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Fermiamo la nostra attenzione sul primo assunto.

Dalle Lezioni si evince che per Lampedusa il componimento misto di verità ed invenzione, malgrado condivida dei punti di contatto con la scrittura documentaria di tipo storiografico, deve mantenere talune sue irrinunciabili peculiarità.

Lo storico e lo scrittore, sebbene si incontrino su un terreno comune, mirano in realtà a risultati dissimili. Per tali ragioni, il narratore pur assicurando la veridicità del quadro di riferimento e recuperandone l’essenza più intima, non ha l’obbligo di assoggettare la mimesi romanzesca ad una ricostruzione obiettiva del reale. Le esigenze narrative sono preponderanti, al punto che il romanzo misto di verità ed invenzione, deve presentarsi, per usare le sue parole, come il «documento artistico di un’epoca storica», una testimonianza, dunque, dentro la quale è il magistero dell’arte, non certo l’oggettività del dato di fatto, dell’evento, ad avere un ruolo decisivo.

Si ripensi, a titolo esplicativo, alle pagine su Dickens nelle quali ci invitava a recuperare le innumerevoli strade senza tempo descritte nei suoi romanzi. Le parole di Lampedusa risuonano nitide nelle nostre orecchie. Queste strade, private di una referenzialità certa, lontane dal territorio e dalla carte topografiche, che dovrebbero vivere solo nella scrittura letteraria, diventano estremamente reali per il

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lettore. Difatti, evocate dall’arte, ri-nominate e ri-costruite dalla magia fabulatrice dell’artista, sono destinate a rappresentare ab aeterno, nell’immaginario collettivo, le sole autentiche strade dell’ inquieta Londra ottocentesca rappresentata dallo scrittore, e sospesa tra cupi livori del passato e i bagliori fluorescenti d’un futuro ancora lontano.

Gli scritti teoretici del principe sono variamente disseminati da osservazioni di tal genere.

Spostandoci da Londra alla Città Eterna, Lampedusa asserisce ad esempio che il più alto omaggio che le sia stato tributato si trovi oltre che in Stendhal anche in talune pagine di Chateaubriand. Grazie a costoro, Roma viene restituita al lettore «come creatura viva e non soltanto come serbatoio di ricordi»15.

Da ciò deriva un assioma incontrovertibile, che costituisce nei fatti il centro gravitazionale attorno a cui Lampedusa dispone la materia del Gattopardo: il postulato, di chiare ascendenze aristoteliche, della supremazia della letteratura sulla storia.

Secondo lui, senza la mediazione dell’arte, la sostanza storica di una determinata epoca passata potrebbe essere destinata ad evaporare senza lasciare traccia. Solo l’arte, ci suggerisce più volte, possiede al sommo grado la capacità evocativa, una qualità ad essa peculiare, ma che diventa tanto maggiore e ineffabile quanto più grande è l’artista che se ne serve16.

Per questa ragione, all’interno del suo canone, Stendhal è superiore a Balzac e la Chartreuse primeggia decisamente, nel suo cuore, su le Rouge et Noir. Quest’ultimo è opera-documento entro i cui amplissimi confini l’hegeliano spirito del tempo dell’epoca in oggetto non trova spazio semplicemente come rappresentazione testimoniale, ma viene rivissuta attraverso il filtro letterario.

15 Ivi, p. 1879; in questa stessa pagina si legge: «Non parlo di Belli perché egli è stato evocatore impareggiabile soltanto della plebe romana e non di tutta la città».

16 L’alta occorrenza del verbo “evocare” nelle Lezioni su Stendhal, non può non ricondurci alla fertile esperienza della prosa d’arte, soprattutto, alla «Ronda» e agli scrittori cosiddetti evocativi che gravitavano nella sua orbita. Su questo aspetto specifico cfr. N. Tedesco: Id., Le due nascite, in «Nuove Effemeridi», cit., pp. 96-98, ma anche, Id., Il sangue della nascita, cit., pp. 28-45.

