Nel romanzo di Lampedusa, la messa in romanzo della Storia disvela come l’intreccio gattopardesco viva nello spazio di intersezione tra le due aree della veridicità dell’elemento fattuale e l’arbitrarietà della costruzione letteraria. L’autore è attento a garantire la referenzialità del narrato. Tuttavia, anche quando la Storia si
58 Ivi, pp. 210 e segg. 59 Ivi, p. 64.
60 Ivi, p. 211. 61 Ivi, p. 152-153.
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incunea nella pieghe più riposte della narrazione e funge da contraltare ai vari episodi che ne compongono l’esilissima trama, non risulta quasi mai decisiva.
Un personaggio come Tancredi, immagine speculare di don Fabrizio (non dimentichiamo che l’abito mentale del ragazzo è l’agire, mentre quello dello zio è la contemplazione), può servirci più di altri a spiegare questo ossimoro.
Il giovane Falconieri nel corso della narrazione mette a disposizione delle cause più disparate il suo giovanile ardore. La storia maior gli offre i pretesti per un accidentato percorso di formazione. Nelle pagine iniziali del romanzo lo vediamo vestire i panni di un irruento garibaldino e partecipare, con la gioiosità scanzonata che gli è propria, ai primi moti dei rivoltosi. In seguito, osserveremo il suo corpo rivestirsi d’altre divise: dapprima ufficiale del regio esercito; infine, disilluso rappresentante della nuova classe parlamentare.
Eppure il suo scacco esistenziale –consegnato a poche righe; coperto dal pudore– non si misura di certo nella dimensione pubblica, ma nell’intimo spazio segreto del suo animo. Tocca, non a caso, a don Calogero disvelarlo grazie a quella sagacia che sempre il principe gli ha riconosciuto, allorquando potrà asserire che il ragazzo ha saputo «barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui, pur sapendo rivestire queste azioni “sedaresche” di […] grazia e di […] fascino»62.
La vera sconfitta di Tancredi, dunque, è la perdita definitiva di quella innocenza così cara al suo mentore, e che a lungo ha contraddistinto il suo modo di agire e il suo pensare. Lo smarrimento di una leggerezza d’esistere che gli aveva permesso di affrontare la vita senza mai perdersi, a dispetto della sua storia di orfano, della rovina del suo casato, della frana destinata a travolgere la sua classe e persino dell’amore tradito verso Concetta63.
62 Ivi, p.141.
63 Il tradimento consumato ai danni della cugina è forse il peggiore. Nell’attimo in cui Angelica irrompe nella vita di Tancredi, Concetta ne viene estromessa e ciò pone fine alla sua giovinezza. Nel romanzo non si parla più di lei se non per accenni. Lampedusa ce la fa infine trovare nella chiusa del libro, una zitella male invecchiata che ha consacrato l’intera sua esistenza a custodire false reliquie marcescenti e ad alimentare un odio profondo nei riguardi del padre-padrone.
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Tutto questo può accadere perché lo spazio storico gattopardesco non si presenta mai come historia rerum gestarum e i fatti –i grandi, visibili accadimenti che segnano le epoche umane– sono ridotti a vicende private.
Come si già rilevato, ciò non significa che lo scrittore abbia declassato a poca cosa la stagione del Risorgimento. Ha preferito però osservarla da un’altra angolazione.
La focalizzazione dell’autore non si fissa sul clangore insopportabile degli scontri in campo aperto; non offre la scena ai grandi eroi baffuti abituati ad occuparne la ribalta. Nel romanzo, la storia maior, non assume quasi mai il nome dell’accadimento, ma decanta piuttosto nell’animo disilluso del principone; nelle parole da guitto di Tancredi (tra le più vituperate e citate della storia letteraria recente); nello sguardo falsamente mansueto di Sedàra o nel corpo senza vita del piccolo soldatino sconosciuto destinato a morire da solo nell’intrico rigoglioso e marcescente di un giardino di nobili.
La consapevolezza che si ricava dalla lettura del libro è che la Storia altro non sia che la fragile e aggrovigliata linea di un tempo umano (estremamente breve se rapportato a quello cosmico delle stelle), su cui la fabula gattopardiana traccia il vorticoso passare degli anni. O che esista solo come movimento di superficie cieco ed ingovernabile: ciò che accade nelle sue profondità rimane precluso allo sguardo dell’uomo ed inintelligibile per la sua coscienza.
Siamo nel cuore pulsante della Weltanshauung del nostro autore.
