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I. TITANISMO E CHIAROVEGGENZA DISINCANTO

1.3 CHIAROVEGGENZA E CECITA’

Nel maggio del 1860, scelta quale data d’inizio della narrazione, il principe Fabrizio è già un uomo di mezz’età25. Ha avuto parecchio tempo a sua disposizione per guardarsi attorno e prendere atto di quanto sta accadendo attorno a lui. Egli sa di

22 Ivi, p. 30. Soltanto nella Parte VI, in un intenso crescendo disforico, si preciseranno i termini di quel «cattivo umore [ che] lo invadeva lentamente» e con cui il principe deve incessantemente confrontarsi, ivi, p. 214. E anche di quella malinconia che con estrema facilità tende a mutarsi nel suo animo «in umor nero autentico», ivi, p. 216.

23 Ivi, p. 238. 24 Ivi, p. 231.

25 L’età attribuita al Principe in questa Parte, 45 anni, ci permette di situarne la nascita nel 1815. Ma nella Parte VII, ambientata nel 1883, come ha già rilevato Samonà nella sua famosa monografia, questo dato viene sconfessato: vi si asserisce, difatti, che don Fabrizio ha 73 anni, dunque bisognerebbe retrodatarne la nascita al 1810. Incongruenze e sviste simili a questa segnano in vario modo l’opera e da sempre infiammano il dibattito sulla reale tenuta della struttura romanzesca gattopardiana. Non è qui il caso di indulgere in questa sterile polemica. Piuttosto, è degno di nota ricordare che se il 15 maggio 1860 segna la data dello sbarco di Garibaldi nell’isola, sempre un 15 maggio, ma stavolta del 1946, sarebbe stata proclamata l’Autonomia siciliana.

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essere l’ultimo esponente di una casata prestigiosa, che nei tempi passati ha dominato a lungo e con inflessibilità su uomini e terre della sua Sicilia.

Rappresentante di spicco della nobiltà isolana, il principe di Corbera appare pienamente integrato alla casta aristocratica a cui appartiene per nascita, al punto di seguirne consapevolmente, in una sorta di inquieto cupio dissolvi, il destino di dissoluzione che l’attende (e in questo senso va letto il gran rifiuto che il principe opporrà a Chevalley).

All’interno di questa rigida struttura sociale –una dimensione cronotopica verticale, raffigurabile come una piramide, e che assume la valenza di un mondo chiuso, immobile, impermeabile– il principe di Salina sembra essere a proprio agio. Anche lui vi si muove con l’orgoglio malcelato di un’antica razza predona abituata all’esercizio di un potere illimitato.

Eppure, sebbene lo smaliziato gattopardo condivida il linguaggio, i rituali e le regole della classe d’appartenenza, esiste una differenza sostanziale tra lui e i suoi simili. Già dopo poche pagine, ci rendiamo conto che l’adesione del principe a un codice di valori comuni o ad un medesimo sistema di riferimento culturale, cognitivo, comportamentale, è solo apparente. Incapace di vivere e operare in un mondo diverso da quello in cui è nato e cresciuto, egli sa, con ogni fibra del proprio essere, che soltanto entro i confini dell’universo nobiliare gli è concesso di conservare la propria originaria identità di nobile e padrone; di potere continuare a perpetuare gli antichi benefici (e i molti vizi) di cui hanno bisogno le persone come lui e di vedere riconosciuto il proprio status sociale.

Tuttavia, lo scarto non potrebbe essere più radicale.

Lampedusa scopre con sapienza le sue carte. Don Fabrizio non è diverso per le sue stravaganze o per l’imponenza e l’animalità del suo corpo. Ma lo è perché è dotato di un’evidente superiorità intellettiva e di una inusuale capacità di scrutare a fondo nel cuore degli uomini (neppure le amate stelle riescono mai a distogliere del tutto la sua attenzione dalla disincantata contemplazione di quelle «povere scimmie

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bastonate» che sono le creature umane 26). E, soprattutto, perché possiede il dono amaro della chiaroveggenza. Al contrario degli altri, infatti il principe di Salina non è cieco e non si pone, dunque, illusioni.

