Nel segno del Gattopardo, difatti, va riletta anche una delle opere canoniche del secolo appena trascorso, Il sorriso dell’ignoto marinaio 103.
Al centro di una narrazione ardita, giocata su più piani narrativi, decisamente sperimentale nella struttura e nella lingua, si accampa la figura storica di Enrico Pirajno, nato e vissuto a Cefalù nei primi anni dell’800. Nobile illuminato e liberale nutrito di ideali risorgimentali, il barone di Mandralisca fu impegnato come pochi nel sociale
102 L. Fava Guzzetta, Avevo la Spagna nel cuore, in Nelle regioni dell’intelligenza. Omaggio a
Sciascia, a cura di L. Fava Guzzetta, Pungitopo, Marina di Patti, 1992, p.86.
103 L’edizione a cui faccio riferimento è: V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Oscar Mondadori, 2010. Un contributo critico essenziale a questo libro è costituito dal saggio introduttivo dell’ed. mondadoriana del 1987: C. Segre, La costruzione a chiocciola nel« Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, ora in Id., Intreccio di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino, 1991, pp. 71-96.
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Pubblicato nel 1976, nove anni dopo il Consiglio, l’opera di Consolo, ambientata nella Sicilia della spedizione dei Mille, riprendeva da Manzoni e Sciascia l’esigenza di una scrittura letteraria che fosse interrogazione dei processi storici, indagine serrata sulla crudeltà del potere e lezione di impegno104. E raccoglieva la sfida di un romanzo in grado di raccontare il silenzio assordante dei vinti.
Fedeli al mandato sociale dello scrittore, Consolo e Sciascia ci accompagnano per mano nelle zone d’ombra della storia, in quelli che con un’espressione felice Claude Ambroise, ha definito «i luoghi dell’impostura»105. Li esplorano sin nei loro angoli più ciechi. Ed entrambi affidano ai loro eroi la speranza illuministica di un futuro migliore. L’idea di base che li sorregge, potrebbe essere sintetizzata da quanto scritto dal racalmutese in un commento a margine del pamphlet manzoniano: «il passato, il suo errore, il suo male non è mai passato: e dobbiamo viverlo e giudicarlo nel presente»106.
Al contrario, per Lampedusa vale l’insegnamento di Montale, secondo cui la Storia non è più magistra di nulla. Nel suo orizzonte d’attesa non è contemplato, come in Manzoni, il messaggio provvidenziale della fede; né si situa la fiducia illuministica –cauta, ma forte– nell’umano agire di cui si fanno interpreti sia Sciascia che Consolo.
Eppure, malgrado il diverso presupposto gnoseologico che sorregge le loro scritture, Consolo riceveva in dono da Lampedusa ben altro che il nucleo narrativo di una fabula storica antirisorgimentale.
Lo scrittore da vita con il barone di Mandralisca ad una figura di intellettuale antitetica per ideologia al principe di Salina, ma vicina a lui per sensibilità. Sia l’uno che l’altro possiedono una intelligenza inconsueta e una cultura assai vasta; ammirano e apprezzano la bellezza del creato come fosse l’espressione più alta di
104 Gli autori «scrivendo romanzi storici [hanno] il dovere dell’opposizione e della critica del potere», V. Consolo, La poesia e la storia, cit., p. 585.
105 Per un approfondimento dei concetti di impostura e verità nell’opera sciasciana, cfr. C. Ambroise,
Verità e scrittura, in Leonardo Sciascia. Opere, vol. I, cit. pp. XVII-XXXIX.
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un’umanità altrimenti derelitta. L’uno in qualità di astronomo e l’altro come malacologo, sono uomini di scienza. Entrambi, inoltre, secondo l’insegnamento manzoniano, utilizzano l’ironia come supremo esercizio di pietà, come un velo da stendere sulle manchevolezze dei loro simili107. L’insidiosa letterarietà della parola tomasiana, ricca di aggettivi e fremiti musicali, gravida di richiami intertestuali, regala non poche suggestioni all’ impasto lessicale colto e all’ardimentoso ordito morfo-sintattico di un autore predisposto come pochi al plurilinguismo, ma anche al pluristilismo.
Ancora più rilevante è la centralità che assume nelle due opere la metafora bestiale e il modo in cui essa viene declinata attraverso vari correlativi oggettivi.