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Tutto questo non autorizza il narratore a travolgere il dato storico o rinnegare l’elemento fattuale, però riconsegna la rappresentazione realistica a ciò che Lampedusa definisce la «fantasia regale dell’autore».

Naturalmente, viene da chiedersi cosa accada nel passaggio dalle riflessioni teoretiche delle Lezioni all’esercizio della scrittura narrativa. Partendo dalla irrinunciabilità di questo presupposto –la supremazia dell’arte–, quali sono, secondo il principe, le modalità di messa in romanzo della Storia e quale tipo di rapporto, da autore di fabulae storiche dovrà istaurare con il dato reale?

Neppure da narratore Lampedusa manifesta dubbi.

La Storia ha bisogno di essere reinterpretata dallo scrittore. Sarà di sua pertinenza dettare di volta in volta gli equilibri tra la sostanza storica, oggetto di rappresentazione, e il «documento artistico» nato per accoglierla. La scrittura narrativa non deve offrire una riproduzione cronachistica degli eventi; piegarsi a registrare la nuda datità dei fatti. Non potrebbe essere altrimenti, visto che, nel suo personale linguaggio esegetico, l’arte è «visioni»17, «magia trasformatrice»18; persino «“rifrazione” deformante» della realtà19.

Un esempio del modus operandi tipico di Lampedusa, ci viene offerto da quella pagina del suo romanzo in cui vengono descritti i fianchi del monte che domina Palermo. Nella rappresentazione gattopardiana essi sono «arsicci, scavati e eterni come la miseria»20. Eppure, come dimostrano le osservazioni dello storico Enrico Iachello, già «all’epoca del Gattopardo, i fianchi del Monte Pellegrino erano però tutt’altro, sulle sue terre usurpate l’operosità contadina aveva avviato la coltura del sommacco destinata a grande espansione»21.

Poco importa se la distanza, l’incrinatura, che la scrittura attua rispetto al dato reale sia voluta o meno (con uno scrittore come il principe, il dubbio è legittimo). Quel che è certo è che il narratore, facendo prevalere l’elemento

17 Letteratura inglese, cit., p. 1118. 18 Ivi, cit., p. 1125.

19 Ivi, p. 1117.

20 Il Gattopardo, cit., p. 52.

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connotativo su quello referenziale, sta esercitando la sovrana prerogativa dell’arte. Difatti, la descrizione tomasiana, inesatta da un punto di vista storico è però, come sottolinea lo stesso Iachello, strettamente funzionale alle ragioni poetiche della

fabula.

Ci troviamo in quel punto del romanzo in cui l’enunciazione sulla eternità della miseria umana dentro la quale, come in un limbo, è sospesa la Sicilia-mondo, serve da contrappunto alla riflessioni del principe sulla celebre frase pronunciata da Tancredi. La connotazione, affidata ad aggettivi forti, veicola l’attenzione del lettore verso il messaggio che l’autore vuole rendere preponderante: la sostanziale immutabilità d’ogni cosa.

Anche in questo caso, l’operazione compiuta da Lampedusa non mi sembra poi molto dissimile –naturalmente a livello strutturale, non certo ideologico– da quella di Verga ne I Malavoglia o nella novella Libertà (è ormai assodato che il grande esponente del verismo abbia attuato spesso uno scarto significativo nei riguardi del particolare storico22).

Probabilmente lo scrittore palermitano non ha mai voluto descrivere i fianchi dei Monti Pellegrini -così come Verga non ha mai voluto “ritrarre dal vero” Bronte o Acitrezza. Basti pensare che i numerosi proverbi presenti nei Malavoglia e su cui poggia parte rilevante della sua struttura appartengono alle zone interne della Sicilia, non certo a quel lembo di terra marina. Ciò testimonia che la comunità dei pescatori di Acitrezza possiede all’interno del romanzo verghiano una sua precisa fisionomia letteraria, prima che storica23.

