2. La tregua di Primo Levi
2.3 Lavoro della memoria e credibilità
2.4.1 Primo
Il personaggio di Primo costituisce senz’altro la presenza centrale della Tregua. Infatti, la condizione di superstes, che fa di lui un testimone autentico dell’evento che ha vissuto fino in fondo e che racconta, lo rende anche il protagonista per eccellenza di questo testo. Ciò non significa che in sé occupi uno spazio narrativo particolarmente esteso: il suo protagonismo non è affermato con forza o enfasi particolari, ma risiede nel fatto preciso che Primo dimora, per forza di cose, con una radicalità unica dentro gli eventi narrati, e che in questo, come si osserverà, è anche portavoce di altri.
Nel suo raccontare Levi si avvale anche nei riguardi di sé stesso di una prospettiva tendenzialmente analitica, cercando di esprimere con precisione ciò che ha significato per lui il momento della liberazione dal Lager, con tutto il carico di aspettative, poi frustrate, che quell’esperienza ha innescato. Così, in Primo si alternano sensazioni eterogenee, che spaziano dall’allegria, improvvisa e spesso fugace, alla vergogna profonda legata al risentimento per l’offesa subita; dalla gioia incontenibile della notizia dell’arrivo dei sovietici all’immediata e angosciante perplessità sull’effettiva consistenza della liberazione; dalla percezione della libertà alla realizzazione sgomentante del suo fraintendimento.
Sullo sfondo, campeggia una domanda implicita: fino a che punto si può parlare di un grado di umanità effettivamente riacquisito dai sopravvissuti, o di un ordine delle cose nuovamente individuabile? Che esseri umani sono quelli che sembrano ora essere stati risvegliati alla vita? Non esiste nel testo una risposta razionale a questo quesito, ma sempre e solo la constatazione non razionale per la quale «il mondo intorno [a loro] sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera» [T 36].
In questa cornice s’inserisce Primo, rappresentato, anch’egli, attraverso i suoi comportamenti. La loro narrazione poggia sul resoconto di spaccati di quotidianità, riferita così come si configura e si evolve lungo tutto il viaggio, con le sue continue soste e ripartenze.
La Tregua lascia emergere soprattutto il mondo interiore di Primo, all’opposto, per esempio, di quanto accadeva per il personaggio di Natalia in Lessico famigliare. Per lei la censura riguardava soprattutto la sfera del dolore. In questo caso, invece, Levi non opera alcuna ellissi su sé stesso: non manca, anzi, di esprimere ciò che prova e ciò che pensa, e questo accade sia per mezzo del racconto delle sue reazioni personali a fatti specifici, a incontri, a ratificazioni di ordini, a ideologie e atteggiamenti, sia attraverso l’enunciazione dei desideri che gli si muovono dentro.
Ma in che modo il narratore fa sì che affiorino questi squarci della sua interiorità? A ben vedere, infatti, egli non dice “io” così frequentemente nel testo; anzi, si potrebbe asserire che parli poche volte in prima persona. La voce di cui Primo Levi si avvale per esprimersi è essenzialmente quella del “noi”: egli racconta non solo a nome proprio, ma anche – e, nell’ottica testimoniale, soprattutto – a nome dei suoi compagni che non possono raccontare, di coloro che hanno vissuto sulla propria pelle insieme a lui lo stesso aberrante destino. La dimensione relazionale della collettività, e quindi dell’appartenenza solidale a una comunità che ha condiviso nel profondo l’esperienza del trauma è centrale nel racconto.