Siamo ad uno snodo essenziale della Weltanshauung lampedusiana. Nel sistema pensiero di questo autore il concetto di cecità (e l’area semantica che si dispone tra i due poli opposti luce/buio) riveste una grande importanza. Essa è intesa come una mutilazione spirituale che impoverisce profondamente l’uomo e ne condiziona in senso negativo il pensiero e l’agire. Nel romanzo, lo scrittore se ne serve come di una metafora a cui ricorre con una certa frequenza27, (né va dimenticato che egli aveva in mente di intitolare la sua seconda opera I gattini

ciechi28).

Contrariamente alla maggior parte degli altri (nobili e non), egli osserva ogni cosa con uno sguardo lucido e vigile. È consapevole di essere l’ultimo membro «di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l’addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti»29. Ha già compreso che confini liminari dell’universo nobiliare sono già stati intaccati in maniera irrimediabile e che le fatiscenti strutture sociali, entro le quali l’aristocrazia aveva prosperato sino a moltiplicare in maniera vertiginosa i propri anacronistici privilegi, non sopravvivranno agli urti della storia.

Soprattutto, si è già reso conto che nulla può dinanzi allo sfacelo di quei suoi «parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume del pragmatismo siciliano»30. Un esempio valga per tutti. Diversamente da Màlvica che

26 La citazione si trova in Letteratura francese, nella “lezione” dedicata Montaigne, pp. 1555-1571, a p. 1556. Come si è già rilevato, la medesima «visione zoologica» scimmiesca è presente nella Parte VI del Gattopardo, cit., a p. 216.

27 Uno spoglio sommario basta a testimoniare che di cecità si allude o si parla spesso nel Gattopardo, cit.: a p. 183 tocca a Chevalley soffermarsi sulla «cieca miseria morale dei siciliani»; subito dopo, a p. 185, in un passaggio del celebre monologo di don Fabrizio, ci viene detto che « quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, […] in realtà è cecità»; a p. 218, invece, tocca ai giovani Tancredi e Angelica immergersi nel buio della «propria passeggera cecità».

28 Cfr. G. Lanza Tomasi, in Premessa ai Racconti, a p. 419. 29 Il Gattopardo, cit., p. 30.

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incarna tutte le deficienze dell’uomo aristocratico, egli non sa più accettare il dogma secondo il quale «l’idea di monarchia rimane lo stesso quella che è; essa è svincolata dalle persone»31. Il cognato si ostina ancora a vedere anche nell’ultimo monarca borbonico «colui che rappresenta l’ordine, la continuità, la decenza, il diritto, l’onore […] che solo difende la Chiesa, che solo impedisce il disfacimento della proprietà, meta ultima della “setta”»32.

L’uomo-gattopardo, invece, in Ferdinando non scorge altro che un «seminarista vestito da generale», con un «faccione smorto» ma un pericoloso «ghigno poliziesco» che gli increspa le labbra33 . Mi sembra plausibile, tra l’altro, vista la dimestichezza che Lampedusa ha con la storiografia che questo accenno al re seminarista sia un rimando (molto poco velato, per la verità) alla figura di Mussolini che frequentò, per l’appunto, il collegio religioso salesiano di Faenza tra il 1892 e il 1894 34.

Don Fabrizio è indisposto dalla pericolosa sciatteria della corte napoletana, nella quale si specchia «una monarchia che aveva i segni della morte sul volto» 35.

Ma lo sguardo del gigante si spinge ancora più in là.

La sua perspicacia lo porta a scrutare oltre le brume delle contingenze presenti. Il principe astronomo si dice certo che nell’avvicendamento (o mera sostituzione?) tra i Borboni e i Savoia, nulla, nella sostanza, sarebbe davvero mutato per i siciliani e che il processo di piemontizzazione della Sicilia, tanto temuto dalla “setta”, si sarebbe consumato senza particolari clamori36.

31 Ivi, p. 33. 32 Ibidem. 33 Ivi, pp. 34-36.

34 A supporto della mia ipotesi, cfr. S. S. Nigro, Il Principe fulvo, cit.. In questo saggio il critico ha individuato vari riferimenti al fascismo presenti nella fabula gattopardiana: ad esempio, ivi a p. 31 fa notare che la data della morte di don Fabrizio, a fine maggio 1883, non coincide con quella Giulio Tomasi, ma piuttosto con la nascita del duce. A Nigro, va anche riconosciuto il merito di avere documentato la svolta del principe nei confronti del fascismo: da un’impartecipe, passiva adesione alla sua ideologia, sino all’ opposizione ad essa, ivi, pp. 24-31.