22 Cfr.: I Malavoglia letti da G. Giarrizzo e F. Lo Piparo, Palermo, EdiKronos, 1991; R. Luperini,

Verga moderno, Bari-Roma, Laterza, 2005; A. Manganaro, Verga, cit. Questi studi, hanno anche avuto il merito di mettere in evidenza il lavoro preparatorio condotto da Verga sull’inchiesta privata di Franchetti e Sonnino o sulle opere del Pitrè e che fanno dei Malavoglia, come già segnalato a suo tempo da Francesco Torraca (I Malavoglia, in «Rassegna», 9 maggio 1881) un romanzo sociologico. In realtà, I Malavoglia è un’opera più sperimentale, soprattutto se rapportata al Mastro e alla sua struttura, facilmente assimilabile a quella di un romanzo europeo ottocentesco.

23 A tal proposito si legga quanto scritto da A. Manganaro su I Malavoglia: «Il romanzo non è concepito come una riproduzione speculare, come un trasferimento meccanico del mondo esterno all’interno dell’opera, ma come esito di un “lavoro di ricostruzione intellettuale”, ossia di un processo di conoscenza storica e di mediazione e generalizzazione estetica», Id., Verga, cit., p. 92.

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Come il maestro catanese, anche il narratore onnisciente Lampedusa che ha pieno potere sui pensieri e sulla vita dei suoi personaggi, si muove a proprio piacimento tra i territori della Storia e quelli della Letteratura. Spesso la “disattenzione” storica, la mistificazione dei fatti, lo scarto altro non è che l’imprimatur dell’artista, il modo attraverso cui rappresenta la propria idea del mondo e degli uomini. D’altra parte, il principe ci aveva già avvertiti: lo scopo dell’arte non è quello di offrirci

una piatta riproduzione fotografica, ma un quadro nel quale l’artista ha trasformato con la sua visione la realtà, in modo di far risaltare […] i suoi caratteri essenziali e il segreto del suo spirito24.

Nel suo romanzo Lampedusa si preoccupa di assicurare il verosimile, non di certo il vero. Ed anzi è il verosimile che assurge ad elemento preponderante della rappresentazione gattopardiana.

Nel tessuto del romanzo non prevale mai lo stravolgimento radicale del dato oggettuale, ma vi è quasi sempre una ri-semantizzazione poetica del reale25. Naturalmente il “verosimile” del principe, per i motivi a cui abbiamo già accennato, non può non essere molto distante dalla categoria manzoniana che opera nei

24 Letteratura inglese, cit., p. 1118-1119. Siamo nella sezione dedicata a Dickens.

25 È utile in questo contesto il riferimento ad un saggio di A. Manganaro, Terra e libertà per Verga, in Sulla strada dei Mille. Cinema e Risorgimento in Sicilia, a cura di S. Gesù, Catania, Brancato Editore, Centro Studi Cinematografici-Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, 2011, pp. 103-106. In esso, lo studioso tratta della disillusione di Verga nei confronti della storia e di quella risorgimentale in particolar modo. Soprattutto, in queste pagine torna centrale un problema di teoria letteraria particolarmente avvertito dallo stesso Lampedusa: quello dell’alterazione dei fatti storici o delle rimozioni che vi opera l’artista. Spingendosi oltre la lettura che ha già offerto Sciascia sulle mistificazioni operate da Verga in Libertà, Manganaro pone l’accento sul «gioco combinatorio» e sulle ragioni dell’arte come declinazione dell’assioma aristotelico della universalità della letteratura rispetto alla rappresentazione del particolare tipica degli storici. Aristotele, infatti, si occupa «della superiore mistificazione che è superiore verità», Id., Poetica, Introduzione e trad. di G. Paduano, Roma-Bari, Laterza, 2007. Ivi, a pp. 19-21 troviamo il più celebre tra i suoi giudizi di valore: «Lo storico e il poeta non differiscono tra loro per il fatto di esprimersi in versi o in prosa […] ma differiscono in quanto uno dice cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari».

