola il romanzo e presenti nella nota 1, nonché alcuni giudizi di Manuela Bertone. Secondo la studiosa Il Gattopardo «procede per accumulazione di sequenze autosufficienti […] Il profilo segmentato del romanzo è già evidente nella definizione di «racconti» e «novelle» che Tomasi stesso dà, nelle lettere a Lajolo, a quelle che in seguito preferirà chiamare «parti» del romanzo. Non «capitoli» come recita la prima edizione, ché farebbero pensare a scansioni divise di un tutto omogeneo», Id., Tomasi di Lampedusa, Palermo, Palumbo, 1995, p. 53. .

4 Don Fabrizio è «il personaggio della narrativa italiana degli ultimi cinquant’anni per il quale la critica ha scritto più pagine», G. Todini, Ritratti critici di contemporanei. Giuseppe Tomas di Lampedusa, in «Belfagor», XXV, 1970, 2, pp.163-184, a p. 163.

5 Per i concetti di «mondo dell’opera» e «mondo nell’opera», argomenti centrali della riflessione critica di Gaetano Compagnino, cfr. A. Manganaro, Significati della letteratura,- Scritture e idee da Castelvetro a Timpanaro, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 2007, in Avvertenza, pp.7-10, p. 9; cap. I, pp. 13-43, a pp. 25 e segg.; cap. II, pp. 45-73.

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Da subito, ci imbattiamo nell’alano Bendicò, una creatura antropomorfizzata a cui Lampedusa riserva, per sua stessa ammissione, un rilevante ruolo attanziale6. Sfilano poi in successione: padre Pirrone, l’amico gesuita; la macchia confusa delle ragazze di casa Salina, rese visibili solo dal baluginio azzurrato dei loro begli occhi; l’erede designato della casata, quel duca Paolo che è null’altro che un «buon babbeo» e, per ultima, la moglie, l’ isterica principessa Maria Stella Màlvica.

Soprattutto, il lettore viene invitato a indugiare sulla munificenza atavica del

luogo, vero cuore pulsante della dimora gentilizia e a immaginare l’antica sacralità

dei suoi trascorsi. La parola descrive il lattiginoso chiarore delle mattonelle del pavimento che riaffiora assieme ai disegni mitologici che vi sono impressi, nell’istante in cui le donne si alzano, raccolgono le lunghe vesti e si apprestano a uscire. Descrive l’iridescenza dei suoi parati di seta, sulla cui tramatura preziosa pappagalli colorati sono pronti a dispiegare le ali in volo. Si sofferma sugli affreschi dell’ampio e alto soffitto, dove vetuste divinità dell’Olimpo sembrano pronte a ridestarsi dal lungo sonno in cui sino ad allora erano precipitate.

È uno stacco di grande intensità ma del quale Lampedusa si serve, in realtà, per preparare l’entrata in scena dell’attore principale del romanzo. Difatti, è in questo ambiente rievocato dallo scrittore in tutto il suo nostalgico e immaginifico fulgore ed intriso d’ una bellezza senza tempo, quasi refrattaria alle lusinghe della morte e del disfacimento (anche se già impercettibilmente corrosa dal suo interno) che ci imbattiamo per la prima volta in don Fabrizio.

Non è casuale che il primo contatto con lo spazio narrato, nel capolavoro di Lampedusa, sia quello degli interni di villa Salina. Con un procedimento che rimarrà costante nel corso del libro, il luogo fittizio viene ridisegnato dallo scrittore operando una significativa contaminazione tra letteratura e memoria privata. Come conferma anche il figlio, lo scrittore nel rappresentare la residenza nobiliare del

6 Cfr. la Lettera a Enrico Merlo, ora in Premessa a Il Gattopardo, cit., p. 18-19; ma anche Il cane

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Gattopardo ha operato una sorta di sovrapposizione tra villa Lampedusa ai Colli,

che si trovava a Santa Margherita, e l’amatissimo palazzo Lampedusa di Palermo7. Tuttavia, in questo caso specifico vi è dell’altro: la villa palermitana di don Fabrizio partecipa della stessa natura e possiede le medesime qualità dei palazzi a cui si ispira e che la rendono casa «nel senso arcaico e venerabile della parola» 8.

La presentazione del personaggio assiale del Gattopardo che occupa quasi per intero il segmento narrativo iniziale della Parte I, comincia con questa sorta di identificazione. Lo scrittore ha cura che l’eroe e il luogo si compenetrino intimamente: entrambi incutono soggezione agli astanti. Disorientano, abbagliano e confondono. Soprattutto, tutti e due custodiscono gelosamente, sotto la fragile superficie della loro alterità e munificenza, i segni dell’inevitabile rovina che li attende.