All’immagine dell’uomo-gattopardo, dall’aspetto elegante e raffinato, ma irruente nei gesti e facile all’ira, si contrappone quella consoliana della chiocciola che ritorna con insistenza nella trama dell’opera. La struttura elicoidale di questo animale ricorda al lettore del Sorriso l’imperscrutabile spirale della Storia, un labirinto che offre ai vinti, alle classi subalterne, poche vie di fuga; o assume, al contrario, agli occhi del malacologo Enrico Pirajno, il valore positivo di un mondo separato dagli affanni e dalle brutture del reale. Per il barone di Mandralisca lo spazio della ricerca scientifica, è uno spazio puro, incontaminato e inviolabile esattamente come lo sono le plaghe celesti dove cerca pace lo sguardo disilluso di don Fabrizio.
Esiste, però, tra i due autori un altro punto di raccordo importante. Nel capitolo successivo ci soffermeremo sull’ansia solidaristica che spira nel Gattopardo e che consente a don Fabrizio di trovare una correzione adeguata al proprio male di vivere e all’insulsa avventura del nascere per morire. Qui basti sottolineare che un’ ansia simile, e come quella tomasiana di chiara ascendenza leopardiana, alberga nel cuore dei personaggi consoliniani.
107 Bisogna comunque annotare che all’inizio della narrazione anche il barone, come il principe di Salina, è scettico nei confronti dei processi storici e dei reali mutamenti nei rapporti tra le forze egemoni.
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Gli eroi di Consolo sono pronti, soprattutto nelle opere iniziali a unirsi in «una confederazione di uomini» 108 che lottano fianco a fianco, contro il terribile Leviathan costituito dalla bieca Ragion di Stato. Naturalmente, l’approdo solidaristico è, per le fragili creature umane di Lampedusa radice di identità, nutre un sentimento di appartenenza del singolo al consesso civile. Esso giova agli uomini per sostenersi gli uni agli altri, a vicenda e rendere meno aspri gli affanni del vivere. Nell’opera di Consolo, invece, fornisce motivazioni per una lotta politica comune, destinata a rifondare le regole del vivere civile.
Nel segno del Gattopardo credo vada pure riletto lo stesso Gesualdo Bufalino.
Anche questo scrittore si cimenta, mediante Le menzogne della notte, col nucleo identitario di quella fabula d’ambientazione ottocentesca portata al successo da Lampedusa. L’opera di Bufalino si colloca, però, nella temperie culturale post moderna. È ormai radicalmente mutato lo statuto epistemologico e poetico del ‘fatto’ storico e la Storia esiste solo all’interno della dimensione narrativa.
Il romanzo dello scrittore di Comiso, calato in una non ben identificata isola penitenziaria mediterranea al tempo dei Borboni, si presenta, nella migliore tradizione di questo autore, come un’opera d’ambientazione teatrale e una ri- scrittura del romanzo storico declinata nei modi di un divertissement letterario.
La presenza tomasiana è però più evidente nel capolavoro di Bufalino. Basta sfogliare le pagine iniziali della Diceria dell’untore pubblicato nel 1981, per rendersene conto109. Anche al centro di quest’opera vi è un profondo disinganno della vita, ma il pessimismo bufaliniano di chiara matrice esistenziale, si complica di una sotterranea inquietudine confessionale d’ascendenza cattolico-cristiana che è invece assente in Lampedusa.
108 V. Consolo, La poesia e la storia, cit., a p. 584.
109 L’edizione a cui si fa riferimento è G. Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, Bompiani, 1992, Prefazione di F. Caputo, Intervista di L. Sciascia.
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Vivere diventa nel linguaggio di Bufalino «un’ingiunzione d’esistere»110. Il personaggio assiale, chiuso nel sanatorio de La Rocca (in questo scrittore gli spazi reclusori si moltiplicano vertiginosamente), si considera «un ostaggio provvisorio in mano al sinedrio»111.
Ma nel descrivere la «tenera intimità» che il suo protagonista ha istaurato con una fine che immagina prossima, e che invece non lo sarà, recupera i termini del corteggiamento della morte di Lampedusa. Il campo semantico della Diceria si addensa attorno «a una scherma d’amore» e compare persino la figura della «fanciulla» messaggera oltremondana, che tanto ricorda la donna con la veletta del
Gattopardo, e che, come in questo romanzo si palesa «prima della decisiva
capitolazione nel buio»112.
Soprattutto, ritorna in Bufalino il tema controverso dell’innocenza degli uomini, attorno al quale il principe tesse tante indimenticabili pagine del suo capolavoro. Difatti, all’interno del sanatorio abbarbicato sull’altura palermitana e gestito con severo, umanissimo cipiglio dal Gran Magro (un medico dai nobili natali e dall’animo tormentato, che risponde all’improbabile nome di Mariano Grifeo Cardona di Canicarao), ciascun ospite si confronta non soltanto con la morte, ma soprattutto con l’insondabile mistero del dolore, legato nella visione cristiana alla caduta originaria dell’uomo e, dunque, frutto del peccato.