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Promessi Sposi, e rigettata, infine dal grande autore lombardo, dopo una riflessione

teoretica incessante e sistematica, a favore del “vero”.

Questo non significa, naturalmente, che Manzoni non trovi posto nell’universo compositivo tomasiano. Purtroppo, Lampedusa non ha tracciato un profilo storico-critico della letteratura nazionale e sono troppo pochi accenni agli autori italiani che si trovano disseminati nelle Lezioni per permetterci di ricostruire un quadro d’insieme, ma anche per essere sicuri che egli abbia voluto delineare un canone di esclusione, come invece taluni hanno voluto credere. Tuttavia, la presenza del «romanzetto dei due promessi sposi», è ben presente nel capolavoro del nostro autore.

A Lampedusa non interessa essere un narratore storiografo, pignolo nella ricerca delle fonti; attento a trovare le radici del male che inquina la vita degli uomini. Non è ossessionato dall’ansia di cercare e ricucire il punto smagliato nella rete del grand recìt e non è desideroso di dare voce a tutti coloro che sono stati sospinti ai margini dell’esistenza: la folla anonima dei diseredati, degli umili, degli untori.

Soprattutto, al contrario di Manzoni, non si preoccupa di assicurare all’ordito del suo romanzo un continuo raccordo tra i fatti privati e quelli pubblici. Di ricreare, cioè, nel Gattopardo, quel particolarissimo genere di intreccio che disvela «uno speciale movimento di scambio tra l’individuo e la storia» ed assicura « un rapporto di inversa proporzionalità tra i due poli, per cui alla posizione di massima

inessenzialità dell’individuo dentro la storia […] corrisponde una posizione di massima essenzialità della storia dentro la vita dell’individuo»26.

Il principe palermitano è un intellettuale decadente e uno scrittore della crisi. Egli non crede più che la Storia sia il luogo pubblico dove l’agire umano o le grandi idealità nutrite dagli uomini, trovino forza e ragione d’essere. Nel suo orizzonte d’attesa non è contemplata la presenza salvifica o provvidenziale d’una qualsiasi divinità –neppure abscondita. Né esiste più per lui un sistema di valori certi e

26 D. Brogi, I Promessi Sposi come romanzo storico, in Il romanzo e la storia, cit., 1-2, pp. 93-112, a p.106.

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condivisibili. Esponente di una classe condannata a morte dalla Storia, è deprivato dunque anche dell’antico legame con la sua comunità d’appartenenza, Lampedusa è doppiamente solo.

Con lui si accentua quel fenomeno gnoseologico tipico della cultura novecentesca che porta al progressivo soggettivizzarsi della coscienza storica. Parafrasando quanto Luperini ha asserito per Flaubert, possiamo dire che anche per il nostro autore «il movimento della storia non è la sostanza che spiega i comportamenti del personaggio»27.

Anche per il principe si è ormai concretizzato uno scollamento sostanziale tra la sfera pubblica e quella privata. La messa in romanzo dei fatti reali, le modalità attraverso cui si articola nel tessuto narrativo l’elemento-storia non può non risentirne.

I personaggi di Lampedusa non sono collocabili lungo l’asse di un tempo lineare e non subiscono gli eventi pubblici, come «il turbine» che tutto «involve nella sua rapina». Vivono piuttosto entro la fragile bolla dei propri pensieri; e ogni cosa riconducono entro l’orizzonte esperienziale della propria coscienza. In virtù di ciò, la giornata di don Fabrizio nella Parte I del Gattopardo, può continuare a svolgersi come sempre, anche se vi è appena stato lo sbarco dei garibaldini sulle coste della Sicilia e si stanno moltiplicando i fuochi dei bivacchi degli insorti, che punteggiano la chiostra dei monti attorno alla città.

