I. TITANISMO E CHIAROVEGGENZA DISINCANTO
1.2 L’ISOTOPIA DEL TITANISMO
Lampedusa ha voluto creare con don Fabrizio Corbera di Salina, principe del regno e astronomo dilettante, un uomo grande in senso fisico. Anzi, ne ha fatto, secondo la sua stessa definizione, un «gigante»10. La sua creatura possiede un corpo «immenso e fortissimo» ed è talmente alta che «la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari»; talmente possente che «l’urto del suo peso […] faceva tremare l’impiantino» e faceva «gemere il divano sotto il proprio peso»11. Gli dona, inoltre, una forza smisurata che gli consente, con una semplice pressione delle dita, di «accartocciare come carta velina le monete da un ducato»; infine lo circonda di oggetti esageratamente grandi, come
7 Premessa ai Racconti, cit., pp. 413-428. 8 I Ricordi, cit., p. 438.
9 Per il concetto di isotopia, introdotto in linguistica da A. J. Greimas, cfr. C. Segre, Avviamento
all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino, 1985, pp. 32-34. Da un punto di vista semiotico, secondo la definizione di U. Volli, l’isotopia è «un insieme di categorie semantiche ridondanti che rendono possibile la lettura uniforme di una storia», Id., Manuale di semiotica, Bari, Laterza, 2004, p. 69.
10 Il Gattopardo, cit., p. 27. 11 Ivi, a p. 29, 28 e 63.
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«lo smisurato Messale rosso» di cui il principe si serve durante la recita del Rosario12.
A queste inusuali qualità fisiche, si assommano attributi morali equivalenti e altrettanto straordinari. Don Fabrizio possiede anche il sentire di una deità capricciosa o di un imperscrutabile eroe dei miti. È incontentabile, arrogante, autoritario, facile preda dell’iracondia; vorace nei suoi appetiti sensuali. È orgoglioso come solo i Salina sanno esserlo13.
La presentazione dell’eroe gattopardiano si completerà poche pagine più avanti, quando nel quarto microsegmento l’autore contrapporrà alla «mano infantile» della principessa «la potente zampaccia » del marito e attraverso il richiamo a questo elemento zoomorfo avvierà, dopo averlo preannunziato sin nel titolo dell’opera, un ulteriore processo di identificazione tra il protagonista e il fiero animale araldico che campeggia sullo stemma nobiliare della casata dei Salina14.
Considerate queste premesse, appare evidente che lo scrittore abbia voluto istaurare da subito una duplice isotopia figurativa. Fare in modo che la sua creatura fosse sia un gigante che un uomo-gattopardo. Attraverso la sovrapposizione di queste due immagini, egli ha donato al suo eroe una corporeità tangibile e, a tratti, persino perturbante. Talmente fuori misura e diversa, da costituire per sé stessa una significativa cifra di alterità.
Soffermiamoci sul primo termine di questa isotopia.
Il titanismo del principe domina le prime pagine del romanzo, dando una precisa connotazione alla sua descrizione15. Lampedusa vi insiste sino a renderlo un elemento di contenuto molto rilevante nell’ economia dell’opera. Non a caso ci offre
12 Ivi, p. 29.
13 Nel Gattopardo Lampedusa attribuisce al suo eroe dal «cipiglio zeusiano» (p. 30), una «contenuta ira» (p. 29); una «collera grande » (p. 27); una «prepotenza capricciosa» (p. 29). Dell’iracondia di don Fabrizio, che altro non è che una «falsa violenza», ci viene invece dato ragguaglio dallo stesso autore nella Lettera a Enrico Merlo, cit., p.18.
14 Il Gattopardo, cit., p. 38. Sull’identificazione con l’animale araldico, cfr il cap. di questa tesi intitolato Morfologia del solidarismo.
15 Alcuni suggerimenti e suggestioni per questo paragrafo, sviluppato però in maniera del tutto autonoma, mi sono venuti da F. Orlando, L’intimità e la storia, cit., e soprattutto dal I cap., Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile, pp. 27-82.
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una serie di riscontri che ci permettono di misurare la distanza reale, fisica e psicologica, che si crea tra don Fabrizio e gli altri comuni mortali. Poniamo attenzione ai rapporti che egli istaura con chi gli sta attorno.
All’interno della cerchia familiare, la sua grandezza oscura gli altri e spesso diventa tirannide. Egli tiene in scacco la consorte, la fiera, nevrotica e «prepotente» Maria Stella; e mortifica e intimidisce i figli, sino a renderli suoi «servi» oppure sino a costringerli a una fuga indecorosa16. È questo, ad esempio, il destino che è toccato a «Giovanni, il secondogenito, il più amato, il più scontroso», che si è lasciato inghiottire dalla «nebbia fumosa di quella città eretica » che è Londra17. In questa metropoli, dopo avere rinunciato agli agi palermitani, il figlio perduto ha scelto di vivere un’esistenza anonima e dimessa18.
Sin dal loro primo apparire, dunque, moglie e figli si dispongono attorno al principe come pedine su un’invisibile scacchiera, pronte ad essere sacrificate ad ogni suo volere e capriccio.