Non sfugge a questo confronto neppure il cappellano della struttura, che nel tentativo di convertire il protagonista ha invece finito col lasciarsi contagiare dal suo scetticismo113. Tra le «proposizioni» blasfeme che padre Vittorio ha affidato a un suo diario personale ve n’è una in particolare che ci riconduce a Lampedusa: «Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero mi conforta: sono un uomo
involontario, dunque sono un uomo innocente»114.
110 Ivi, p. 9 111 Ibidem. 112 Ibidem.
113 Sul controverso rapporto del protagonista con la fede, cfr. Diceria, a p. 14. 114 Ivi, p. 31. Il corsivo è il carattere originale.
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Termini simili e una visione identica a questa (tanto più stridente se si considera il professato ateismo di Lampedusa) riecheggiano in un celebre passaggio del Gattopardo. Sul letto di morte, don Fabrizio Salina riceve la visita del prete che gli dovrà impartire l’estrema unzione. Tuttavia, mentre sta per confessarsi, scopre di non avere «molto da dire»115. In realtà, «Non che si sentisse innocente: ma era tutta la vita ad essere colpevole, non questo o quel singolo fatto; vi è un solo peccato vero, quello originale; e ciò non aveva più il tempo per dirlo»116.
Poco importa se le posizioni di partenza sono diametralmente opposte, se l’ansia metafisica e la tensione esistenziale di Bufalino si nutrano di implicazioni religiose, sconosciute –per sua stessa ammissione− a Lampedusa. Attraverso le parole dei loro personaggi, i due scrittori ribaltano i termini innocenza/colpevolezza e rigettano il rassicurante assioma che rende la sofferenza figlia legittima di una colpa primigenia.
Esiste, infine, un altro elemento in comune tra i due autori. Anche l’opera di Bufalino ritrova nella letterarietà della sua prosa uno dei suoi elementi costitutivi. Lo scrittore ama le forzature antinaturalistiche di una sintassi ricercata e barocca; l’oltranzismo lirico di un vocabolo inconsueto e prezioso; si affida a un testo sovraccarico di metafore117.
In questo senso Bufalino si colloca lungo una linea di continuità che ha avuto il suo precursore proprio in Lampedusa e ha già conosciuto la geniale reinterpretazione dell’espressionismo consoliniano.
115 Il Gattopardo, cit., p. 239. 116 Ibidem.
117 F. Caputo, nella bella Prefazione alla Diceria, cit., pp. V-XI, a p. VI., riporta un giudizio dello stesso Bufalino: «Nel mio caso, io parlerei di barocco borrominiano […] l’ornato è una funzione, senza di esso l’architettura cadrebbe».
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Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti e le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.
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3.1 «LA GINESTRA LAMPEDUSIANA» NEL DIBATTITO CRITICO
Nel 1974 vide la luce un testo essenziale dell’ermeneutica lampedusiana. Ne era autore Giuseppe Paolo Samonà, intellettuale raffinato e autorevole studioso di letteratura italiana e ispanica, e si intitolava, significativamente, Il Gattopardo. I
Racconti. Lampedusa. Da una fascetta sulla copertina, l’editore avvertiva che esso
era «La prima monografia sul grande scrittore siciliano»1.
In effetti, colmando una lacuna inconcepibile, lo studioso si accostava in maniera inusuale al principe siciliano e offriva, per la prima volta, una lettura organica del suo capolavoro e dei suoi racconti. Nonostante l’ampia messe di articoli, recensioni e interventi seguiti alla pubblicazione del romanzo, e la cui quantità costituiva di per sé un evento senza precedenti nella nostra storia letteraria, nessuno lo aveva ancora fatto.
Qualche tempo dopo la morte dell’antico maestro, nel 1963, Francesco Orlando pubblicò il suo bellissimo Ricordo di Lampedusa2, in cui raccontava tra (molte) reticenze e pudori le tappe salienti di un’amicizia straordinaria e delineava un profilo fondamentale dello scrittore. Un uomo al quale, egli che gli si era accompagnato negli ultimi quattro anni della sua vita, riconosceva «una personalità fuori dal comune»; una cultura vastissima e profonda; ma anche una sostanziale incapacità nel gestire i rapporti umani3.