A causa di un ribaltamento sostanziale dei «tradizionali punti di riferimento dell’antropologia romanzesca»28, non esiste più un raccordo plausibile tra i personaggi e i grandi eventi che pure si succedono attorno a loro. E l’historia rerum

gestarum, contrariamente a quanto può accadere per i due popolani manzoniani, non

offre agli uomini alcuna esperienza di crescita. Per questa ragione, per tornare ad una celebre espressione tomasiana, la Storia può essere ridotta ad un «ambiente»29. I grandi avvenimenti rimpiccioliti, trasformati in poca cosa .

27 R. Luperini, Flaubert e Verga e il 1848, ivi, cit., pp. 147-156, a p.151. 28 Ivi, p. 152.

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Eppure, la lezione di Manzoni è irrinunciabile.

Esattamente come accade per il Seicento di donna Prassede e del cardinal Federigo, anche l’Ottocento di don Fabrizio è metafora del tempo in cui i nostri due autori scrivono i loro romanzi. Ed anche per il siciliano, la Storia rifiutata nei suoi nessi di causa ed effetto, distante dalla biografia dei singoli, è però necessaria per capire il presente.

Inoltre, nel Gattopardo, lo spazio meditativo del soliloquio e del monologo interiore, è di gran lunga maggiore di quello accordato ai dialoghi. Non possono non essere stati presenti alla mente del principe mentre “costruiva” il suo romanzo, la straordinaria profondità dei monologhi manzoniani –valga per tutti quello dell’Innominato; o la sua capacità di delineare la dimensione psicologica dei personaggi. Un punto di raccordo tra i due ci riconduce poi all’uso assai simile che entrambi fanno dell’ironia.

Sia nell’uno che nell’altro scrittore, l’ironia è esercizio irrinunciabile d’intelligenza. Una superiore forma di comprensione delle umane cose. Ma anche una modalità espressiva fondamentale per l’economia del romanzo, alla quale il narratore onnisciente ricorre quando ha necessità di attuare un distanziamento immediato dal nucleo incandescente della materia trattata. Tuttavia, non dobbiamo neppure dimenticare che entrambi gli autori appartengono all’aristocrazia e che, dunque, il ricorso all’ironia non trova giustificazione semplicemente in un’esigenza formale, ma in un antico e condiviso sistema pedagogico educativo.

E forse possiamo persino immaginare che Lampedusa sconti il suo debito di riconoscenza verso Manzoni, quando decide di premettere alle varie parti del suo romanzo quei brevi cappelletti introduttivi o sommari, di cui la nostra letteratura ha fatto vario uso dal Decameron in poi, ma che tanto ricordano, anche quelli dei

Promessi sposi30.

30 Questi cappelletti, relegati ormai nell’Indice analitico messo alla fine romanzo, «Da un lato richiamano quelli classici del Decameron, sono quindi proiettati verso il passato, dall’altro sembrano delle “scalette” del narratore sugli argomenti da trattare, ma con delle possibili intrusioni del personaggio focalizzatore, quasi sue annotazioni diaristiche (come diaristiche sembrano le indicazioni temporali all’inizio dei vari capitoli)»: F. Musarra, L’ironia come sistema, cit., p. 27.

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Lo scarto da Manzoni, però, è anche altrettanto evidente.

I due autori appartengono a epoche assai distanti tra loro e si rendono interpreti di due diverse idee del divenire storico. Lo scrittore lombardo può ancora credere fermamente che la scrittura sia «un atto di ricostruzione temporale»31. Per Lampedusa, ciò è impossibile. La mimesi narrativa può accogliere solo «la ricostruzione di un certo spazio in un tempo eterno».

Per il principe l’avvicendarsi delle stagioni nella vita dell’uomo scandisce semplicemente il fluire misterioso, minaccioso e inafferrabile di un Tempo eterno o cosmico –in alcuni grandi autori a lui coevi, come la Woolf o Joyce, le stagioni hanno frattanto già ceduto il posto ad unità cronologiche ancora più piccole: i giorni; le ore; l’oceano fragoroso dei singoli istanti.