Il bisogno del principe di prevalere sugli altri trova sfogo persino nella figura di padre Pirrone, il gesuita a cui egli stesso riconosce doti non comuni di intelligenza e innegabili virtù morali. E si esercita infine sulle amanti, come nel caso emblematico della prostituta Mariannina, avvezza a piegarsi alle voglie del suo padrone con l’intollerabile mansuetudine delle bestie.
L’unica, significativa infrazione riguarda Tancredi. L’amore incondizionato che il gigante nutre nei suoi confronti, lo porterà persino a giustificare il tradimento che il nipote consuma ai danni della figlia Concetta, che avrebbe dovuto sposare. E poco importa che lo faccia in nome di una suprema “ragion di stato”, spinto dalla necessità di favorire l’ alleanza tra la moribonda aristocrazia terriera di cui lui e il
16 Il Gattopardo, cit., pp. 28-29.
17 Ivi, p. 38. In realtà quello del secondogenito è l’unico atto di disubbidienza consentito dal principe ad una persona che non sia Tancredi.
18 La lingua dei rapporti spaziali ci suggerisce che in questa Parte I, per Giovanni, la metropoli inglese non è l’Altrove tanto desiderato dai rampolli aristocratici del suo tempo, né uno spazio vergine in cui dare inizio ad una vita migliore. Somiglia, piuttosto, ad un buco nero dal quale lasciarsi risucchiare per vivere «la modesta vita di commesso», Il Gattopardo, cit. p. 38. Nella Parte VII si verifica, invece, un ribaltamento: Londra diventata per il ragazzo un luogo di promozione sociale, visto che dopo quegli anni di stenti, si è messo a commerciare brillanti, ivi, p. 237.
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giovane Falconieri fanno parte e la rozza borghesia in ascesa rappresentata dai Sedàra.
Gli stessi squilibri si riflettono anche al di fuori dell’ambito familiare. Lampedusa ci avvisa che tra i suoi simili, don Fabrizio «passava per essere uno stravagante», ma che in verità «si trovava spesso isolato non già per rispetto, come credeva, ma per timore»19. Tuttavia, di qualunque natura sia la distanza che lo separa dagli altri, è pur vero che il suo «disprezzo» non risparmia nessuno: né i parenti, né gli amici20. Gli uni e gli altri sono colpevoli ai suoi occhi di non sapersi proiettare oltre i miserandi confini dell’attimo presente.
Coinvolgendo la descrizione del protagonista e dei suoi comportamenti nella dinamica dell’azione, Lampedusa ha finito con l’insinuare nel lettore la consapevolezza che il principe-gigante sia destinato a dominare il mondo. Vuole indurci a credere che la sua alterità risieda nel corpo immenso e nella vastità delle passioni a cui si abbandona: il sesso, il cibo, l’orgoglio.
Invece, con un imprevedibile cambio di scena, l’isotopia figurativa del titanismo, sino ad ora disposta in un climax ascendente, si arresta e implode nelle ultime righe con cui si conclude questo segmento di presentazione.
L’uomo che nelle prime battute sembra godere nel «signoreggiare su uomini e fabbricati», diventa nella chiusa semplicemente il «povero Principe Fabrizio»21. A uno scrittore del calibro di Lampedusa, così come già a Stendhal, occorrono davvero poche parole per condensare in un’immagine lapidaria un variegato mondo di sensazioni. Basta un semplice aggettivo per ridimensionare il gigante e svelare il dissidio interiore che ne fiacca le forze e lo prostra.
Più avanti, alcune brevi frase precisano i termini di questa «povertà». Non soltanto nel silenzio della propria coscienza egli trascina i suoi giorni «in perpetuo scontento» di sé; ma, alla stregua dell’uomo-coniglio Màlvica, il cognato che merita solo il suo biasimo, anche lui rimane un soggetto imponente e passivo dinanzi allo
19 Ivi, p. 216. 20 Ivi, pp. 28-29. 21 Ivi, pp. 29 e 30.
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spettacolo terrificante della «rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio»22. Né possiamo dimenticare che, dopo aver corteggiato a lungo la morte, l’anziano gattopardo si presenterà all’appuntamento fatale da «gigante sparuto» 23.
Malgrado oltrepassi le dimensioni dello spazio antropico abitato dai comuni mortali, anche don Fabrizio è una creatura sola, smarrita e confusa, che stenta a trovare un senso alla propria avventura terrena.
Giunti a conclusione di questa sequenza di presentazione ci accorgiamo, dunque, che Lampedusa si è servito del motivo del titanismo per amplificare il topos dell’insensatezza di quella fragile «facoltà di esistere, la vita insomma» su cui spesso si trova a riflettere il suo personaggio, oltre che per rimarcare la sostanziale incapacità degli uomini di disporre a piacimento del proprio destino24. Ci rendiamo conto che l’impalcatura dell’opera si regge sulle spalle di un fragile, straordinario titano che attraversa con la titubanza dei saggi, degli scontenti e dei disillusi, il tempo e lo spazio biografico che gli ha donato il suo autore.