Scostante e ombroso con gli altri; e a tratti cinico ed inflessibile con se stesso, nel ritratto intenso e partecipe del suo allievo, Lampedusa si delineava come «un gran signore cresciuto in un mondo ancora ottocentesco ed in parte all’estero» e nel quale «si mescolavano in varia misura raffinatezza di educazione, apporti dalla
1 G. P. Samonà, Il Gattopardo. I Racconti., cit.
2 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit. Questa edizione dell’editore Scheiwiller è ormai pressoché introvabile.
3 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa seguito Da distanze diverse, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 21. Tutte le citazioni a cui si fa riferimento in questo capitolo sono tratte da questa edizione, da ora in poi indicata solo come Ricordo.
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cultura francese ed inglese, disincanto senile, pessimismo aristocratico e formazione positivista»4.
Nel Ricordo, soprattutto veniva fuori con chiarezza un elemento preponderante della personalità di Tomasi di Lampedusa, destinato a giocare un ruolo cruciale nella sua personale visione del mondo e di riflesso nella sua poetica: il fatto che fosse nato e fosse sempre vissuto da principe5. E che come tale sarebbe infine morto, chiuso in un suo sdegno corrucciato nei confronti dei tempi nuovi e dei nuovi eroi che erano chiamati ad occuparne la ribalta, rappresentati nel romanzo da personaggi come Pietro Russo o Calogero e Angelica Sedàra.
Orlando certificava, insomma, che Il Gattopardo fosse il romanzo di un esponente di quella casta nobiliare ormai sconfitta dalla storia, ma ricca ancora di tradizioni, valori, cultura6. Questa peculiare dimensione dell’opera era facilmente riscontrabile nelle atmosfere che la fabula risorgimentale evocava, nella scelta dei suoi protagonisti e, soprattutto, dei luoghi nei quali erano stati chiamati a vivere e agire –gli spazi del privilegio, per l’appunto–. Ma soprattutto per la particolare angolatura con cui il mondo e la vita vi trovavano rappresentazione, e che era quella di un nobile che doveva ormai fare i conti con la decadenza della propria classe
4 Ivi, p. 14. 5 Ivi, p. 55.
6 Si consideri anche quanto Orlando avrebbe scritto negli anni ’90 sul romanzo: «Il Gattopardo è, su scala europea, (da quando può dirsi un fatto compiuto il ricambio di classe dominante che si svolse attraverso l’Ottocento e ne occupò in abbondanza la narrativa), il solo romanzo scritto da un aristocratico, sul passato recente della propria classe, con punto di vista totalmente interno a essa». (il corsivo è dell’autore), Id., L’intimità e la storia, cit., p. 19. Cosa rappresentasse l’aristocrazia per Lampedusa e quali valori incarnasse, egli lo fa dire direttamente ad alcuni suoi personaggi. Tocca dapprima a don Fabrizio durante l’immaginario dialogo con suo cognato Màlvica, Il Gattopardo, cit., a p. 33; quindi a padre Pirrone, durante un altrettanto ipotetico colloquio (ma molto più articolato) con Pietrino, ivi, a pp. 192-197. Da notare che in entrambi questi due passaggi gli interlocutori sono fisicamente assenti, come nel caso del cognato; oppure dormono profondamente, come in quello dell’erbuario. Non è un particolare di poco conto: secondo una sua tipica modalità narrativa, l’autore ha voluto “correggere” e “alleggerire”, mediante il ricorso a una velata ironia, uno snodo concettuale assai importante nel suo sistema di pensiero. Al principe astronomo, tocca infine, in limine mortis, esplicitare il significato di un casato nobile, cfr. Il Gattopardo, cit., p. 238. In ultimo, bisogna ricordare anche il panegirico sulle «vecchie famiglie» nobiliari, affidato a Rosario La Ciura, il protagonista di un noto racconto di Lampedusa: Id., La sirena, in Opere, cit., pp. 492-524, a p. 498.
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d’appartenenza e il rimpianto lacerante d’un passato infinitamente migliore del presente. Inteso, anzi, come una mitica «età dell’oro»7.
Egli dimostrava che le preoccupazioni espresse da don Fabrizio nei confronti dell’imbarbarimento antropologico che i tempi nuovi portavano con sé, come una epidemia inarrestabile e mortale, erano in fondo le stesse preoccupazioni che nutriva l’autore da cui era stato creato. Annichilito dall’«esperienza della modernità»8, lo scrittore avrebbe fatto nel suo romanzo antirisorgimentale anche i conti con la perdita irrimediabile delle «povere cose care»9 che avevano costituito il suo orizzonte di vita e la radice stessa del suo essere.