Tuttavia, occorre precisare che il “noi” della Tregua comprende in realtà almeno due sfumature diverse: infatti, ci sono delle occorrenze in cui “noi” corrisponde alla voce di Primo e dei suoi compagni costituenti un gruppo, e altre in cui “noi” sembra coincidere
più propriamente con la voce di Primo. Si vedano alcuni esempi. Nel capitolo Verso nord, così il narratore scrive a proposito degli abitanti del villaggio ucraino di Žmerynka:
Chi erano, d’onde venivano e dove andavano? Non sapevamo: ma in quei giorni li sentivamo singolarmente vicini a noi, come noi trascinati dal vento, come noi affidati alla mutabilità di un arbitrio lontano e sconosciuto, che trovava simbolo nelle ruote che trasportavano noi e loro, nella stupida perfezione del cerchio senza principio e senza fine. [T 141-142]
È evidente il saldo senso di solidarietà che traspare da questo periodo: Levi sta parlando in qualità di esponente di una comunità, che prova compassione per un altro gruppo di uomini accomunato da una sorte analogamente aleatoria e incomprensibile.
Altre volte, il narratore sottolinea espressamente la consapevolezza di costituire, insieme, un “noi”. Lo fa descrivendo, per esempio, le modalità con le quali ci si suddivideva negli spostamenti in treno. Si legge in Da Staryje Doroghi a Iasi: «Ci preparammo per la notte. Dopo tanti mesi e trasferimenti, noi costituivamo oramai una comunità organizzata: perciò non ci eravamo distribuiti a caso nei vagoni, bensì secondo nuclei scontati di convivenza» [T 219-220].
Ancora, è indubbiamente il “noi” comunitario che, nell’ultimo capitolo, dal titolo Il
risveglio, si esprime a proposito dello stato d’animo che gli italiani provano nel momento
in cui transitano in Germania:
il fatto di sentire per la prima volta, sotto i nostri piedi, un lembo di Germania: non di Alta Slesia o di Austria, ma di Germania propria, sovrapponeva alla nostra stanchezza uno stato d’animo complesso, fatto di insofferenza, di frustrazione e di tensione. Ci sembrava di avere qualcosa da dire, ad ogni singolo tedesco, e che ogni tedesco avesse da dirne a noi: sentivamo l’urgenza di tirare le somme, di domandare, spiegare e commentare, come i giocatori di scacchi al termine della partita. [T 248]
Tuttavia, come si diceva, il “noi” sembra in altri casi schiudere più nitidamente la voce di Primo. Questo accade quando il narratore si sofferma a pronunciare considerazioni più particolari, legate a desideri personali, e sulle quali egli indugia più a lungo. Così, per esempio, nell’argomentare il sentimento della nostalgia, e il conseguente desiderio di solitudine, nel racconto del periodo vissuto nella Casa Rossa:
Furono mesi d’ozio e di relativo benessere, e perciò pieni di nostalgia penetrante. La nostalgia è una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più intima, più umana delle altre pene che avevamo sostenuto fino a quel tempo […].
Forse per questo, la foresta intorno al campo esercitava su di noi una attrazione profonda. Forse perché offriva, a ognuno che lo ricercasse, il dono inestimabile della solitudine: e da quanto tempo ne eravamo privi! [T 174]
Un taglio simile ha l’apertura del capitolo Vacanza, in cui è messo a fuoco il bisogno di recuperare una dimensione pienamente umana, relazionale e lavorativa:
Come sempre avviene, la fine della fame mise allo scoperto e rese percettibile in noi una fame più profonda. Non solo il desiderio della casa, in certo modo scontato e proiettato nel futuro: ma un bisogno più immediato e urgente di contatti umani, di lavoro mentale e fisico, di novità e di varietà. [T 189]
Se si tratta di una necessità che deve aver accomunato molti dei reduci da Auschwitz, è però vero che Levi sta qui dando spazio specificamente a ciò che lui, in prima persona, ha provato in quel frangente. È il suo bisogno di legami, e quindi la sua individualità, non una voce corale e anonima, a prendere la parola dentro il “noi”.
Questa condensazione dell’io narrante nella prima persona plurale è mantenuta per quasi tutto il racconto. Il “noi” cede definitivamente il posto all’“io” solo nella conclusione dell’ultimo capitolo, cioè quando Primo si separa effettivamente dai suoi compagni per raggiungere Torino. È il tempo – quasi irreale quanto il resto – profondamente atteso e insistentemente procrastinato del ritorno alla vita.