Lampedusa intende nichilisticamente la vita come parentesi «fra le tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni»64. Partendo da un presupposto così
64 Il Gattopardo, cit., p. 219. In realtà la frase messa in bocca a don Fabrizio è il calco piuttosto fedele di un verso di T. Carlyne: «La nostra vita è delineata da due silenzi: il silenzio delle stelle e quello dei sepolcri», trascritta da Lampedusa su un suo quaderno delle citazioni. Credo, comunque, che per un autore come il principe siciliano, così legato alla dimensione letteraria, rimanga particolarmente valida la teoria dell’influenza elaborata da Harold Bloom. Secondo il critico, ogni scrittore fatica a dar conto del peculiare rapporto che ha istaurato con l’opera altrui e con coloro che riconosce quali maestri. Per tale ragione, all’interno di un proprio textus le tracce che vi ha volontariamente disseminato servono in realtà a depistare, a confondere. Al contrario, le vere influenze vengono sottaciute, se non addirittura nascoste o rimosse più o meno volontariamente. H. Bloom ha esposto le sue tesi in Id., L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, trad. di M. Diacono, Milano, Feltrinelli, 1983 (19731). Quarant’anni dopo quest’ opera canonica, il critico
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radicale, si può comprendere appieno come per lui sia nei fatti impossibile ritrovare un senso al nostro esistere, rinvenire una direzione di percorso. I grandi e piccoli eventi che scandiscono la vita d’ognuno si confondono, risucchiati in una medesima nebulosa. Agli esseri umani, non è dato di incidere sul reale; e non esiste progresso. Per Lampedusa e per i suoi personaggi, «La vita delle cose e degli uomini procede per proprio conto, si consuma al di fuori di ogni coscienza, non è possibile imporle nessuna misura o valore razionale»65.
La conoscenza, così come l’agire, sono inficiate, comunque, da questo vizio di fondo: la consapevolezza che lo slancio vitale dell’uomo è destinato ad arrestarsi sempre, costantemente contro il nulla66. Spogliato da ogni suo orpello, restituito alla sua più autentica essenza, in Lampedusa, l’atto del vivere si configura, parafrasando una suggestiva espressione di Zago, come un transito inesorabile verso la morte67.
La Parte VII del libro costituisce la summa più autentica di questa concezione.
L’avventura terrena di don Fabrizio è ormai giunta al capolinea. Il principe ne è consapevole, ma neppure per un istante si ribella. Non ha più ragione d’essere l’angoscia che l’ho ha accompagnato durante la sua esistenza, nelle fasi convulse ed
americano ha scritto Anatomia dell’influenza. La letteratura come stile di vita, trad. R. Zuppet, Milano, Rizzoli, 2011, un testo al quale, come si legge sulla sua quarta di copertina, ha voluto affidare la sua «riflessione definitiva sul processo dell’influenza letteraria».
65 G. Ferroni, Il «caso» Lampedusa, in Storia della letteratura italiana, Il Novecento, vol. IV, Torino, Einaudi, 1997, pp. 456-458; a p. 456.
66 Scrive Spinazzola: «Così il principe protagonista ci appare in definitiva come l’ultima sublimazione di una figura tipica del decadentismo letterario: l’intellettuale vero, colui che ha capito tutto perché si è reso conto che non c’è nulla da capire», Id., Il romanzo antistorico, cit., p. 215. In realtà, l’attributo di intellettuale riferito al principe di Salina, viene utilizzato per primo da Sciascia: «Quella del Gattopardo è un’operazione importante (non nel senso di Bassani «religioso», poetico) perché immette nella letteratura italiana un protagonista che è un «eroe intellettuale», un personaggio intelligente», Id., Sono le cose che mi mettono in crisi, non i libri, in «Giornale di Sicilia», 18 gennaio 1970. Questa frase viene riportata anche da G. Traina nella monografia che questi dedica allo scrittore di Racalmuto e intitolata Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, a p. 192. Lo studioso nota opportunamente che Sciascia, utilizzando questa definizione, riconducibile tra l’altro a Victor Brombet e a un suo libro del 1966, voleva accentuare la grandezza di Lampedusa e del suo romanzo, dopo averle inizialmente negate (ivi, pp. 192 e segg.). Infatti, come lo scrittore racalmutese ben sapeva, già il personaggio di Filippo Rubè, protagonista dell’omonimo romanzo di Giuseppe Antonio Borghese e pubblicato da Treves nel lontano 1921, rappresentava la personificazione dell’eroe intellettuale.
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egualmente intense di un contemporaneo corteggiamento della morte e della vita68. (In realtà, l’amore per la vita si è tradotta in lui in un carnale, sensualissimo attaccamento ad essa. Prevale in don Fabrizio l’urgenza di abbandonarsi alla pienezza delle sensazioni che è possibile cogliere in ogni istante; e il bisogno di tessere fitte reti analogiche tra tutti i sensi, in una perpetua ricerca del miracoloso momento di quiete che rende d’improvviso possibile la sospensione degli affanni).
Lo scrittore si serve d’una sapiente orditura sintattica e di una lingua raffinata e musicale per tracciare il grafico di questi ultimi istanti. Per disvelarci che nell’animo del suo eroe giunto alla fine della propria avventura terrena, è la curiosità a prevalere, non certo la paura o il disorientamento. E la chiusa finale, affidata a un’immagine di rara icasticità, è di quelle che non si dimenticano.
Sino a quel momento, per delineare il campo di forze tra don Fabrizio e la morte, Lampedusa si è servito di un’ area semantica straniante che rimanda al desiderio tradito o ad una crudele schermaglia d’amore. Non vi è mai stata la sicurezza di potere addomesticare l’altro amante; la certezza di possederne il corpo. Adesso invece, tutto ad un tratto, l’ansia si placa; dilegua.
L’intera esistenza del principe sembra raggrumarsi e trovare senso in quell’unico, terribile e numinoso istante in cui con un pacato atto di resa anche l’ultimo uomo-gattopardo si consegna alla bellissima donna con la veletta.
A Lampedusa bastano poche parole per dirlo: « Era lei, la creatura bramata da una sempre che veniva a prenderlo […] pudica ma pronta ad esser posseduta»69.