35 Il Gattopardo, cit., p. 36.

36 «Il Piemontese, il cosiddetto Galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuori mano? Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese, invece che napoletano; e basta.», Il Gattopardo, cit. p. 36. Nel lessico gattopardiano, un posto di rilievo è occupato dalla parola idiomatica “setta”. Ad essa viene attribuita, al di là del contesto di riferimento, una connotazione negativa, poiché indica

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Naturalmente, la chiaroveggenza condanna don Fabrizio ad una pericolosa solitudine e ad una profonda infelicità personale. Difatti, se è impossibile dotare di senso il futuro, gli risulta altrettanto inattuabile convivere in pace con se stesso nel tempo presente. Egli vive «a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi» e a causa di ciò si sente «come colui che si trova a disagio i tutti e due»37. Esattamente come per Chojnicki, suo fratello d’animo, anche per lui «il mondo in cui valeva ancora la pena di vivere era condannato al tramonto. Quello destinato a succedergli non meritava più un solo abitante rispettabile»38.

Don Fabrizio è incapace di condividere lo sciocco ottimismo della «casta», come di aderire ai cinici propositi di Tancredi. La vita, ormai, gli si è disvelata nella propria amara insensatezza, in tutto il suo «orrido vero»39. Gli ha mostrato come sia da stolti pensare che esista crescita e sviluppo, o che gli esseri umani procedano in avanti, in una marcia irresistibile, lungo la linea del tempo. L’uomo di Lampedusa è escluso dagli eventi. Il Gattopardo rigetta l’idea stessa di progresso come «vacua teleologia dell’oltranza»40. Offre, in questo senso, una chiusura sostanziale al divenire storico.

sempre un manipolo di uomini che si arrocca nell’indifendibile fortino dei propri privilegi. Si pensi a quello snodo del romanzo, a p. 33, dove per bocca di don Fabrizio, viene asserito che solo serrando le fila, la «setta» nobiliare può preservare ancora per qualche tempo i valori in cui si rispecchia ad usufruire dei benefici e delle immunità che derivano dall’appartenervi. In seguito, a p. 40, ritroviamo scritto che «Tancredi era giunto al punto di avere simpatie per le “sette”». Nella Parte VI del libro, a p. 206, si precisa poi che la setta è quella casta di «duecento persone che componevano “il mondo” [e che] non si stancavano d’incontrarsi, sempre gli stessi, per congratularsi di esistere ancora». L’ideologema ritorna sempre in questa valenza anche nelle parole messe in bocca al primogenito di don Fabrizio, il futuro duca di Querceta. Personaggio privo di spessore, di intelligenza e di perspicacia, Paolo azzarda una sorta di giudizio politico, non condiviso dal padre, quando trasforma i garibaldini nella «setta dei farabutti che tengono la Sicilia in subbuglio», ivi, p .62.

37 Ivi, cit., p. 181.

38 J. Roth, La marcia di Radetzky, trad. L. Terreni e L. Foà, Milano, Adelphi, 1987, p. 242.

39 Per quanto riguarda i rapporti tra il principe e il poeta recanatese, G. Barthouil, Leopardi et

Lampedusa, cit,. Più recente, G. , Leopardi e Gattopardi. Due scrittori a confronto, cit..

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1.4 “REAZIONARISMO” E DISINCANTO41

Il paesaggio interiore di don Fabrizio è uno spazio vitale angusto, all’interno del quale egli si muove non come un gigante, ma come una belva in gabbia.

Tuttavia, sbaglia chi vorrebbe continuare a vedere in questo atteggiamento del principe-astronomo il segno più evidente del reazionarismo lampedusiano. L’emblema di un suo fanatico attacamento alle decrepite strutture sociali nobiliari. O presupporre una piena sovrapposizione tra la figura dello scrittore e quella del suo eroe.

È indubbio che il Gattopardo presenti un ampio ambito di referenza biografica ed esistenziale, ma va probabilmente rivisto il concetto di autobiografismo lampedusiano. Esso connota in vario modo l’intera opera dello scrittore isolano, eppure come sottolinea Natale Tedesco

La verità è che esistono molti modi di intendere l’autobiografismo di un’opera […]. In realtà nell’opera di Lampedusa esso è presente con quella qualità che ne fa il tema della letteratura del Novecento. Una notizia del mondo, un disvelamento del vivere, in cui un’esperienza e un giudizio personali, devono rendersi come esemplari misure di durevole significato generale, senza perdere il connotato e il valore, la pregnanza di un’appassionata avventura individuale42.