Eppure, questo piccolo libro prezioso uscito in un’ edizione raffinata ma «semiclandestina» per i tipi di Vanni Scheiwiller, non aveva ottenuto il dovuto riscontro. Dieci anni dopo, sarebbe toccato proprio al saggio di Samonà raccoglierne la sfida10.
Per quanto assai dissimile per forma e contenuti da quello dell’antico allievo di Lampedusa, la monografia di Samonà gli era complementare nelle finalità e nei propositi e riusciva laddove il Ricordo era almeno in parte fallito, proprio a causa della sua scarsa circolazione. Essa contribuiva a spostare in maniera decisiva l’asse critico dal «caso Gattopardo» alla figura e all’opera dell’artista.
Lo studio di Samonà rendeva innanzitutto più identificabile la fisionomia umana e letteraria di un autore che veniva considerato ancora come un outsider misconosciuto, per quanto di genio, all’interno del nostro sistema letterario11.
7 Per questo concetto, cfr. G. Nencioni, Leopardi e Gattopardi. Due scrittori a confronto, in «Il lettore di provincia», 2004, 119-120, pp. 9-36.
8 B. Marshall, L’esperienza della modernità, trad. V. di Lalli, rivista da A. Bertoni, Introduzione di E. Battisti, Bologna, Il Mulino, 2012 (19851).
9 Il Gattopardo, cit., p. 237.
10 Samonà riconosce nel Ricordo un «testo di confronto continuo e obbligato per chi voglia studiare o soltanto meglio conoscere lo scrittore siciliano»: Id., Il Gattopardo. I Racconti, cit., p. 359. Il libro di Orlando è ormai unanimemente considerato una dei testi fondanti dell’esegesi lampedusiana.
11 Soltanto negli anni Ottanta avrebbero visto la luce due saggi essenziali per ricostruire l’anagrafe culturale di Lampedusa, entrambi a firma di N. Zago: I Gattopardi e le Iene., cit., (1982 1; nuova ed. 1987) e nel 1987 Tomasi di Lampedusa. La figura e l’opera, cit.. Sul finire di quegli stessi anni verrà pubblicata la I ed. della monumentale monografia di A. Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo, Sellerio, 1987, frutto di un lunghissimo lavoro di ricerca. La sua edizione definitiva,
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Inoltre, dopo tanti anni di vacue discussioni teoretiche, spesso inficiate da pregiudizi ideologici e politici che poco avevano da fare con il valore del romanzo, la sua rilettura oltre a dare un impulso decisivo agli studi sullo scrittore, gettava le basi metodologie per una sua più corretta interpretazione.
Uno degli snodi principali della riflessione critica di Samonà, riguardava il tipo di solidarismo espresso dallo scrittore nel suo romanzo. La particolare connotazione ideologica che esso assumeva nel Gattopardo lo spingeva ad accostarlo a quello espresso da Giacomo Leopardi nell’ultimo dei suoi Canti.
Nel capitolo intitolato La «Ginestra» lampedusiana, nel quale si analizza la
Parte VI del romanzo, ambientata tra le mura di palazzo Ponteleone, lo studioso si
sofferma, difatti, sul peculiare rapporto che il principe Fabrizio istaura con gli altri uomini12. E, per la prima volta, egli dava un nome a un atteggiamento tipico di questo eroe, parlando per l’appunto di un «approdo solidaristico»13.
La riflessione di Samonà nasceva da alcune precise constatazioni legate al carattere e alla sensibilità del personaggio assiale e, naturalmente, al suo modo di intendere l’umano esistere.
Don Fabrizio è creatura cinica e disincantata, incline alla solitudine; poco propensa a vivere a stretto contatto con gli altri e a condividerne l’intimità. D’altronde, secondo il giudizio di padre Pirrone «in tutte le radici del suo cuore [di don Fabrizio] gli “altri” gli sembrano tutti esemplari mal riusciti, maiolichette venuti fuori sformate dalle mani del figurinaio»14. La presenza del fiero gattopardo nella villa dei suoi amici è dettata dal motivo contingente dell’ingresso ufficiale di Angelica tra la nobiltà, ma ingenera nel suo animo un profondo malumore.
aggiornata e ampiamente riveduta, che costituisce una sorta di «enciclopedia gattopardiana», è del 2008.
12 G. P. Samonà, Il Gattopardo. I Racconti, cit.: il capitolo in questione si trova alle pp.149-161. 13 Tale concetto che trova proprio ne La «Ginestra» lampedusiana la più organica esposizione, viene comunque declinato variamente e variamente approfondito da Samonà nell’arco dell’intero saggio. 14 Il Gattopardo, cit., p. 195.
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La serata mondana si trasforma ben presto per lui in una tortura; il gigante