La «notizia del mondo» che Lampedusa ha consegnato al Gattopardo è più complessa di quanto non appaia inizialmente. Nel romanzo, per sua stessa ammissione, convivono più livelli di rappresentazione storica. La Sicilia che vi si trova raffigurata è quella «del 1860», ma è un’isola sospesa in una sua ancestrale immobilità, al punto di apparire quella «di prima e di sempre». Al contempo,

41 Sul presunto reazionarismo dello scrittore, rimane a tutt’oggi valida la lettura di L. Russo, Analisi

del «Gattopardo», in Belfagor, XV, 1960, 5, pp. 513-530; a p. 515 c’è la celebre asserzione che «in arte non ci sono reazionari».

42 N. Tedesco, Il contributo dei siciliani al rinnovamento del codice narrativo tra il 1945 e il 1992, in

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sebbene il romanzo narri di «un nobile siciliano in un momento di crisi […] non è detto che [tale crisi] sia soltanto quella del 1860»43.

Il racconto di Lampedusa ha trovato un suo primo nucleo aggregante attorno all’evento traumatico della scomparsa dell’aristocrazia terriera isolana che si verificò sul finire dell’Ottocento. In quel preciso frangente, favorito anche dalle mille incongruenze con cui vennero gestiti l’epopea risorgimentale e il moto di unificazione nazionale scaturito da essa, il processo di dissoluzione di questa classe dirigente subì un’accelerazione improvvisa, a vantaggio dell’ascesa di un nuovo soggetto sociale: una borghesia capace, ma grossolana, priva di scrupoli e di lungimiranza.

Però, ad un altro livello di strutturazione della materia narrativa, peraltro da subito rilevato dai primi attenti lettori del romanzo, accanto al tempo della

narrazione, vi è anche la raffigurazione del tempo narrato. In quest’opera

ritroviamo così un riflesso tangibile della situazione politica dei convulsi anni ’50 durante i quali lo scrittore porta a compimento il suo capolavoro. Lampedusa, e assieme a lui la parte migliore della «cultura siciliana si apprestava a fare i conti con il passato della Sicilia»44. E lo scrittore aveva voluto affidare alla propria fabula tutto il proprio amaro disincanto di intellettuale accorto, consapevole dei gravi limiti dell’azione politica contemporanea e in grado di leggere, nei suoi diversi gradi di profondità, la sofferenza in cui versava il tessuto sociale, economico e morale della sua isola e dell’intera nazione.

Nell’involucro storico del libro trova dunque accoglienza il tempo, privo di precisi confini cronologici, di un’età di decadenza in cui sta mutando il quadro del mondo sino ad allora conosciuto e il codice assiologico a cui esso faceva riferimento. Il disagio in cui sprofondano sia lo scrittore, uomo del Novecento, che don Fabrizio, lo straordinario personaggio letterario da lui creato e “uomo” dell’Ottocento, non ha dunque solo una radice storica, ma pure esistenziale.

43 Lettera a Enrico Merlo, cit. p. 18.

44 G. Giarrizzo, Sicilia oggi, in La Sicilia. Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino, Einaudi, 1987, pp. 603-670, a p.611.

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La grandezza di Lampedusa consiste anche nella sua capacità di guidare il lettore verso una nuova presa di coscienza.

Un testo che sembrava avere più di un debito verso la grande tradizione del romanzo storico ottocentesco, è invece un’opera che come poche sa parlare all’uomo moderno e al suo animo irrequieto. Nel corso della narrazione, l’autore è riuscito a spostare l’attenzione del lettore dalla condizione storico-sociale dell’eroe, profondamente influenzata dalle congiunture e dalle contingenze dell’epoca in cui ha ambientato il romanzo, alle inquietudini che sono inscritte nella nostra stessa natura di creature estremamente fragili e che segnano in vario modo la storia umana in ogni tempo e in ogni età.

II. IL GIARDINO DEL PRINCIPE. NUOVE IPOTESI INTERPRETATIVE SULLA